“La più consistente scoperta che ho fatto pochi giorni dopo aver compiuto sessantacinque anni è che non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare.”
Con questa frase, il malinconico Jep Gambardella – scrittore ed animale mondano relegato al vortice della decadenza e della noia interpretato magistalmente da Toni Servillo ne “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino – prova a tracciare una linea ben precisa su ciò che è meritevole o meno della sua attenzione. Più che altro, su quali aspetti della quotidianità una persona non più di primo pelo può o meno investire il proprio tempo che scorre, inesorabile, come granelli di sabbia verso la fine della clessidra della vita.
Io – che di anni invece ne ho considerevolmente meno – quest’anno ho comunque deciso di prendere in prestito questo modello comportamentale. Ma di modellarlo, in modo da renderlo funzionale ad un’età diversa. Il mio assunto è diventato quindi:
“La più consistente scoperta che ho fatto pochi giorni dopo aver compiuto trent’anni è che non VOGLIO più perdere tempo ad inseguire piaceri effimeri, ma coltivare esperienze che possano avere un beneficio duraturo.”
Per anni l’Amsterdam Dance Event è stato il playground ideale per soddisfare la smania di voler fare tutto ed ancora di più per cinque giorni consecutivi: andare a lavorare direttamente dal club di giovedì mattina, fare cinque feste in una sera sola perché c’erano artisti interessanti in ognuna, farsi svegliare dalle risorse umane alle undici del lunedì perché il cervello aveva ignorato la sveglia dopo giorni di privazione del sonno. Tutti esempi di ciò che sembra assolutamente normale quando si insegue una passione come un cane randagio dietro ad una macchina. La fame di farsi assorbire da qualcosa di nuovo ha un potere straordinario a livello mentale. E permette al corpo di reggere ritmi che normalmente non sarebbero lontanamente immaginabili.
Quando però si è vissuto qualcosa a cento all’ora per oltre dieci anni, è importante imparare a rallentare il battito e prendersi il tempo di apprezzare meglio ciò con cui ci si confronta. Di imparare il valore della scelta piuttosto che coltivare l’ingordigia. Quest’anno con ADE è stato così: meno feste sul tabellino vissute però con la giusta compagnia a controbilanciare, qualche ora di sonno in più per godere a pieno della parte diurna ed una viva curiosità nei confronti di ciò che risultava inedito. Ed inevitabilmente, quando si è più aperti ad abbracciare ciò che non si conosce, si tende anche ad apprezzare meglio tutte le piccole opportunità che una manifestazione del genere può regalare se solo si è abbastanza attenti da coglierle al volo.
Mai come quest’anno, ad esempio, il focus è stato posto su temi di grande rilevanza extra-musicale come la salute mentale, la lotta politica, la discriminazione di vario genere e le pari opportunità. Tutti segnali che quello stigma dietro certe questioni, anche nel mondo della nostra musica, sta pian piano crollando. Lasciando di conseguenza la possibilità alle persone che ne fanno parte di osservare alcune dinamiche da un’angolazione diversa e provare ad ampliare la propria visione d’insieme.
L’unico, grave effetto collaterale di questo processo è la reazione puramente di pancia tipica di chi è stato tenuto sotto silenzio per tanto tempo. Ed ora vuole urlare il proprio sdegno, come un fiume in piena che sfonda i propri argini spazzando via ogni resistenza: da chi sostiene che essere ansiosi o depressi può essere qualcosa di cui andare fieri, addirittura qualcosa di sexy. Questo senza rendersi conto che è fondamentale tracciare una linea bella grossa fra l’inadeguatezza tipica di una generazione sempre sotto i riflettori e le patologie che necessitano attenzioni diverse e che sono particolarmente diffuse fra le persone dotate artisticamente.
Passando per chi dimentica che le pari opportunità non sono qualcosa che dovrebbe essere riconosciuto garantendo un numero minimo di donne / omosessuali / neri / musulmani (e chi più ne ha più ne metta) in ogni contesto. Ma offrendo la miglior rappresentazione umana possibile per trattare un determinato tema o svolgere una certa mansione senza che l’appartenenza ad una particolare categoria ne infici la selezione. Se questo concetto non è ancora chiaro a tutti allora ci meritiamo davvero le quote rosa. Eppure la discussione tenuta in merito durante l’ADE ha visto una platea intera massacrare di insulti il moderatore del dibattito per il fatto che la kermesse non avesse il cinquanta per cento di donne nel proprio programma, come se fosse qualcosa da ricevere per partito preso. Questo, contestualmente al fatto di vedermi negata una domanda perché “Questo è il mio panel e do la precedenza alle donne” non mi ha lasciato particolarmente speranzoso che il messaggio corretto sia stato trasmesso.
Per concludere poi è stato trattato a fondo, sia al DeLaMar – il nuovo centro nevralgico che ha preso il posto del Felix Meritis già dallo scorso anno – che poi al Mediamatik per un pomeriggio intero, il tema del clubbing come strumento di lotta sociale. Hanno parlato rappresentanti di realtà diametralmente opposte come la Jazar Crew palestinese, il Nyege Nyege festival in Uganda, le organizzatrici di Mamba Negra a San Paolo ed alcuni dei membri fondatori dei movimenti sociali georgiani, confluiti poi nel progetto Bassiani/Horoom. La cosa importante di questa tematica è captare come la musica elettronica non sia niente più che una meravigliosa scusa per mandare un messaggio che varia in base al contesto. Se nella cultura occidentale attuale il clubbing è quasi sempre associato ad escapismo e mero divertimento, per altri può voler dire inclusività, resistenza, libertà. Ed è importante, per questo motivo, sfruttare un linguaggio accessibile come quello della musica per creare la voglia di ascoltare quel messaggio e comprenderlo fino in fondo.
Per ammissione dei ragazzi del Bassiani, molta gente che nel 2013 aveva assaltato le loro manifestazioni contro l’omofobia, lo scorso maggio – dopo gli arresti e le perquisizioni avvenute nelle ore precedenti – era al loro fianco a ballare di fronte al Parlamento in nome degli stessi diritti. Scusandosi per non aver capito prima. E che dove una volta c’erano venti persone contro ventimila, ora ce n’erano ventimila contro venti. E questo è forse il più critico dei compiti di chi ha a cuore certe tematiche: educare invece che esiliare e/o auto-esiliarsi, rendere comprensibile qualcosa di complesso anche a chi non è per forza sensibile al tema. Per questo motivo non concordo con chi auspicava la cancellazione di Konstantin dal cartellone dell’ADE dopo le dichiarazioni fuori luogo rilasciate durante un’intervista ad un magazine tedesco. La stessa gente che ha poi esultato quando il panel inizialmente auspicato, per stessa volontà dell’ADE, per chiarire la faccenda insieme a lui non si è realizzato. Credo invece che sarebbe stata un’opportunità preziosa. Ma non per vomitare addosso al colpevole di turno il malcontento generale, quanto per fargli capire la gravità che certe dichiarazioni possono avere quando si ha un certo tipo di esposizione. E soprattutto ribadire quanto sia profondamente sbagliato sostenere che il sesso, la religione, l’etnia o le preferenze sessuali di una persona possano fare una qualsiasi differenza quando si tratta di lavorare nel mondo della musica.
Il resto della settimana è scorso veloce come sempre, fra la prima partecipazione come giocatore di un membro di Soundwall (grazie ad Orchid per l’occasione) nella RA Cup – torneo di calcio benefico organizzato nella palestra del De School – e la solita miscela di eventi musicali: da Paul Kalkbrenner che ha stipato oltre cinquemila persone dentro ai docks di Amsterdam Noord con uno show coinvolgente dal primo all’ultimo minuto, alle cavalcate techno dei party Token e Semantica allo Shelter o Spielraum al Radion. Fino all’edonismo dei consueti after nel loft della A’Dam Toren con vista su tutta Amsterdam. Passando per la mostra multi-sensoriale curata da Ryoji Ikeda all’Eye Filmmuseum. Tutto racchiuso, paradossalmente, a pochi metri di distanza. Eppure così diverso.
Ma, come detto, la musica rimane solo una scusa per mandare dei messaggi. E l’Amsterdam Dance Event, anche quest’anno, è stata la nostra scusa per fermarci ed ascoltarli. E tornare poi a casa con la voglia di trasmetterli anche a chi non c’era, perché non rimangano parole nell’aria frizzante dell’autunno olandese.