Se dovessi trovare un grande comune denominatore che ha reso iconiche città come Berlino, Detroit o Amsterdam, sarebbe la capacità di combattere il disagio sociale, l’inadeguatezza e la mancanza di opportunità che la società imponeva come un’enorme spada di Damocle, andando a incanalare tutta l’energia prodotta da questa situazione di stallo nelle arti e nell’impegno per la comunità. Sfruttando la “fame” come spinta emotiva per far sì che la propria voce venisse finalmente ascoltata. Resistere per dimostrare di esistere.
Come tutte le grandi rivoluzioni culturali, peró, esistono fasi ben distinguibili, che potrebbero ricordare quei cicli di mercato che tanto piacevano ai nostri professori di economia aziendale. E che ci sono stati inculcati come dogmi religiosi da cui sarebbe stato possibile ricavare ispirazione anche in contesti insperati. Tipo un articolo di musica elettronica, dieci anni dopo. Bravo Prof. Gilardoni, mission accomplished!
Tra tutte, ho scelto di utilizzare l’esempio di Berlino perchè il ricordo dei movimenti e dell’ispirazione degli anni post-muro rappresenta un parallelo ideale con ció che ho vissuto nelle ultime due settimane fra le montagne (meravigliose) del Caucaso. E vi spiegheró il perchè fra un secondo. Se leggete abitualmente di musica elettronica, il nome di Tbilisi – ed in particolare del suo locale iconico, il Bassiani – non saranno di certo sfuggiti alla vostra attenzione. Per il lungo editoriale pubblicato da “Resident Advisor” un paio d’anni fa che li ha messi per la prima volta sulla mappa, ma anche e soprattutto per la manifestazione/rave organizzata, per quattro giorni consecutivi, davanti al Parlamento georgiano dopo la chiusura coattiva, a opera di polizia ed esercito, del Bassiani stesso e di un altro locale storico come il Cafè Gallery. A condire il tutto la detenzione di circa ottanta persone, fra cui i proprietari dei suddetti club. Accusati, tra l’altro, di spaccio di droga, offesa al pubblico decoro e chi più ne ha, più ne metta.
Insomma, i soliti stereotipi che gravitano attorno al mondo della musica elettronica da quarant’anni a questa parte. Da tempo immemore la comunità del clubbing è facile bersaglio della gogna mediatica, venendo additata come ricettacolo di perversione e mero escapismo dalla società civile. Ignorando, di fatto, tutte le qualità che da sempre la distinguono, come: uguaglianza sociale, libertà di espressione e senso di comunità. Tutte materie che un occhio (anche non troppo) attento potrebbe facilmente identificare una volta provato a cambiare prospettiva a riguardo. Ma che! Una bella lavata di capo a ‘sti qua della discoteca non vogliamo darla giusto per far capire chi comanda?
Quando il governo ha quindi calato la mannaia sui simboli del clubbing cittadino, la sensazione era probabilmente quella di poter contare – come avvenuto in passato – su un forte appoggio da parte dell’opinione pubblica, per i motivi di cui sopra. Specialmente in un Paese tuttora a grande matrice religiosa come la Georgia. Eppure, sorprendentemente, così non è stato. Quello che le istituzioni avevano sottovalutato è quanto la crescita di un certo tipo di sottocultura avesse fatto da viatico per fare breccia nel cuore della comunità, in particolare quella più giovane e curiosa. E che – come detto giustamente da una delle figure principali dell’attivismo capitolino, Paata Sabelashvili, nei panel recentemente organizzati durante l’Amsterdam Dance Event – quando vuoi spingere l’underground ancor più sotto terra lo costringi paradossalmente a uscire all’aria aperta.
Il risultato di quella spinta propulsiva è stata la “RAVEolution” con cui tutta la comunità del clubbing globale ha subito, a vario titolo, solidarizzato. E che ha portato, dopo poche settimane, alla riapertura degli spazi confiscati e a un tavolo di discussione concreto riguardo a temi caldi come omosessualitá e tolleranza sulle droghe. Battaglie a cui figure come Sabelashvili hanno dedicato una vita intera. Una vittoria preziosa dal sapore, peró, tipicamente agrodolce. Quello di chi si ritrova a gioire per la concessione di qualcosa che in una società civile gli spetterebbe di diritto. Ma le rivoluzioni a questo servono: per rivendicarli, quei diritti, quando se ne viene privati. Prendendoseli, se necessario, anche con la forza.
Inutile negare che il fascino scaturito da questa girandola di eventi sia stato centrale nella decisione di prendere un paio d’aerei e andare a vedere quale fosse la situazione in città a sei mesi di distanza. Quello che ho trovato ad attendermi è stata una scena realmente formidabile. E ancora, grosso modo, risparmiata dalle carovane di pendolari del clubbing che colonizzano stabilmente altre mete ben più note.
La sensazione è quella di essere capitato a metà fra la fase di crescita, in cui si iniziano a cogliere i frutti dei grandi investimenti messi sul tavolo – che nel caso di Tbilisi sono state le lotte degli ultimi anni per mantenere in vita il movimento stesso, fino a raggiungere numeri tali da smuovere anche l’opinione pubblica in proprio favore – e la cosiddetta fase di maturità, dove si comincia a trarre vero profitto dalla propria creazione. Intendiamoci, non si parla di profitto monetario – seppur anche quella parte sia giustamente da prendere in considerazione – ma della possibilità di far fiorire il proprio prodotto all’interno di un mercato locale con ancora grandi margini di miglioramento. Questa situazione transitoria la si puó notare nella “rivalità” cittadina fra il già citato Bassiani e il Khidi: due spazi volutamente industrial e grezzi, con line up egualmente meritevoli d’attenzione – Anastasia Kristensen, DJ Sotofett e Roman Flugel da una parte, Ancient Methods, Volvox, Ron Morelli e Nathan Fake più una mostra a opera dell’iconico bouncer e fotografo berlinese Sven Marquardt dall’altra, nei due weekend che mi hanno visto presente – e un’atmosfera assolutamente libertina e godibile in entrambi i casi.
Il fatto che ci si possa permettere di essere in competizione è giá di per se un segno inequivocavile che qualcosa stia cambiando. In meglio, ovviamente. Non c’è tempo per farsi la guerra fra poveri quando il vero nemico è alle porte, del resto. Il fatto che oggi la scena musicale di Tbilisi viva un dualismo di questo tipo, dove organizzazioni accomunate da ideali simili si possono permettere il lusso di gareggiare a colpi di guest e soundsystem ruggenti è sinonimo di un’evoluzione positiva che puó solo fare bene al suo ecosistema. Questo non vuol dire che ci si possa permettere di abbassare la guardia, ma la situazione – stando almeno a quanto riferito da chi quella scena la vive ogni giorno sulla pelle – sembra essere serena, almeno per il momento.
L’unico ostacolo su cui è fondamentale non inciampare è quello di permettere alle istituzioni, soprattutto, ma anche ai grandi brand di far in qualche modo “loro” il movimento della musica elettronica locale. Quando sei sulla cresta dell’onda, del resto, tutti vogliono un pezzo di te. E se glielo si concede è un attimo intaccare i propri valori originali, vedersi imporre nuove linee guida ed esporre la propria comunità a rischi enormi. La cosidetta fase del “cash cow” che negli ultimi anni ha vituperato Berlino. Dove oggi trovare spazi che non siano intaccati dalle ferree leggi del compromesso e della gentrificazione sembra divenuto un compito assai arduo.
Qualcosa che a Tbilisi, per ora, sembra ancora un miraggio a malapena visibile all’orizzonte: locali come il Drama Bar – un enorme appartamento signorile sito al secondo piano di una palazzina sulla Rustaveli Avenue, arteria fondamentale del centro – sono proprio l’esempio di quel modo molto berlinese di trovare spazi, spesso anche centralissimi, lasciati al degrado. E tramutarli in qualcosa di culturalmente rilevante o comunque di accessibile alla comunità. Lo stesso complesso di Fabrika, uno spazio industriale a pochi passi dal fiume Kura, dove è ancora forte l’odore acre della cultura sovietica, è stato rivalutato in quartiere “hipster” fra ostelli, ristoranti e piccoli ruin bar. Un modello funzionante di riqualificazione ispirato ad altre grandi capitali dell’Est come Budapest, Mosca e appunto la già citata capitale teutonica.
Discussa a dovere l’anima techno della capitale, il resto dei club cittadini ha dato ampio spazio a sonorità più morbide e houseggianti: dalla tech e micro house dei talenti locali al Cafè Gallery – il più vecchio club in città – fino alle sonorità più deep del bellissimo Mrkvatske, posto in un edificio storico proprio in mezzo al fiume. Un’abbondanza in termini musicali ancora difficile da trovare anche a latitudini più rinomate. Ad accomunare tutte le venue già citate, una sorprendente attenzione al sound, con impianti di grande qualità anche nelle location meno congeniali. Per esempio, un ristorante con dentro un impianto Funktion One voi l’avevate mai visto?!
Parlando con chi di quella scena fa parte da anni, mi sono sentito dire che forse era meglio prima, quando si viveva il clubbing in pochi, come una famiglia che lottava per rimanere nell’ombra. Guardandosi le spalle l’un l’altro. E che oggi si è persa un po’ di quella scintilla che rendeva tutto più entusiasmante. Ma è solo un altro segno che testimonia la salute della scena attuale, meno preoccupata a resistere e più concentrata sul discutere (e migliorare) i propri connotati. Perchè la sensazione che si prova andando a ballare a Tbilisi è di avere a che fare con qualcosa di ancora puro, intatto. Un diamante grezzo non ancora lavorato dai meccanismi del potere e del denaro.
Appena varcata la soglia del Bassiani – alle cinque del mattino passate, direttamente dall’aeroporto – ho provato lo stesso tuffo al cuore della prima volta che tanti anni fa ero entrato al Tresor. Non potevo credere a quanto fosse “cruda” la situazione che mi trovavo davanti: era brutto, sporco, cattivo. Era tutto e il contrario di tutto. Era techno. C’era solo tanta gente che ballava senza preoccuparsi di cazzate come il dress code o i passi di danza che certi ambienti richiederebbero. A distanza di pochi metri c’era un caleidoscopio di esistenze diverse, che vivevano la propria personalissima esperienza accorpate in maniera meravigliosamente casuale sotto lo stesso tetto – quello dei sotterranei del grande stadio nazionale, imponente nella notte georgiana come un’onda anomala nel buio dell’oceano – senza che un door selector decidesse chi di loro era adatto e chi no. Era la cosa più vicina alla libertà che ricordo di aver visto in tanti anni di clubbing.
E per chi, come me, come tanti di noi non ha mai dovuto lottare per avere una cosa “banale” come uno spazio dove essere se stesso e ballare fino alle luci del mattino, vivere quel momento ha amplificato all’ennesima potenza la sensazione che il clubbing possa essere davvero qualcosa di più che un semplice gruppo di persone a cui piace la stessa musica. Che, qualche volta, questa esperienza possa essere una (meravigliosa) scusa per intrecciare altre storie. Per raccontare la propria verità. Per definire la propria esistenza. Per ballarsi via di dosso tutto ció che, per una notte o forse più, da quelle quattro mura, decidiamo consciamente di lasciare fuori.