Più il tempo passa più, il vino è buono. Si dice così, no? Lo stesso ragionamento vale per il Club To Club, che giunto alla sua diciottesima edizione non c’è bisogno di sottolineare quanto sia diventato maturo. Di sicuro non lo è diventato nel weekend appena passato, ma il titolo di maggiorenne se lo è guadagnato già da qualche edizione, precisamente da quella del 2014. Da lì è stato un continuo crescere e lavorare, con sagacia anche diplomatica, per arrivare al sacro maestro / mostro sacro Aphex Twin.
Un’operazione artistica che era nell’aria e che finalmente si è concretizzata; un’operazione che in termini di risorse ed energie ha assorbito tantissimo al festival, ma allo stesso tempo ha dato in egual misura tanto al Club To Club, al pubblico e alla città di Torino. Preferiamo però fare un discorso d’insieme riguardo la line up di quest’anno, che è stata sì penalizzata, ma non dal moloch-Aphex bensì dall’assenza di uno dei tre headliner, Fever Ray, e allo stesso tempo è stata comunque consistente, con grandi colpi ben piazzati.
Ci sono state le garanzie: Beach House, Jamie XX, Kode9 (in solo, a sorpresa, e assieme a Yuzo Koshiro e Motohiro Kawashima nello splendido “pacchetto” Diggin’ In The Carts presentato da Red Bull Music), Peggy Gou, Avalon Emerson. Ok. Ma tutto il resto della torta è stato messo insieme da nomi che quando si presentano in Italia non hanno un migliaio di persone davanti ma forse poco meno che un centinaio. Ovvero: gente come Blood Orange, Equiknoxx, Obongjayar, serpentwithfeet, Yves Tumor fuori dal contesto del Club To Club farebbero la fame nel resto dello stivale, e un esempio non troppo lontano l’abbiamo avuto con il Radar Festival, che poco prima di iniziare la sua prima edizione con una line up dai nomi similari, tolti ovviamente i grossi calibri del C2C e qualche nome da club come Skee Mask e Call Super, è stato costretto ad annullare per la scarsa vendita di biglietti. Tutto questo per dire che da un lato, e lo ribadiamo chiaro e forte, Club To Club è l’unica realtà in Italia che fa un lavoro di educazione strepitoso, è sempre stato superlativo, e lo sarà, nell’educare il proprio pubblico ad un certo tipo di proposta artistica, di suono, di attitudine musicale; dall’altro che questa diciottesima edizione non è stato solo il festival di Aphex Twin.
La considerazione più utile che possiamo sintetizzare è che la transizione è avvenuta, al completo. Non possiamo più catalogare Club To Club come “il festival di elettronica più importante d’Italia”, ci sono altre realtà che scavano più profondamente in questa direzione e non è nemmeno tra le prerogative dell’organizzazione, ma possiamo dire come il festival sabaudo rappresenti la summa e il contesto più adatto all’esibizione del contemporaneo mainstream più atipico, tra colpi ad effetto e prese di posizione. Dovessimo esprimere un desiderio ed un auspicio, c’è ancora una sfida da vincere: i Boards of Canada non sono ancora passati dall’Italia…
Ad ogni modo, abbiamo scelto di dare un racconto corale del festival, esattamente come secondo noi corale è stata l’offerta, non solo aphexcentrica ça va sans dire. Ecco qui i nostri PLUS e MINUS, raccontati da chi della nostra crew è stato lì presente.
PLUS
Nel nome Club To Club la musica elettronica, quella di pancia e da ballo, è sempre stata presente dagli inizi del festival torinese, e anche quest’anno non è mancata, con diversi nomi di garanzia e un bel buco nell’acqua (lo leggerete più sotto). Ma quello che mi interessava maggiormente era osservare come avrebbe funzionato la musica “avant” e “pop” in un contesto come quello del C2C, considerato che la mia ultima volta al festival è stata nel 2013; più passano gli anni, più il festival si avvicina, idealmente, a fratelli come Pitchfork e Field Day, allontanandosi dal concetto di “festival dance elettronico”. Quindi giovedì ok Call Super, meno ok Palm Wine, ma Tirzah mi ha letteralmente inchiodato sotto il palco con le sue stupende melodie vocali sussurrate e i suoi chiaroscuri elettronici, asciutti e ipnotici: lei, una moderna Liam Gallagher, per via dell’aver incrociato le braccia dietro la schiena per tutto il tempo. Nonostante i problemi di audio e le OGR, non proprio la venue migliore per la sua musica, al netto di tutto questo ha ribaltato le previsioni con un concerto bello e convincente. Altro concerto super, ma della vita, quello che ti ricorderai per almeno i prossimi cinque anni, è stato quello dei Beach House. Il duo di Baltimora (che però quando è in tour diventa composto da tre o anche quattro elementi) ha snocciolato per novanta minuti il meglio della propria discografia, partendo da quel Sacro Graal che ha il nome di “Teen Dream” per poi aggiungere “Bloom”, “Depression Cherry” e “7”. Sul palco erano bellissimi da “vedere”, perché la band resta immersa in un buio abissale mentre dietro di loro il maxi schermo e il parco luci fanno esplodere il capannone del Main Stage una luce paradisiaca ed avvolgente. Tra un’ovazione e un’altra per “Walk In The Park”, “Lemon Glow”, “Lazuli”, “Wishes”, “Beyond Love”, “PPP” e via dicendo, il concerto dei Beach House è stato un rito magico da cui tutti ne siamo usciti con qualcosa in più. Per me loro sono stati l’autentica trasposizione sul palco del tema “La luce al buio”.
MINUS
Per quanto mi riguarda Peggy Gou è stata una delusione totale. Vuoi perché avevo appena finito di assistere alla bellissima “apocalisse musicale” di Skee Mask e quindi per il venerdì sera ero a posto così, vuoi anche perché da ingenuo quale sono riponevo un minimo di fiducia nella dj coreana che in lungo e in largo sta conquistando il cuore di milioni di persone (più con i suoi post su Instagram che con il suo lavoro davanti a una consolle?). Il fatto che si trovavasse nel Main Stage e che dovesse reggere audience numericamente tarate su quello stanzone non regge come scusa, visto che lei è ben abituata a calcare i grandi palchi. Qua il discorso sta che non ha avuto personalità neanche per un minuto, ha seguito il filone lasciatogli da Jamie XX appiattendolo tuttavia un sacco e il risultato è stato un set pieno di “banger” techno uno dopo l’altra, togli i bassi, metti i bassi. Molte perplessità rimangono, e se non cambia registro l’effetto-meteora arriverà presto.
Ludovico Vassallo
***
PLUS
Non lo diciamo perché ha il peso specifico che ha, per tutto ciò che può evocare il suo nome, per quel che è stato – e che con molta probabilità non potrà mai più essere – o ancora per qualsivoglia timore reverenziale del caso. Lo diciamo perché Aphex Twin, che noialtri abbiamo pure bacchettato più e più volte negli ultimi anni, ha proposto una delle migliori esibizioni del Club To Club 2018; anzi, sarebbe più corretto affermare che è stata una delle migliori esibizioni in generale a cui abbiamo assistito, perlomeno in tempi recenti. Lo diciamo perché ha tirato fuori un set fuori dall’ordinario, qualcosa che ha superato ogni più nostra rosea aspettativa, riuscendo nella rara impresa di essere completamente “immersivo” (ci scuserete ma non riusciamo a trovare un termine migliore da quello mutuato dalle moderne tecnologie in 3D). Audio e video perfettamente avviluppati, per un’esperienza fatta di brutalità e stile che ha incantato la platea per un paio d’ore filate, senza la necessità di inserire alcuna hit, come d’abitudine, bensì producendo un vortice sregolato di breakcore, industrial, techno “sporca” e drum’n’bass. Una selva di laser, e una serie di schermi: uno enorme dietro il quale si è nascosto per tutto lo show, e tanti altri più piccoli disseminati a mosaico che fornivano ad un certo punto immagini di volti trasfigurati in caricature “aphexiane” di Alessandro Del Piero, Rita Levi Montalcini o Cicciolina (e tanti altri, comprese le facce del pubblico in prima fila). Il tutto marciava di pari passo con le sue ritmiche spezzate e con atmosfere inscurite per l’occasione a tal punto da apparire in certi passaggi asfissianti. Il risultato? Un particolare ottundimento dei sensi, uno straniamento che ci siamo portati dietro per po’ durante il resto del festival. Un set difficile da realizzare e difficile da fruire quindi, dove la tavolozza dei colori è stata a scala di grigi, ma vissuta dal pubblico con la consapevolezza di stare vivendo qualcosa di assolutamente inconsueto e per molti versi estremo. Ci ricorderemo di questo set per molto, molto tempo. Un altro protagonista annunciato è Yves Tumor, che l’anno scorso, proprio al Club To Club, diede forma ad una singolare performance audiovisiva: la musica veniva comandata da remoto in una postazione alle spalle di un Sean L. Bowie – è questo il suo nome di battesimo – incatenato e (auto)ridotto a schiavo sadomaso. Neanche quest’anno ha deluso le aspettative e ha anzi alzato l’asticella, dimostrando di essere un artista in continua trasformazione: la sua formula si è lievemente normalizzata, se così si può dire, grazie anche a un ottimo nuovo album “Safe In The Hands Of Love” che rispetto al precedente “Serpent Music” ha aperture vocali tendenti all’r’n’b e un piglio generale che va a pescare non solo dalla musica ambientale più scura e cigolante ma anche dal mondo della musica fatta con le chitarre (ultra distrorte/destrutturate naturalmente). Più luce al buio del solito – per usare il motto del C2C 2018 – per una performance comunque molto intensa in cui ha praticamente sempre cantato su eccellenti basi pre-registrate, mentre trascinava la platea come il più rodato dei front-man. Per noi è l’esempio più calzante possibile di quella stravagante corrente musicale che viene chiamata “avant-pop”.
MINUS
La nota dolente la spendiamo, ahinoi, per Leon Vynehall. Eravamo curiosi di ascoltare dal vivo il suo ultimo disco “Nothing Is Still”, uscito per la benemerita Ninja Tune. Su supporto fisico c’è un mirabile equilibrio tra neoclassica, jazz ed elettronica, ma dal vivo risulta tutto troppo etereo, senza groove, finanche noioso. Probabilmente ci saranno stati anche dei problemi tecnici legati a un impianto non altezza di un set di questo genere, quindi ci sentiamo comunque di rimandare il giudizio della prova live alla prossima occasione.
Maurizio Narciso
***
PLUS
Certo, bisognava essere motivati: l’orario era ancora da cena, sull’altro palco del Lingotto c’era il chiacchieratissimo Yves Tumor, in contemporanea alle OGR c’era il set di Robin Fox, insomma, Bienoise pareva il classico agnello sacrificale da mettere su un palco per onor di firma, per riempire lo slot che non vuole nessuno. Tuttavia un po’ negli anni Club To Club ha educato bene il suo pubblico (e questo è un merito enorme), un po’ Bienoise è di una bravura che se esiste una giustizia nel mondo – ed ogni tanto esiste – è questione di poco prima che il suo profilo decolli, ma già ora ha tutti i mezzi e meriti per essere headliner di qualsiasi cosa vogliate; in ogni caso, questa bravura ha intanto attirato un numero più che rispettabile di persone davanti a lui, alla fine saranno state poco meno di un migliaio. Ricompensate da un set bellissimo, piano di chiaroscuri, di stop e di sferzate, di ambient e attacchi sonici breakcore, di raffinatezze e colpi allo stomaco. Senza mai perdere la bussola. Per me, uno dei top 3 act del festival, Aphex compreso. Altra sorpresa, DJ Nigga Fox: aspettative pari a zero, soprattutto per chi come il sottoscritto non digerisce e forse mai digerirà del tutto la svolta da dancehall zarra globale tanto in voga fra l’intellighentsia (vedi per dire pure alla voce Warp), invece il dj angolano-portoghese ha intelligentemente asciugato i suoi suoni, si è legato quasi ad una tech-house mentale ed hawtiniana (ok, con un po’ di etno-elementi ritmici…) e ha creato veramente un bel tappeto e a una bella risonanza emotiva prima dell’avvento di Aphex. Tirandoci su dopo i languori stucchevoli di Blood Orange: non era facile.
MINUS
Beh, il ricordo di una chiusura epica di qualche anno fa era ed è indelebile, con Vessel ubriaco marcio e a torso nudo (era ancora in voga la Sauna, pardon, Sala Rossa, ricordate?) a tirare fendenti alle cinque del mattino, nel delirio generale; quindi sì, ci piaceva molto l’idea che pure quest’anno la chiusura fosse affidata a lui. Peccato che il suo nuovo corso con (ironici) rimandi chiesastici boh, un po’ convince un po’ no, e pure quando riprende a tirar cartelle c’è qualcosa di statico, di inerte nella scrittura di base. Lui si agita epilettico, ma la magia di quell’altra volta stavolta proprio non c’è. E i visuals, mah.
Damir Ivic
***
PLUS
Prendere un aereo da Berlino per andare in Italia proprio il giorno nel quale circa 8500 persone si riuniscono al Funkhaus per sentire Aphex Twin forse può non sembrare la mossa più furba di sempre, ma dietro all’aver preferito Torino alla città che da sei anni chiamo “casa” c’è stata una scelta precisa e ponderata. Una scelta che, oltre ad avermi permesso di incontrare vecchi amici che vedo di rado, mi ha dato modo di gustarmi la performance di Richard David James in una situazione sicuramente più vivibile rispetto a quella che si è presentata a Berlino: ogni tanto succede che l’Italia sia meglio, e va sottolineato. Non solo l’esibizione di AFX però ha fatto breccia nel mio cuore (e nelle mie scelte); ok, il motivo principale per cui ho prenotato un posto sul Ryanar Berlino-Milano era lui, ma avevo gli occhi puntati anche su altri due artisti: Skee Mask e Avalon Emerson. Se il primo ha regalato al Crack Stage un live impeccabile, dove drum ’n bass, breakbeat, techno e dubstep si inseguivano e mescolavano l’una con l’altra creando un viaggio musicale ipnotico e ammaliante, la seconda si conferma, ancora una volta, essere una delle dj più forti del momento, sapendo orchestrare una perfetta chiusura del Main Stage al venerdì. Sensuale, variopinto e intrigante, il set dell’americana ha dato lo sprint necessario ad accompagnare le persone danzanti fino alla fine nonostante non fosse più possibile bere neanche una birra già dalle 3 del mattino.
MINUS
Male Blood Orange che ha deluso ogni mia aspettativa (ne avevo forse di troppo alte?). Nonostante un dancefloor urlante e plaudente, l’esibizione di Dev Heynes si sviluppava sulla sua (scarsissima) presenza scenica, dove la voce della corista donna e le movenze del corista uomo mi sono rimaste molto più impressa nella testa rispetto a tutto il resto – e questo è un segno. L’inglese si muove, piroetta, si dimena, ma non comunica quasi niente, se non la voglia di abbandonare lo stage previo tempo per cercare una (magrissima) consolazione in Leon Vynehall nell’altro padiglione.
Costanza Antoniella
***
PLUS
Rimane ben poco da analizzare in termini di esibizione sul festival, innegabile la concordanza di opinione con quello già scritto nei precedenti paragrafi ma sono sicuramente da menzionare le sonorità dancehalliane sghembe degli Equinoxx, così come il djset di Courtesy che, dopo la devastante portata del set di Aphex Twin, aveva le briciole di pubblico da contendersi con Kode9 ed è riuscita a non soccombere come invece ha dovuto, purtroppo, Silvia Kastel. Un aspetto “plus” da mettere in luce rispetto al buio che politicamente vede Torino in questi nuovi anni ‘10 è il momento dell’anno in cui C2C è contestualizzato: Torino Capitale Contemporanea offre un meticciato impareggiabile di pubblici ed interessi che la rendono vibrante, dinamica, quasi off-limits per piole e alloggi, il tutto sotto una spinta di imprenditorialità privata nel campo dell’intrattenimento tout-court che il festival, assieme ad altri attori, contribuisce a creare e che in contemporanea riesce a “sfruttare” per raggiungere il target prefissato. Un altro elemento di “plus” che il festival ha dalla sua è la qualità delle partnership sviluppate negli anni che gli permettono di allargare le maglie della sua influenza: OGR, Porta Palazzo, Reggia di Venaria, Symposium all’AC Hotel e Lingotto, diverse location con programmi diversificati che permettono di scoprire la città con modalità e pubblici intercambiabili e additive.
MINUS
Ci sono elementi oggettivi e fuori dalla portata del festival che hanno inficiato l’esperienza totale, come il divieto amministrativo di somministrazione alcolici oltre l’orario delle tre e su cui l’intera comunità dei festival italiani dovrebbe, attraverso un bel lavoro di advocacy, cercare di fare cartello. Questo non per ubriacarsi marci, con il limite al 21% ce ne passa, ma per estendere il limite all’interno di contesti temporanei comunque super controllati come il caso di un grande festival. Da par suo, il C2C avrebbe comunque potuto predisporre nell’area dei bagni una copertura per evitare di rientrare completamente zuppi all’interno, e lo stesso per le aree fumatori: siamo a novembre, non siamo ai livelli di follia dello stage esterno del roBOt di alcuni fa in una parte dell’anno che a nord è già a rischio freddo vero, ma di sicuro non è una situazione piacevole e nemmeno irrisolvibile (e questo a detta anche di stranieri incrociati ed interpellati su quello che sperimentavano). Ah, e comunque anche una migliore disposizione dell’impianto (magari giocandosi intelligentemente delle torri di richiamo) sia nel Main Stage che nel Crack Stage avrebbero aiutato, evitando di doversi pressare in aree ben definite durante i set più interessanti (e partecipati) e permettendo al pubblico di sfruttare al meglio l’ampia metratura dei padiglioni. My two cents.
Alessandro Montanaro