Romaeuropa Festival, in questa edizione 2018, fa un colpo eccezionale: domenica 25 novembre, all’Auditorium Parco della Musica nella Sala Santa Cecilia, riporta in Italia dopo tantissimi anni Matthew Herbert con una Big Band al seguito. Per chi lo ha visto all’opera ormai più di una decina di anni fa, con questo tipo di organico, qualcosa di davvero emozionante. Poi, visto che Herbert è sempre Herbert, non ripeterà se stessa, ma adatterà tutto su un tema di strettissima attualità e che, da cittadino anglosassone qual è, lo riguarda molto ma molto da vicino: la Brexit. Per celebrare tutto ciò, vogliamo pubblicare una lunga chiacchierata a trecentosessanta gradi fatta un po’ di tempo fa, ma con temi che – riletti con gli occhi di oggi, quelli della stretta contemporaneità – suonano maledettamente attuali ed urgenti. C’è poco da fare: Matthew Herbert è una esperienza anche solo parlarci. Un privilegio spendere del tempo con lui. Da intervistatore, da ascoltatore, da essere umano.
Insomma, c’è poco da fare: qualsiasi cosa tu faccia alla fine ha dietro un’intensità di pensiero e di elaborazione teorica non comune, enorme, quasi ingombrante… Prendi “The Shakes”, uscito tre anni fa, il tuo primo disco a nome Herbert dopo tanto tempo (e dopo capolavori eterni come “Around The House” e “Bodily Functions”) e soprattutto quello che dovevo essere il tuo ritorno al dancefloor, a cose più terse e spensierate…
Eppure quando avevo iniziato a lavorarci sopra, a “The Shakes”, doveva essere effettivamente così: tornare a fare musica con animo leggero, con lo spirito del gioco, senza cercare chissà quali profondità o secondi fini o terzi significati – come facevo agli inizi inizi della mia carriera. Ed effettivamente nei primi passi della lavorazione stava andando proprio in questo modo. Anzi, mi ci ero proprio messo d’impegno. Perché, per dire, mi chiedevo “Ehi, cos’è che ti rende felice?” e la prima risposta era – e chiedo scusa per il cliché – “Pensare a mio figlio”: fai allora un pezzo su di lui, sulla gioia che ti dà pensare a lui. Poi però mentre su questo pezzo ci lavori sopra, apri la televisione e leggi il giornale e vedi le notizie che arrivano dalla Siria, o dall’Iraq, o Gaza, dove ragazzi della sua stessa età muoiono di continuo, ogni giorno. A quel punto se guardi tuo figlio e se pensi a lui, ti viene da pensare anche a loro. Quindi sì: c’ho provato, c’ho provato a fare un disco spensierato, felice, leggero. Ma non ce l’ho fatta. E credo che per me sia ormai definitivamente impossibile farlo. Il nostro mondo è davvero in uno stato preoccupante, sotto minaccia. Il nostro stile di vita, i guasti ambientali che stiamo portando avanti, il vento di destra che avanza: come si fa? Come si fa a essere felici e spensierati? Io non ci riesco. Un tempo ci riuscivo. E considerando che appunto avevo provato a fare “The Shakes” cercando l’innocenza e la spensieratezza degli esordi, di quando avevo iniziato a fare musica, il risultato è che all’inizio è un disco sereno, felice; poi però piano piano assume tinte sempre più cupe. Credo che non riuscirò mai più a tornare alla naïveté che avevo quando ero giovane.
(Ecco “The Shakes”; continua sotto)
Tra l’altro, mi ricordo che il comunicato stampa che accompagnava l’album spingeva molto su questo “…ritorno di Herbert alla dance, all’house”, lo descriveva davvero come un disco pienamente da dancefloor. Cosa che alla fine non è, non è stata. Fino a che punto tu hai il controllo su quello che viene pubblicato attorno ai tuoi dischi dalla casa discografica, in primis i comunicati stampa?
Qualcosa controllo. Ma se c’è una cosa che ho imparato lavorando attorno alla musica in tutti questi anni, è che i comunicati stampa non sono fatti per me. Meglio che non ci metta mano. Meglio che siano le etichette a decidere cosa scrivere – perché loro sanno come rendere appetibile ed interessante il disco, presso persone che il disco in questione non l’hanno ovviamente ancora sentito. Che poi guarda, vuoi saperla tutta? Per me nemmeno “Around The House” e “Bodily Functions” erano dischi house: erano invece dischi dove la musica house era de-costruita. Ora come allora, se mi metto in testa di fare un disco in quattro quarti, da dancefloor, evidentemente ad un certo punto non riesco mai ad essere realmente semplice e “dritto”, finisco sempre col complicare un po’ le cose, aggiungendo elementi non convenzionali. Anche se non vorrei.
Ti sei mai chiesto come mai?
Certo. Credo la risposta sia proprio in questa mia incapacità di separare visione sulle cose del mondo e sulla politica dal mio personale processo creativo. Cioè, mi spiego: se facessi un disco “semplice”, nella mia testa più o meno consciamente questo equivarrebbe ad affermare al mondo che massì, va tutto bene, balliamo, godiamocela, non c’è motivo di preoccuparsi… Oh, è esattamente il contrario. Dobbiamo preoccuparci eccome. La situazione non è per nulla buona. Di conseguenza, faccio veramente fatica a creare musica solo e semplicemente spensierata.
(Un capolavoro assoluto, anche a distanza di tutti questi anni: “Bodily Functions”; continua sotto)
Tra l’altro tu col deejaying hai un rapporto di amore e odio, sbaglio?
Hai ragione.
Forse addirittura più odio.
Diciamo che non è una cosa che amo tantissimo fare.
Che è paradossale, pensando a quanto sono spesso interessanti e creativi i tuoi dj set. E pure al tempo stesso molto ballabili.
Ma non è la musica il problema. Il problema è il viaggiare, il passare molto tempo da solo, passare da un paese all’altro senza mai conoscere realmente nessuno. Sai, c’è questa cosa strana per cui oggi tutti si aspettano dal dj che sia una persona di un certo tipo, che beva, si faccia, sia euforico con tutti, vada a casa del promoter a fine serata a fare ore e ore di after. Alcuni dj fanno esattamente così e, credimi, non ho nulla contro di ciò: se se la sentono, fanno benissimo a farlo. Non gli arriverà mai una critica da parte mia per questo. Io però non faccio solo il dj, scrivo, compongo, creo installazioni, progetti speciali: quando ho finito di suonare, tutto quello che voglio fare è andare a dormire, di modo da partire presto il giorno dopo e arrivare fresco a casa pronto o per riprendere a lavorare ai miei mille progetti o per stare bene con le persone care. Aggiungi il fatto che ho superato i quaranta, che in tutti questi anni avrò suonato in centinaia, anzi, migliaia di posti… Chiaro, il posto speciale lo trovi sempre; la serata che ti riempie di gioia pure. Ma, lo ammetto, ormai è raro. Certo, resta sempre la grande soddisfazione di poter portare qualcosa di tuo in un contesto interessante come il dancefloor, scegliendo magari dischi e suoni non convenzionali, portando la gente a ballarli: tutto ciò mi piace ancora parecchio. Ma è dura. Sempre più dura. Anche perché, parliamoci chiaro, a vent’anni hai la fotta per stare dietro ad ogni singola release, ti fa impazzire l’idea di perderne anche solo una; oggi invece ti dici… beh, ti dici che di release ce ne sono tipo duecento o trecento a settimana, e anche se fra queste ci fossero delle cose super – e ce ne sono, continuano ad essercene – trovarle è diventato sempre più difficile. Insomma, tiriamo le somme: fare il dj, quando tutto è al proprio posto, è ancora oggi una esperienza che mi esalta. Ma, onestamente, credo che questo accada diciamo in media tre volte su dieci.
(Matthew Herbert in azione da dj; continua sotto)
Mi piace questa parte sull’invecchiare, sul superare i quaranta, su come la fotta non possa essere quella dei vent’anni… Il clubbing nasce come una attività, anzi, una cultura rivolta esclusivamente ai giovani. Oggi invece siamo entrati nella “sindrome Rolling Stones”: settantenni che stanno sul palco a fare rock, così come noi ormai abbiamo cinquantenni e sessantenni che fanno i giovanissimi in console, ben a loro agio in mezzo all’euforia giovanilista da serata. E’ un processo in realtà naturale, in cui non c’è nulla di strano, o è invece un fenomeno strano e in qualche modo pericoloso e distorsivo?
Beh, credo sia naturale, come processo. Però sì, un po’ fa strano, non lo si può negare. Dici bene: “sindrome Rolling Stones”. Un tempo era semplicemente impossibile incontrare un dj che fosse sopra i trent’anni, sarebbe stata una stranezza, oggi invece è la normalità e appunto, spesso si arriva a quella che potrebbe essere – agli occhi di un ventenne – l’età di tuo padre. O peggio. Sai cosa significa questo?
Cosa?
Che house, techno, hip hop sono diventati dei generi consolidati e codificati, esattamente come lo possono essere il rock, il country, il blues. E arrivati a questo, non si torna più indietro. Da un lato ciò è positivo: perché hai una storia, una autorevolezza, un patrimonio identitario artistico chiaro e riconoscibile. Dall’altro… dall’altro, sento che in questo modo si perde qualcosa: perché per me la musica elettronica è sempre stata prima di tutto il racconto di qualcosa di nuovo, mutevole, così avanti e sorprendente da essere difficile da afferrare. Qualcosa insomma che ti parla di nuove idee, nuovi suoni, nuove soluzioni, nuove suggestioni. Oggi non è più così. Intendiamoci: c’è tanta, tantissima ottima musica in giro. Ma, come dire?, non mi sembra abbia più quella caratteristica di saper sorprendere e “sfidare” i gusti delle persone.
La “sfida” è in effetti una costante nella tua musica. Non solo come dj, quando fai scelte sì ballabili ma comunque non convenzionali, ma anche quando ti dedichi al live: i tuoi set sono sempre qualcosa in cui si cerca fino agli estremi il limite, l’improvvisazione, la soluzione in tempo reale, la sorpresa, pur partendo magari da pattern predefiniti. Ti hai mai capitato di pensare, in mezzo ad uno show, “Accidenti forse sto esagerando, qua rischia di andare tutto in pezzi, rischio di perdere il controllo di quello che sto facendo e quello che sta succedendo sul palco”?
Se mi è mai successo? Credo mi succeda sempre! Sempre! Ogni singolo live. Ma pensaci: non è così anche la vita? Quante volte ci siamo detti, col senno di poi, che sarebbe stato meglio fare questo o fare quello? Quante volte abbiamo baciato persone che col senno di poi non avremmo dovuto baciare, o non baciato persone che avremmo dovuto baciare? Eppure se abbiamo baciato abbiamo baciato, se non abbiamo baciato non abbiamo baciato. Ciò che conta è fare qualcosa che ti faccia sentire vivo, attivo, sulla corda: quando qualcosa diventa troppo “facile”, beh, sento che non fa per me, sento che quello che sto proponendo non è bruciato da una forza e da un senso di urgenza che è l’unico che mi può dare la speranza di alzare il livello. La musica per me è prima di tutto un catalizzatore di energie, precisamente quelle energie che ti portano a fare sempre di più, sempre meglio. Quelle che ti aiutano a scoprire nuove cose, nuove prospettive, emozioni inedite. Quindi sì: ogni mio live set è stato costellato di errori e di momenti a vuoto, ma è una cosa di cui sono orgoglioso e che artisticamente mi ha sempre aiutato molto e, credo, sempre mi aiuterà.
A proposito di “baciare la persona giusta”: se traslo questa immagine nella scena musicale contemporanea, soprattutto quella legata all’elettronica, oggi “baciare la persona giusta” è importante come non mai. Tradotto: devi saperti muovere, tessere il giusto network. Devi sapere essere il manager di te stesso. Un tempo facevi musica e stop, poi ci pensava l’etichetta a curare tutto il resto, a collocarti nel mercato; ora no. Non funziona più così.
E ti dirò: credo sia un bene. L’industria musicale ci ha riempito di affermazioni su come la musica sia un prodotto, quando invece la musica è un processo. La musica non “finisce” con la musica: l’immagina grafica del supporto che la racchiude, il lavoro di promozione, il video (se c’è), la distribuzione… tutti questi sono elementi di un processo in divenire, un qualcosa che mi piace chiamare come “discorso creativo” continuo.
Un “discorso” divertente?
Può esserlo parecchio. Perché influenza molto anche la percezione delle persone: la stessa identica musica può essere fruita, giudicata, apprezzata in modo molto diverso a seconda di come sono giocati gli altri elementi di cui si diceva. Ecco perché una delle cose che mi stranisce e rattrista di più è vedere dei video dove palesemente le immagini non hanno connessione con quella che è la traccia: sembra quasi un messaggio implicito per cui l’artista ammette che manco lui stesso crede più di tanto nella traccia che ha prodotto e messo in circolazione. Ad ogni modo, penso che prendere controllo dell’intera filiera del business musicale sia molto, molto importante. Oggi, tutto ciò fa indubbiamente parte del processo creativo nella sua interezza. Ovviamente non voglio sottovalutare anche i lati negativi di questo mutato scenario: ci sono tante persone – molte le conosco proprio da vicino – che starebbero oggi molto meglio e il loro talento verrebbe riconosciuto dal mercato molto di più se potessero limitarsi a pensare solo a comporre musica, invece di essere in qualche modo i manager e discografici di se stessi. Cosa che non sanno fare, per cui non sono portati, col risultato che il loro talento non viene notato e valorizzato quanto meriterebbe. Penso però che resti troppo importante il fatto che oggi, finalmente, si può essere proprietari e controllori di tutto ciò che avviene attorno al frutto del proprio processo creativo. E’ una grande conquista.
Allora ti faccio una domanda un po’ cattiva: hai mai avuto l’impressione che la tua label, la Accidental, ti succhiasse troppe energie? Energie che magari avresti potuto usare per rendere ancora più interessante la tua musica?
Una label, oggi, più che energie succhia prima di tutto soldi! (ride, NdI) Già, perché non è più come un tempo: oggi guadagnare con una etichetta è quasi impossibile, la sfida è andare in pari. Paradossalmente, quando le cose per qualche motivo ingranano allora diventa ancora peggio: se ad esempio inizi ad essere molto richiesto per sincronizzazioni, la mole di lavoro attorno al licensing diventa altissima e devi assumere una persona che lo faccia per te o comunque insieme a te, portandoti via altre risorse che non è detto rientrino subito. Poi non so, se ripenso a quando ho iniziato da ventenne a fare il musicista se mi avessero detto che ad un certo punto mi sarei trasformato anche in un un imprenditore, uno che deve gestire degli affari e dei conti, mi sa che non ci avrei creduto. E invece… Ma diciamolo, però: io sono un pessimo uomo d’affari. A dirla tutta, ne sono anche contento. Guarda a chi veramente ha fatto i soldi, partiamo dai più ricchi e potenti: Bill Gates, Marck Zuckerberg, Steve Jobs, Jeff Bezos… tutti sono abbastanza delle teste di cazzo, come persone. Perché per guadagnare tanto e farti davvero largo nel mercato c’è poco da fare: devi essere (anche) uno stronzo. Non avere scrupoli. Io di scrupoli ne ho sempre tantissimi, tanto che ai miei artisti non propongo mai contratti che possano essere per loro svantaggiosi e anzi, se svantaggio c’è trovo giusto sia da parte mia, da parte della label. Sai cosa?
Dimmi.
Credo che questo nasca dal fatto che sono cresciuto in una famiglia di un certo tipo: i miei genitori erano religiosissimi e, insomma, pure io per i primi diciotto anni sono stato letteralmente costretto ad andare in chiesa ogni settimana. Non che ci credessi granché, anzi, ma mi sa che che un po’ di quella educazione fortemente improntata sulla morale mi sia rimasta addosso. Per me, hanno senso solo le cose che hanno una componente di equità morale in sé. Altrimenti, non sono degna di essere pensate, perseguite, costruite. Poi oh, magari un giorno proverò ad essere uno stronzo senza scrupoli pure io…
…massì dai, per vedere l’effetto che fa.
Eh.
(Il primo, storico album della Matthew Herbert Big Band, anno 2003; continua sotto)
Credi che questo livello di consapevolezza così alto, con tanto di attenzione al contesto morale, ti renda un’eccezione nel panorama musicale?
Credo che oggi stare sulla scena musicale sia molto più difficile rispetto ad un tempo. C’è un altissimo turnover: di artisti, nomi, mode. Per essere notato devi fare davvero il botto, e una volta che l’hai fatto non devi fermarti un attimo, devi continuare a sputare idee vincenti senza nemmeno un attimo di pausa, perché se ti fermi anche solo per un attimo vieni subito dimenticato. La nuova generazione sia di musicisti che di ascoltatori è molto più consapevole su tutte le dinamiche collaterali che ruotano attorno alla musica e al mercato musicale, ok; ma resta il fatto che lì fuori c’è tantissimo “rumore”, c’è tantissima musica nuova che esce ogni giorno; con la conseguenza che trovare una proprio voce originale è sempre più difficile, così come è più difficile costruire una carriera solida, duratura. Ma attenzione, non voglio con questo dire che oggi si sta malissimo mentre prima invece c’era una “Età dell’Oro”. Una “Età dell’Oro” forse c’è stata sì, ma per quanto riguarda la produzione musicale, diciamo nella seconda metà del ventesimo secolo: dai Beach Boys ai Kraftwerk, dall’hip hop al punk, dalla house alla drum’n’bass… giusto per fare alcuni esempi… pensa quante volte l’aspetto della musica è radicalmente cambiato! Quante combinazioni nuove di suoni sono diventate canone significativo e consolidato! Da un certo momento in avanti però si è fatto davvero economico produrre la propria musica: questo ha comportato da un lato grande libertà e una soglia d’accesso molto più vasta e democratica ma dall’altro, paradossalmente, ha comportato anche una crisi di idee che secondo me è reale. Quando faccio da lecturer, in corsi e facoltà varie, la prima domanda che faccio agli studenti che ho di fronte è: “Perché fate musica?”. Se la risposta, come accade spesso, “Mah, non lo so, perché mi piace” sento già puzza di qualcosa che non va. La risposta non è sbagliata in sé, attenzione; ma è, diciamo, troppo poco. Se vuoi davvero costruirti una carriera e un percorso tangibile, devi avere nella tua testa e nelle tue motivazioni qualcosa che vada oltre al “Ah sì, mi piace”.
Beh, visto che parli di “crisi delle idee”: quindi c’è davvero? E soprattutto, è un processo irreversibile? Arriveremo al collasso in cui nulla di nuovo potrà più essere inventato?
Sembra quasi che lo stiamo aspettando, questo momento. Ma io non sono preoccupato. Sono convinto che arriverà prima o poi qualcosa di nuovo a spazzare via tutto, a rimescolare finalmente di nuovo le carte in tavola. E’ che, come dicevo prima, siamo stati abituati troppo bene: dal secondo dopoguerra ad oggi abbiamo avuto veramente tantissime innovazioni e rivoluzioni musicali! Invece, guarda al passato: Mozart e Thelonious Monk suonano lo stesso identico strumento, il pianoforte, ma ci sono voluti praticamente duecentocinquanta anni per passare dalla classica al jazz monkiano. Magari ora, tirando un po’ il fiato dopo tutte le novità degli scorso decenni, dovremo aspettare almeno duecentocinquant’anni prima di avere una vera innovazione nel campo della musica creata coi computer. Però sì, in questo momento artisticamente in musica si è un po’ stagnanti. Ma di nuovo: io non riesco a superare musica e politica. Viviamo in mondo dove mangiamo troppo, consumiamo troppo, viaggiamo troppo, siamo ossessionati dalle merci, anche solo per farle viaggiare su e giù per il mondo per giochi di mercato. La musica non può non risentire di questo caos, e va in crisi.
Arriveremo ad un collasso?
Non lo escludo. E, se accadesse, potrebbe anche essere qualcosa di salutare. Sarò sincero: solo un qualcosa di drastico a livello globale mi pare possa fermare certe dinamiche che si sono instaurate grazie alle forze del pensiero neoliberale. Sai qual è il problema? Che il sistema economico ha attuale ha assoggettato non solo la politica ma anche la sfera dei media. L’informazione che ci arriva è spuria, non autentica, contaminata, piegata ad interessi di parte. L’unico modo per interrompere questo andazzo è un momento di choc, di grande rottura. Choc che arriverà quando piomberà su di noi una grave crisi energetica, legata non tanto al petrolio in sé quanto all’energia elettrica. Oggi siamo naturalmente convinti che l’energia elettrica sia un bene “facile”, sempre disponibile. Non è scritto da nessuna parte che sarà tale per sempre. Se ci sarà un improvvisa carenza di energia elettrica nel mondo, improvvisamente il cibo diventerà più costoso, viaggiare si farà più difficile e pure la musica, sì, pure la musica subirà dei danni: la gente continuerà sempre e per sempre ad ascoltarla e a volersi radunare attorno ad essa, ma molte dinamiche potrebbero cambiare. Davvero: questa cosa per cui siamo ormai abituati ad avere subito quello che vogliamo, qui, nel mondo occidentale, è una certezza che invece non è così certa. Non dovremmo prenderla come tale. Mentre invece lo facciamo.
Tipo: per un sacco di tempo ci siamo detti: “Vogliamo che Matthew Herbert torni a fare dei live con una Big Band al seguito!”.
(ride, NdI) Lo so, lo so, negli anni me l’hanno chiesto veramente in tanti. Ma vedi, non posso darvi sempre quello che volete: lo facessi, sarei un McDonald’s. E io non lo sono.