Non se lo meriterebbe, Blake; non se lo meriterebbe, perché comunque di tutti i personaggi che si aggirano per il mainstream è comunque uno dei più freschi, dei più talentuosi, dei più originali; non se lo meriterebbe, perché poi lui di suo è una persona educatissima ed amabile e non certo un pollo pieno di sé che sbandiera status symbol post-pacchiani a colpi di bigiotterie, tatuaggi e finto ribellismo o metrosexualusmo fashionista (…e accidenti quanto lo amiamo, per questo. E’ sempre più una mosca rara).
Non se lo meriterebbe, insomma, ma: per “Assume Form”, forse sarebbe il caso di rinverdire il liberatorio grido fantozziano “E’ una cagata pazzesca”. Eh. Sì.
Ora, intendiamoci: no, “Assume Form” non è una cagata, in sé. Per nulla. Non è un disco orribile. Non è nemmeno un disco brutto.
Anzi: è un disco decisamente interessante, pieno di trovate particolari negli arrangiamenti, dove la personalità del suo autore emerge chiara e nitida: non c’è insomma nessuna corsa all’omologazione verso il pop “medio” e nemmeno verso l’onnipresente trap style (nonostante l’ospitata, in un paio di tracce, di Metro Boomin). Sono stilemi con cui Blake flirta, sì, ma in modo intelligente, distaccato: più come esercizio di stile che come intenzionale tentativo di sfondare nelle chart più mainstreamiche e dozzinali.
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Ecco. Proprio questo flirtare elegante e distaccato ha fatto andare in sollucchero i recensori di mezzo mondo. Davvero, poche voci fuori dal coro: per quasi tutti “Assume Form” è un disco bellissimo, tra quanto emerso finora in giro per il mondo nei vari media più o meno di settore. Ed in effetti è un disco che pare confezionato apposta – involontariamente, tra l’altro – per far scatenare il meccanismo “Mi piace questo disco perché sono intelligente, perché ne capisco di musica”. In effetti come già accennato prima l’ingegnosità e l’originalità, per quanto riguarda gli arrangiamenti, è notevole, il tutto usando non volgari effettacci speciali ma invece piccoli tocchi originali, soluzioni inedite e particolari che stupiscono per la loro semplicità quasi geniale (e che risultano ancora più inedite e particolari oggi che le nostre orecchie sono atrof… pardon, sintonizzate sul monocolore trap o sulle scolastiche escursioni it-pop, quelle che fanno sembrare Cremonini al confronto un Burt Bacharach – e per quanto dagli esordi Cremonini sia migliorato no, non è Burt Bacharach).
Affascinati, avvampati, ed allucinati da questa classe blakeiana, in pochi sono andati a grattare un po’ di più nell’essenza delle tracce che compongono questo nuovo album. Nella scrittura, cioè, non nella veste. I testi non sono per nulla male (un po’ introspettivi un po’ sorprendenti, un po’ naïf un po’ comunque emotivamente incisivi); è nella scrittura musicale, piuttosto, che in ci sono solo due pezzi che davvero colpiscono nel segno e graffiano nel profondo: la prima traccia, la title track; la traccia di chiusura, “Lullaby For My Insomniac”; e “I’ll Come Too”, che è banalotta solo all’apparenza.
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Il resto ci pare abbastanza materiale di scarto, o comunque medio-basso. “Power On”, arrangiata in modo meno creativo, sarebbe buona per il maestro Amedeo Minghi e per qualche duetto con Mietta meno accattivante di “Trottolino Amoroso”; la collaborazione con Rosalía, “Barefoot In The Park”, per quanto ci riguarda è un flop totale, una grande occasione sprecata, rispetto al potenziale combinato dei due; “Are You In Love” è un po’ meglio, ma manco troppo.
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Ci sembra incredibile che nessuno, ad oggi, l’abbia scritto. Magari siamo noi che non ci capiamo niente (può essere), che non siamo riusciti a “sentire” questo nuovo lavoro di Blake (che però ci è sempre piaciuto); ma magari è perché il gusto di tutti si è adagiato verso un pop che, oggi, anche quando si contamina con la componente urban (vedi trap e hip hop), è sostanzialmente corretto e bellino, sì, ma inoffensivo e pettinatuccio nei suoi sviluppi armonici e melodici. Dopo gli anni ’90 in cui nelle classifiche finivano al primo posto “Smells Like Teen Spirit” (un’acida e rabbiosa invettiva in minore) e “Born Slippy” (un banger techno allucinato e senza compromessi) o anche se ci finivano i Beatles lo facevano con un tizio che cantava in modo storto (ci riferiamo agli Oasis, ovviamente), così come dopo gli anni 2000 che prima hanno avuto l’esplosione del rock che incontra i dancefloor con un punk-funk diluito ma comunque di piglio (da Franz Ferdinand ad LCD Soundsystem, passando per milioni di gruppi-fotocopia e persino per i Cassius, vedi “Toop Toop”) e poi invece l’avvento globale dell’hip hop, ora nei giorni nostri abbiamo sempre l’hip hop, sì, che però si è adagiato nell’abbraccio lascivo ed estenuato al pop. E il pop? Beh, il pop c’è pure lui, eccome, è tornano in auge come non mai, e anzi si sente molto fico a dare del tu all’hip hop – venendo pure ricambiato con entusiasmo (un tempo avrebbe preso sberle e basta, se siete nati negli anni ’70 o primi ’80 ve lo dovreste un minimo ricordare quando al minimo sentor di pop al rap giravano le balle, quindi figuriamoci quanto è ben contento di questa inedita comunanza, famigliarità e benevolenza).
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Alt: non stiamo dicendo che prima era bello e ora invece è tutto una merda e la gente non capisce un cazzo. La merda c’era anche prima. Tanta. Così come la commistione di generi e livelli odierna ha in sé dei germi interessanti. Ma resta curioso il fatto che l’apertura incondizionata che la musica distribuita via web ha generato – oggi tutti possono fruire tutto, spendendo praticamente nulla – ha creato nel mainstream una musica addomesticata tanto quanto prima.
Così addomesticata che poi arriva un Blake e si sente subito il coro: “GENIO!”.
Blake effettivamente è un producer di qualità superiore, ma davvero superiore!, e come bonus ha pure una voce incantevole; ma se se ne viene fuori con canzoni banaline nella scrittura come quelle contenute in “Assume Form” è perché, a nostro modo di vedere, è il contesto a non stimolarlo. Cioè, noi: critica, ascoltatori più attenti. E’ che ora che bazzica i vip, ora che è nel giro super-giusto (l’hip hop / black che piace al pop se lo contende: Kendrick Lamar, Frank Ocean, Kanye West, Beyoncé, Jay-Z, Future…), gli basta poco per stupire tutti – noi per primi – e passare per genio leonardesco in grado di approntare rivoluzioni copernicane.
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…che è una cosa che potrebbe pure fare e rappresentare, l’essere geniale e rivoluzionario. Ma non certo con un materiale come quello di “Assume Form”, che è brillantissimo e game changing solo in varie, piccole trovate di produzione ed arrangiamento; per il resto, è quasi un passo falso. O comunque un lavoro riuscito a metà.
E allora, in mezzo a tanti elogi e peana, la voglia di salire intimiditi su un immaginario palco mediatico, restare in silenzio un attimo e poi proferire un “Per me… ‘Assume Form’ è una cagata pazzesca” c’è, c’è eccome. Ci pensi, te lo immagini, e ti suona liberatorio.
James Blake non se lo merita, però. Ma se è per questo, non si meriterebbe nemmeno di veder citata in quasi tutte le recensioni la sua nuova, mediatica fidanzata, giusto per far capire quanto ormai tutti quanti siamo sintonizzati anche inconsciamente sulla forma mentis sciampista del pop mainstream più facilotto. Sarebbe invece più opportuno analizzando “Assume Form”, ma questo lo si fa già meno, citare una serie di interviste abbastanza recenti in cui ha confessato quanto la fama improvvisa ed inaspettata di qualche anno fa lo abbia portato alla disperazione, e solo recentemente abbia riscoperto la gioia di vedere la vita in tinte positive.
Bene per lui. Ma in noi, invece, c’è tanta amarezza nel vedere un talento così brillante e visionario perdersi un po’ nel costruire canzoni slavate, buona per far canticchiare drakianamente Travis Scott (è più sopravvalutato Drake o Travis Scott?), oppure canzoni incapaci di cogliere delle occasioni spettacolari: se ad esempio la “Where’s The Catch” architettata con André 3000 diventasse un sordido e solido pezzone house – e ad un certo punto della traccia ci sono le condizioni per far sì che ciò accada – si avrebbe qualcosa di epocale, ma invece no. Si resta lì.
E si sbadiglia un po’.
Si sbadiglia, ascoltando uno dei più bravi, talentuosi e creativi sulla piazza. E che “Assume Form” conferma assolutamente come tale. Eppure, yawn.
Uhm. Qui c’è qualcosa che non va.
ps.
Il disco che voleva fare qui Blake, l’ha fatto – meglio – Justin Vernon tre anni fa. Scopri le differenze: