E’ da un po’ che ci si insegue, con Luca Agnelli. La voglia di intervistarlo è, da tempo, tanta. Ci sono infatti alcune cose che lo rendono speciale: ovviamente la sua capacità e il suo impatto sulla pista (altissimo) in primis, ma poi anche il suo aver vissuto più stagioni reinventandosi sempre (a modo suo), e l’essere riuscito a diventare un artista con un grande seguito in Italia proprio nel momento in cui, dalle nostre parti, era tutto un parlare della “crisi del clubbing” e di come le opportunità per tutti si stessero prosciugando. Con poche chiacchiere e molti fatti, e una grande etica del lavoro, Agnelli si è ritagliato uno spazio solidissimo per sé e per la sua label, la Etruria Beat, che ha da poco tagliato il traguardo delle cinquanta release (…concedendosi anche un regalo speciale, come potrete leggere) e giusto pochi giorni fa ha fatto uscire la release cinquantuno, appaltata al russo Nocow. Un’intervista impostata su approccio molto concreto di analisi (e critica) della situazione: poterlo fare con un artista tanto concentrato e focalizzato sull’agire concreto, è una valore non da poco.
Guarda, partirei subito con una domanda secca e molto “professionale”: i dj guadagnano troppo? Lo chiedo a te, perché sei uno di quei dj che al momento ha un costo più che ok rispetto alla resa – tendenzialmente a bookarti non si perdono dei soldi, nel rapporto tra quanto costi e la gente che abitualmente viene a sentirti. Quindi ecco, magari puoi rispondere più a cuor leggero: perché sei al di sopra di ogni sospetto.
Beh, quello che sento dire dai promoter è che sì, i dj ormai costano spesso un po’ troppo. La frase ricorrente è che sì, sempre più spesso i dj costano troppo rispetto a quanto rendono – e sì, in effetti non mi pare nessuno si sia mai lamentato di me in tal senso. Forse costo troppo poco! (risate, NdI) Vedi, il punto non è il costo assoluto: se io costo cento ma ti faccio rendere duecento, faccio benissimo a chiederti almeno cento se non anche di più; se insomma rendo abbastanza rispetto a quello che poi genero, posso chiederti anche un milione. Ma in effetti sempre più promoter si stanno lamentando: vero. E soprattutto si stanno lamentando dei risultati nelle serate coi dj a fascia più alta. In effetti allora la domanda diventa: se non guadagni con un dj che costa tanto, quando guadagni? Non è una questione da poco.
Ma questo è un problema di cui dovrebbero farsi carico anche i dj in prima persona, intervenendo attivamente sulle dinamiche di mercato e abbassandosi di loro sponte i cachet medi, o è una faccenda che deve restare nella dialettica d’affari tra management/agenzie degli artisti e promoter delle serate, lasciando fuori il dj che deve pensare al suo lavoro e basta?
Un po’ e un po’. Stando sempre su esempi di massima: se io abitualmente prendo dieci, non è che da un momento all’altro posso andare in posti dove mi offrono due. Però chiaro, deve esserci anche bravura da parte delle agenzie e dei management nel capire fino a dove si possono spostare gli equilibri… qualche volta non è così… così come ci sono alcuni artisti che si sentono delle superstar e per principio non vogliono vedersi abbassare il cachet, senza porsi il problema di quello che gli gira attorno. Insomma, la responsabilità va un po’ divisa tra tutti. Posso dire, da osservatore, che sempre più spesso ci sono promoter che arrivano a dire in alcuni casi “Ah, vuoi questa cifra? Beh, io non te la do più”: un discorso fino a qualche anno fa semplicemente impensabile. Anche perché tra l’altro se non lo facevi tu, un determinato artista, c’era subito un tuo concorrente pronto a prenderselo. Ma oggi la concorrenza non c’è più… sempre più spesso c’è un’unica realtà per regione. Una e una sola.
Il calo è vero, insomma.
E’ verissimo. Inizio a vedere infatti dei segnali di cambiamento. Molti promoter iniziano a dire “Ok, quello lì non lo facciamo più, cerchiamo altre soluzioni”; e lì magari, se ti va bene, riesci ad intercettare dei fenomeni nuovi prima che esplodano veramente, fai delle serate bomba a costi ragionevolmente bassi. Peccato che basta che ne fai due, di serate bomba, o anche una sola, che la volta dopo lo stesso artista che hai pagato poniamo 5.000 ti viene proposto a 20.000. E allora torna il dubbio: “Ma ne vale la pena?”. Probabilmente in molti dovrebbero fare un paio di passi indietro, abbassare le pretese. O forse è ancora meglio se non lo fanno: perché così magari c’è un ricambio, si smette di chiamare sempre i soliti. Però, però… guardati attorno: hai notato che gli artisti di un certo livello sono ormai sempre quelli da… da non so quanti anni? Venti? Perché un punto della questione è anche che, in effetti, i promoter continuano a proporre sempre gli stessi artisti.
Colpa dei promoter, o colpa del pubblico che vuole in realtà sempre i soliti?
Entrambe le cose. Non possiamo dare la colpa solo all’uno o all’altro. Il pubblico molto spesso si comporta da gregge, lo sai anche te, e oggi al massimo c’è qualche fenomeno improvviso che nasce soprattutto grazie ai social; al tempo stesso però il promoter, coi margini che sono diminuiti tantissimo, non se la sente più di rischiare. Prima, quando le cose andavano molto meglio, ogni tanto te la concedevi anche la serata a rischio, quella dove testare soluzioni diverse, perché sapevi che mal che vada la settimana successiva avevi un incasso sicuro che avrebbe rimesso a posto eventuali perdite. Oggi non funziona più così.
Per me forse proprio lì c’è stato l’intoppo: quando giravano tanti soldi e le cose andavano bene, non si è rischiato abbastanza per rinnovare, immettere in circuito nuovi stimoli, nuove idee, nuovi nomi facendoli crescere.
Probabile. Non si è rischiato abbastanza: vero. Ma è anche vero che le generazioni sono cambiate, e anche le abitudini. Quando io ho iniziato, venticinque anni fa, fare il dj resident era un grande obiettivo. Oggi invece sembra quasi una zavorra. Con promoter che ti dicono “Ma no, vabbé, ti abbiamo fatto l’anno scorso, facciamo passare almeno un altro anno, sennò il pubblico si lamenta…”: eh? Due anni?! Ma seriamente? Certe cose insomma sono davvero cambiate. Le dinamiche che un tempo erano sacre e scolpite nel marmo oggi sono completamente mutate. Tutto questo forse è inevitabile, in una società in cui gira sempre tutto più veloce. Però l’unico risultato concreto che vedo è che, essendoci meno business, i promoter oggi rischiano di meno.
Tutte queste domande te lo sto facendo anche per un’altra ragione specifica: il tuo profilo è cresciuto tantissimo proprio negli anni in cui, a detta di tutti, c’è stato un forte calo a livello quantitavo nel clubbing. Sei stato anticiclico insomma, per usare un termine da scienze economiche. Come mai è successo? Il talento, certo; ma c’è stato anche dell’altro?
Il mio lavoro e tutta la mia storia professionale sono basati sulla enorme passione che ho per questo mestiere, punto. Per me mettere dischi è prima di tutto una questione di viscerale amore. Tutti i cambiamenti che ho fatto nella carriera – ne ho fatto molti, e immagino che altri ne farò – nascono unicamente dalla passione verso la musica, dalla voglia inscalfibile di fare quello che più mi piace. Devo divertirmi io per primo. Non suonerò mai solo per far contenti gli altri. L’energia, la carica che ho, nascono dalla passione che mi porto dietro e dalla voglia di pretendere per me solo ed unicamente la strada che sento giusta. Potendoci quindi mettere tutto me stesso. E se in qualcosa ci metti tutto te stesso, vedrai che alla fine la cosa paga. Certo, nel fare cambiamenti seguendo il tuo istinto del periodo ci sono dei pro e dei contro… e diciamo che più che cambiamenti io troverei giusto definirli evoluzioni. Di una cosa puoi stare certo: non faccio mai qualcosa se sono poco convinto, e non faccio mai qualcosa solo per accodarmi alla moda del momento. Che poi, guardati attorno: molti miei colleghi molto quotati, che erano techno al 100%, ultimamente si stanno ammorbidendo, il trend pare quello… mentre io sto facendo il percorso opposto. In generale però fammi dire una cosa.
Vai.
Io capisco essere duttili, ma spesso resto perplesso quando vedo qualcuno fare un giorno un set techno, quello dopo uno tech-house, quello dopo ancora uno quasi disco, poi di nuovo la settimana dopo un set techno. Bello essere pronti a fare tutto, sia chiaro!, però penso che sia necessario curare anche una propria identità. Necessario, e bello. E’ bello scegliere una linea, e per un po’ occuparsi di definirla al meglio, rendendola sempre più efficace ed appassionante. Andare un po’ di qua un po’ di là, un giorno tech-house il giorno dopo revival anni ’90… mah… non lo so, non mi convince.
Beh, ci sono dj che hanno un approccio eclettico da sempre: il primo esempio è quello di Jackmaster. Ma non penso ti riferisca a loro.
Mi riferisco a chi sembra che cambi per esigenze di marketing più che per una reale esigenza personale, per una personale evoluzione. Per dire, apprezzo molto un Marco Carola: ha iniziato a fare techno…
…e in quella era eccezionale…
…esatto, e in quel campo lì ad un certo punto non aveva più da dimostrare niente a nessuno. Tant’è che ad un certo ha deciso con naturalezza di andare più verso un suono tech-house: nel momento in cui ha scelto quella direzione l’ha mantenuta, con grande coerenza. Insomma: a me non piacciono quelli che mettono il piede contemporaneamente in dieci staffe. Perché quasi sempre se lo fai non è questione di evoluzione personale, ma di convenienza. E guarda, te lo dico io, che sono passato attraverso diverse fasi musicali, ho fatto un po’ di tutti in questi venti e passa anni… Non è che ho iniziato facendo techno: quindi sì, capisco i cambiamenti, capisco la voglia di rimettersi in gioco, di cercare nuove sfide, mutazioni, eccetera, sono il primo ad averlo fatto e credo che continuerò a farlo ancora, quando ne sentirò l’esigenza. Però ecco: ora la mia esigenza è di suonare techno. Essere sempre più veloce. Questo quando invece spessissimo i promoter italiani oggi ti dicono “Eh, però, sei un po’ duro…”. Ma io non suono per fare contenti gli altri.
Ok, chi sono questi “altri”? Mi sa che non ti riferisci al pubblico, che comunque ti segue e a cui ti “dai” sempre molto; ti riferisci invece agli addetti al settore.
Esattamente.
Tra questi addetti al settore c’è un problema di conformismo, di omologazione nelle opinioni e nei trend? Sono gregge anche loro, magari anche ben più del pubblico?
Sì. Eccome. Che poi il ragionare per luoghi comuni, tra i cosiddetti addetti al settore, c’è sempre stato, non è una novità di adesso. Io poi l’ho sempre subito. Molti ti giudicano senza averti sentito, senza ascoltare quello che fai ora ma riferendosi a cosa facevi cinque o dieci anni fa: dall’alto di questo, emettono giudizi definitivi e a loro modo di vedere indiscutibili. Il risultato è che spesso ti devi portare dietro quello che facevi cinque, o dieci, o venti anni fa, anche se non c’entra più nulla con te stesso: perché nella loro testa è così. Il problema nasce nel momento in cui i promoter, a parte qualche eccezione, sono sempre gli stessi da vent’anni, perché è così. Non c’è stato un ricambio. Quindi i luoghi comuni e preconcetti sono sempre lì: perché sempre lì stanno le persone. E sono spesso proprio queste persone a perpetuare i luoghi comuni inattuali, falsi e stantii. Il pubblico invece ha meno sovrastrutture, è più libero: viene, paga, se una cosa gli piace. Chi mi ascolta oggi, magari nemmeno sa – e probabilmente manco gli interessa – che io fossi resident all’Echoes, a Riccione. E questo è bello. Mi giudicano da quello che faccio ora. Lì, sul campo. Punto. Mentre il promoter dà prima peso a fattori esterni, a cosa è stato in passato, a cosa era e cosa si diceva, invece di concentrarsi sulla realtà fattuale delle cose. Ma non è una novità, eh. E’ sempre stato così.
Beh, affrontiamoli questi pregiudizi: quali sono quelli sul tuo conto?
A me non piace parlare del mio passato. Non perché non debba o non voglia parlarne, ma perché è abbastanza irrilevante agli occhi di chi mi segue oggi. A cosa serve ritirare fuori, come se fossero attuali, cose di vent’anni fa? Confonde le idee. Non porta niente né a me né al mio pubblico. Restano i pregiudizi dei promoter, ok; ma anche lì, c’è da ridere, sai? Recentemente mi è capitato non una ma due volte che dei promoter abbiano detto “Luca Agnelli? No, mi spiace, non lo posso fare, è troppo techno”, esattamente come prima non mi potevano fare perché “Eh no, lui no, è troppo fashion” (quando da tempo ormai mi ero distaccato da un certo tipo di circuito; ma appunto, certi pregiudizi sono duri a morire, anche se i fatti raccontano altro). Buffo, vero? Comunque, io sono molto contento del mio percorso. Anche perché molti dei pregiudizi che mi accompagnano sono relativi a quanto posso aver fatto oltre un decennio fa; mentre su quanto fatto oggi credo ci sia poco da ridire. Quando ho fatto il passaggio da un circuito diciamo più fashion a uno più legato al clubbing diciamo “di tendenza”, tanto per usare una definizione un po’ così, lì c’è stato un grande salto…
(Luca Agnelli durante un set speciale per Beatport nella “sua” Arezzo; continua sotto)
Un salto anche rischioso.
Ho perso un sacco di soldi! Rido, quanto sento dire “Eh, ma tu fai le scelte musicali per convenienza”: non sanno di che parlano, perché in realtà è l’esatto contrario. Io potevo tranquillamente continuare per la mia strada iniziale. Così come poi potevo tranquillamente continuare per la strada tech-house: avevo release su Desolat e Get Physical, un profilo molto consolidato, che esigenza avevo di cambiare?
Tornerei sul passaggio dal circuito fashion a quello “di tendenza”: cosa ti ha spinto davvero a farlo?
Sempre la musica. Perché in determinate situazioni mi ero accorto che non potevo suonare quello che volevo, e allora ho sentito l’esigenza di cambiare radicalmente circuito. Lì la transizione è stata netta. Che poi ironicamente, l’avessi fatta oggi questa transizione sarebbe stata molto meno problematica…
Ma infatti mi fai venire in mente la programmazione della scorsa stagione di un luogo indiscutibilmente fashionista come l’Armani Privé a Milano: Dixon, Gerd Janson…
Vedi? Se il “cambio” nel suono l’avessi fatto oggi, non avrei avuto nemmeno bisogno di cambiare tipologia di locale! Poi insomma, se uno ci pensa meglio, anche nei cosiddetti locali fashion non è che all’epoca girassero solo schifezze, era comunque un posto dove potevi suonare i Daft Punk, “One More Time”. Oggi, se penso all’EDM, il suono del circuito commerciale allora era molto meglio… Ma senti, inutile fare questi discorsi: bisogna guardare avanti.
Però fammiti chiedere che ne pensi dell’EDM, visto che l’hai tirata fuori.
Non l’ho mai seguita granché. Io, in generale, non sono uno di quelli che va molto a curiosare in campi non suoi. Cerco di fare il mio. E non sono uno di quelli che giudica gli altri. Il nostro è già di suo un mondo fatto di molte chiacchiere, se ti approcci ad esso con la voglia di far polemica entri in un meccanismo da cui non esci più. Io invece voglio vivere tutto in maniera tranquilla, serena, facendo quello che mi rende più felice. Preferisco investire il mio tempo e le mie energie nell’avere un bel rapporto con i miei fan, invece di stare lì a fare gran polemiche e discussioni. Cosa fa questo, cosa fa quell’altro… Semplice: se lo fa, avrà i suoi motivi. Punto. Riportiamo a zero le chiacchiere. E pensiamo magari appunto al rapporto con chi ascolta e chi ci apprezza, che è qualcosa di molto importante.
Quanto lavoro e quanta attenzione ci vuole ad avere un buon rapporto con chi ti ascolta e ti supporta?
Io un buon rapporto l’ho sempre avuto. Credo faccia parte di te come persona e come carattere, il modo con cui ti poni… non è che ci siano delle ricette particolari. Ad ogni modo, il discorso delle “dirette del lunedì” è una cosa su cui ho sempre puntato molto proprio perché penso sia giusto ed importante creare le basi per un rapporto il possibile diretto con chi ti segue e ti apprezza. A me piace molto condividere le cose. E’ un format che tra l’altro continuo a portare avanti: anche se oggi – essenzialmente per le nuove politiche di Facebook sulle dirette – i numeri sono diversi e insomma potrei anche farne a meno. Questa “diretta del lunedì” era diventata un vero e proprio fenomeno, mi ricordo che una volta arrivammo a toccare le 9900 persone connesse in simultanea, la media comunque si attestava sempre attorno ai 5000 contatti nel periodo migliore, mentre oggi siamo spesso in 200 o 300. Ma i numeri non contano. Mi piace l’idea di avere un canale diretto di interscambio con chi si interessa a me, ai miei gusti, alle cose che faccio. Un canale che non sia solo quello della serata, del saluto in console in mezzo al casino. Anche perché in questa diretta io posso spendere sempre qualche parola su un disco, su una release, su una label, posso anche lanciare dei messaggi che mi stanno a cuore. All’inizio i risultati sono stati pazzeschi, ed è una cosa che ho anche cavalcato, ma pure ora che non ne avrei bisogno è comunque un qualcosa a cui sono molto affezionato. Potrei usare in teoria meglio il mio tempo: stando in studio, o facendo qualche partita in più alla Play con mio figlio… ma va bene così. Finché mi sentirò di farlo e mi farà piacere, è una cosa che porterò avanti. Al di là dei numeri.
(una delle “dirette del lunedì”; continua sotto)
A proposito di buoni modi di impiegare il tempo: quanto tempo e quanta energia mentale ti porta via la gestione della tua label, di Etruria?
Tanto tempo, tanta energia mentale. Tanta. Anche perché sai, ho provato a collaborare con varie persone, ma alla fine le cose vengono come veramente voglio io solo quando sono io stesso a seguirle…
Vabbé, ho capito, sei un control freak.
Ma no. E’ che vorrei… vorrei trovare persone che hanno voglia di lavorare. No, no, aspetta, non è quello il punto, fammi spiegare meglio. Ecco: vorrei trovare persone che hanno passione, nel lavorare. Questo. La passione che ci posso mettere io. Negli anni in tanti hanno lavorato per me, ma spesso si trattava di gente che eseguiva coscienziosamente i compiti per cui era pagata – non andava oltre a questo. Non ci metteva la passione. E quindi a me toccava stargli dietro, perché mi rendevo conto che di loro avrebbero fatto solo il compitino, senza metterci quel qualcosa in più che, invece, è quello che fa la differenza.
Ci sta.
Anche gli artisti… Ad un certo momento della loro traiettoria, hanno un gran interesse a fare parte della storia di una label; poi, sopraggiungono altre strade, altre scelte, altre prospettive, e la label in questione diventa per loro una faccenda secondaria. Io ho sempre voluto creare una vera e propria “famiglia”, con gli artisti con cui alla fine si facevano più release assieme: li sentivo tutti come dei miei “figli”. E ho sempre voluto creare un gruppo: cene ed interi weekend a casa mia, a parlare, a confrontarsi, a passare semplicemente del tempo assieme. Bello, ma faticoso. E’ molto più semplice limitarsi ad un rapporto per cui “Mi dai la traccia, prepariamo tutti, lanciamo la release, bene, ciao”. Molto più semplice, ma mi piace di meno.
Come descriveresti l’evoluzione musicale di Etruria?
La label rappresenta prima di tutto il mio suono: quindi la sua evoluzione è abbastanza parallela all’evoluzione mia personale. Quando è stata fondata, nel 2010, suonavo essenzialmente tech-house e di conseguenza anche le release andavano in quella direzione. Poi nel tempo le cose sono cambiate; c’è stata anche una fase un po’ più deep, alla Tale Of Us diciamo, perché quando loro o Maceo Plex sono esplosi è una cosa che mi colpì tantissimo, ero davvero infoiato delle loro cose, e questo con un motivo, perché comunque in me ci sono sempre state delle radici house, io arrivo da Vega, Master At Work, Frankie Knuckles, e credo che anche per questo mi ero fatto prendere bene da quel tipo di ondata deep che c’è stata attorno al 2011, anno più anno meno. Passata quella fase, invece di tornare alla tech-house mi sono spostato verso la techno. Ad ogni modo, step by step abbiamo costruito con l’etichetta un profilo solido, anche grazie a remixer di livello internazionale. Che, come sai, non è una cosa in cui riescono tutti. Anche e soprattutto nel momento in cui dici chiaramente che non ci sono soldi, per i remix! (risate, NdI) Non deve mai diventare una questione di soldi, il remix. Anche perché, parliamoci chiaro, non si vende un disco: cosa mi chiedi dei soldi a fare? Lascia stare! Voglio che tu sia realmente appassionato alla cosa che ti propongo, non mi interessano i mercenari che gli dai 300 euro e massì, il remix te lo fanno. No. Voglio che sia veramente contento di essere legato ad Etruria. Poi recentemente, per la cinquantesima release, ho realizzato un mio sogno: Dj Rush. Da sempre un mito, per me.
(la cinquantesima release Etruria Beat; continua sotto)
Da sempre? Anche quando suonavi pura house?
Assolutamente. Ho sempre avuto tutti i suoi dischi. E credimi, quando lui mi ha detto “Oh, il remix te lo faccio molto volentieri” per me è stata una soddisfazione pazzesca, molto più di grande di quella avuta per altri nomi magari molto più altisonanti, molto più alla moda. Altri nomi per me cruciali ed emozionanti: Ben Sims, Truncate, gli Slam. Oh, io nei miei set suono ancora il disco che fecero nel 2001, mi pare, con Wighnomy Brothers.
Che poi tu su Soma, label leggendaria che proprio dagli Slam è stata fondata, sei pure uscito.
Eh sì. Loro li ho sempre amati, sempre seguiti. Mica mi limito solo ai dischi dell’ultimo periodo, che li hanno rimessi un po’ al centro dei giochi; per me sono sempre stati un punto di riferimento, nei miei vari percorsi. Comunque, esattamente come me immagino che anche Etruria avrà delle evoluzioni future, come ne ha avute in passato. Non voglio che sia una label che passi alla storia per un unico suono. Non che questo sia negativo per forza, eh, ma spesso accade che ci sono artisti o etichette che sono nati con un suono ma poi sono rimasti statici, non sono stati in grado di rinnovarsi, non sono stati in grado di rimettersi in gioco. Perché una cosa è certa: le cose, anche in musica, non durano mai in eterno.
In particolar modo nel nostro campo.
Esatto. Soprattutto ora, che gira tutto sempre più veloce. Uno deve saper evolversi, deve sapersi rimettere in gioco. Anche perché questo significa che deve saper portare il proprio pubblico dove vuole lui, decidere lui le coordinate. E questa è un po’ la sfida della mia vita. Quella che mi dà la vera spinta. Spinta che calcoli di marketing mai e poi mai riusciranno a darti allo stesso modo.
Ma non è un paradosso che oggi, che sei sempre più una persona adulta e padre di famiglia, ti ritrovi a fare una musica in realtà sempre più techno e “feroce”?
Sì, ogni tanto me lo chiedo pure io: strano, vero? Ma mi piace questo contrasto. Io sono una persona tranquillissima. Bevo poco, giusto del buon vino rosso a cena ogni tanto; fumo quasi mai, al massimo qualche sigaro cubano qua e là; in console voglio solo acqua; non mi sono mai drogato in vita mia. E sì, sono un padre di famiglia, e voglio essere un padre il più presente possibile. Tutto questo mi piace, sono contento di essere così. Ma musicalmente, ciò che ultimamente cerco è la voglia di dare cariche esplosive – sia nei dj set che nelle produzioni. Mi dà gusto farlo. Non so perché. So che pare una contraddizione, ma è così.
Magari è proprio per compensare.
Forse. Perché non cambierei nulla della mia vita ora, della mia tranquillità come persona. Ne sono molto felice. E se vogliamo parlare di musica, comunque non rinnego nulla del mio passato. La musica cantata, suonata mi piace, continua a piacermi, ma in questo momento non sento l’esigenza né di suonarla né di produrla. La mia necessità, in questo momento, è di esprimere carica ed energia. Poi, in un periodo storico come questo, trovo che la musica un po’ “palleggiata” sia un po’ sgonfia, noiosa. Inoltre questo legarsi alla techno significa anche riscoprire musicalmente i primi anni ’90, e questa è una cosa che mi piace parecchio. Anche perché spesso chi ti ascolta, chi va oggi nei club, per motivi meramente anagrafici questo periodo non l’ha proprio vissuto. Quindi tu glielo fai scoprire – chiaramente riattualizzando i suoni. E’ bella questa cosa. Significa che suoni anche con un’idea dietro, con la voglia di offrire un racconto, di crearlo. Coi dischi che sono solo dei tool, boh, ormai non vai da nessuna parte.
Tu, invece, dove stai andando? E intendo: la tua dimensione è ormai più europea o resta in primis italiana?
Non mi pongo il problema. Nel senso che in questi ultimi anni è vero, sto lavorando molto all’estero, ormai il mio calendario è metà estero e metà Italia, ma l’Italia resta la mia meta preferita come dj. E anzi, ti dirò, girando di più il mondo a suonare ho imparato ad apprezzare ancora di più l’Italia…
Sì, eh?
Tutti pensano “Ah, l’estero…”: invece vai in Germania, per dire, e spesso l’energia che trovi nei dancefloor è pari a quasi zero .Sei lì con l’ansia, a fine serata: “Avrò suonato bene? Ho fatto schifo? Sembravano tutti mezzo morti”. Poi arriva il promoter e ti fa “Ma grande, hai spaccato!”. E tu pensi “Ma come, in pista erano tutti mosci, svuoti, riparti e non senti un urlo, non vedi una mano alzata…”. Insomma, credimi: in Italia abbiamo un calore e un’energia che pochi altri posti al mondo hanno. La Spagna, il Brasile… ma davvero pochi altri. Poi ok, se invece consideri le cose dal punto di vista dell’organizzazione professionale e soprattutto dei festival, siamo molto indietro rispetto ad altri paesi, vero. Lì in effetti ti capita di vedere degli abissi. Anche se ultimamente pure in Italia vedo dei tentativi di festival ben pensati e ben fatti – peccato solo che sembra quasi che la loro nascita e diffusione vada a scapito dei club. Può nascere un meccanismo pericoloso: per cui abitui la gente a vedere dieci dj di peso ad un festival, e quando poi d’inverno fai una serata al club senti cose tipo “Ma come, un ospite solo…”. A questo aggiungi il fatto che già di suo verso i club c’è stato un calo di interesse e di passione, direi per vari motivi. Noi vent’anni fa andavamo nei club perché era l’unico posto dove conoscere persone e dove sentire musica di un certo tipo: oggi, stando a casa puoi conoscere tutte le persone che vuoi ed ascoltare tutta la musica che vuoi. Ma non mi stancherà mai di ripetere: certi tipo di musica, in primis la “nostra”, all’interno di un club è tutta un’altra cosa, luci, volumi, fisicità, l’empatia con le persone… A parte ciò, di questi tempi si dice che in Italia il clubbing è in crisi perché il “contenitore” non si è saputo rinnovare. Mah. Non lo so. Perché alla fine il concetto del clubbing è quello, non è che ti puoi inventare chissà che, no? Il rischio è di snaturare la cosa. Spero sia solo una fase passeggera, insomma, questa del calo dei club; spero che le prossime generazioni riscoprano il piacere di uscire fuori ed andare a ballare. Anche perché far ripartire il circuito dei club avrebbe effetti positivi non solo sull’economia ma anche sull’arte, sulla qualità: si potrebbe finalmente tornare a far crescere gli artisti giovani – perché di bravi ce ne sono parecchi. Lo vedo coi miei, di Etruria, giusto per fare un esempio, ma credo che la cosa si possa estendere a molti: gente di talento vero e con motivazioni autentiche che però sono in parte scoraggiati, perché fanno veramente fatica a suonare in giro, soprattutto con la responsabilità di essere loro il “fuoco” della serata. Non do la colpa a nessuno: il club grande capisco che non possa permettersi dei main guest giovani ed esordienti, perché per andare a regime ha bisogno di essere pieno, mentre per quanto riguarda i club molto piccoli ci sta che chiami solo chi è della tua zona, perché in questo modo sai che arrivano almeno un po’ di suoi amici a sentirlo (…e attenzione, non mi sto riferendo ai “Dj Pullman” di una volta). Manca la via di mezzo. Manca quel territorio su cui creare il ricambio dei protagonisti sia come artisti che come promoter. Questo poi in più d’uno crea frustrazione, come dicevo. Perché sei lì, da anni, fai dischi, i dischi sono apprezzati, hanno dei feedback della madonna, vengono suonati da questo e quello… però poi le date sono sempre pochissime, quasi nulle. Senonché all’improvviso arriva la tipa di turno, arrivata fuori da chissà dove, e vedi che all’improvviso lei ha venti date. E non sono venti date in locali commerciali, quelli con Vacchi e le showgirl, ma sono venti date in locali potenzialmente “tuoi”. Allora lì ci resti proprio male. Attenzione, non mi sto riferendo alle Lens e De Witte, loro sono già grandi, ma a nomi che ancora non hanno dimostrato nulla. Ad ogni modo ecco, quando vedi succedere certe cose capisco che qualcuno si possa scoraggiare. Dopo anni e anni di sacrifici, dopo nottate spese in studio magari dopo aver finito un’intera giornata di lavoro “normale”, la cosa può far prendere male. Ma tutto quello che posso consigliare di fare è andare avanti. Insistere. Provarci, sempre.