La prima volta in cui mi ritrovai a scrivere di Cosmo, non giornalisticamente ma come prestatore d’opera dietro le quinte, fu dieci anni fa. 2009. Sono andato a ricercarmelo, questo file, erano dei testi che avevo preparato su richiesta del team di roBOt che all’epoca aveva preparato a Bologna “Concept”, una serie di dj set e live che si proponeva di unire diversi mondi musicali in tre location diverse. Un mini-festival musicale, solo che all’epoca “festival” non era una parola cool come oggi e la si usava centellinata. Notevolissimi, i nomi: Seth Troxler, Massi DL all’epoca ancora in solitaria e considerato un esponente della minimal (quanto erano apparentemente lontani i Nu Guinea!), Erol Alkan, sua maestà Andrew Weatherall… e poi c’erano i Drink To Me. La band di cui Cosmo era leader (dovreste saperlo, e se non lo sapete – sapevatelo).
Non c’era nessun dubbio sul fatto che i Drink To Me stessero, assieme ai Buzz Aldrin, nella quota “gruppi indie che suonano e fanno post/punk/rock modificato, un po’ come tutti”. Nessuno. E non c’era nessunissimo sentore che, nell’arco di un decennio, il signore a capo di quella band avrebbe fatto 10.000 persone al Forum di Milano facendosi pure disegnare il palco dagli stessi figuri che creano visualmente i live di Moderat, Tale Of Us, Paul Kalkbrenner, eccetera.
Ogni tanto serve tornare al passato, per capire quanta strada si è fatta. E per capire che non bisogna mai, mai, mai dare nulla per scontato. Mai.
A dirvela tutta: costruendo la mini-bio dei Drink To Me, fra me e me pensavo “Ecco l’ennessimo gruppo figo italiano che fa musica interessantissima ma che, proprio per questo, non si filerà mai nessuno”. Per la cronaca, la mini-bio esordiva con “Dal 2002, in costante ascesa”. Dal 2002 al momento in cui stavo scrivendo quelle righe – 2009, appunto – erano passati sette anni, e la “costante ascesa” significava “passare dal suonare in sala prove a fare addirittura qualche decina di concerti all’anno, qualcuno addirittura con più di 100 persone”. Non ridete. All’epoca quella era veramente “ascesa”. Era davvero un obiettivo da porsi, quello di poter suonare in modo continuativo su e giù per l’Italia.
Forse ogni tanto non ci rendiamo conto (chi per anagrafe, chi per superficialità, chi per malafede) dell’incredibile rivoluzione che c’è stata nella musica italiana negli ultimi sei, sette anni. Una rivoluzione che non solo ha lanciato nuove stelle nel firmamento (Cani, Calcutta), ma ha dato una grandezza enorme a gente che pareva destinata ad essere marginale (Thegiornalisti, Levante, Stato Sociale) o addirittura resuscitato band che sembravano dissolte nell’indifferenza (Ex-Otago). Ah, prima che salti fuori la conta del questo-si-questo-no: i nomi fra parentesi sono puramente indicativi e non esaustivi, divertitevi pure voi ad aggiungere il nome di qualche band. E rendetevi conto di come oggi un Gazzelle possa uscire ed aspirare ad avere una esposizione da mainstream, meritata o meno che sia, mentre solo un sei, sette anni fa un progetto del genere se andava bene poteva ambire a una recensione su Rockit e a un pugno di date pagate cifre a due zeri.
Pure il rap italiano si è giovato mostruosamente (…ed incestuosamente?) di questa incredibile voglia di nuovo pop italiano, buttandosi a corpo morto sui ritornelli più o meno vocoderati, su basi dagli arrangiamenti pop che più pop non si può, trovando così nuova linfa. E rendendo personaggi come Coez e Carl Brave & Franco 126 dei dominatori assoluti, non una copia fuori tempo massimo degli Zero Assoluto (…a cui andrebbe riconosciuto il ruolo di caposcuola, nella scena rap attuale, lì dove la scena rap di allora lì considerava invece degli sfigati rammolliti e venduti: ah, l’ironia del destino).
Ma di tutto questo non vogliamo parlare. O a dirla meglio, non vogliamo aggiungere altro a quanto già scritto; che comunque sarebbe importante teneste a mente. Non vogliamo parlarne oltre per un motivo più preciso: se Cosmo da un lato appartiene in tutto e per tutto a questo mutamento storico, ed anzi se ne è giovato parecchio, dall’altro il suo modo di declinare il pop e la modernità lo ha portato lontano da tutti gli altri eroi vecchi e nuovi di questo boom 2.0. Molto lontano.
Sapete dove lo ha portato? Lo ha portato in posti da cui, a parole, sembra stiano fuggendo in tanti. I club. La tech-house. I corpi sudati. La gente in euforia smodata. Fighetti, hipster ed intellettualini di tutto il mondo, che ormai ascoltate solo i podcast del Dekmantel, gli album di Yves Tumor, le sperimentazioni di Arca e schifate la line up del Kappa FuturFestival: voi non lo sapete, ma Cosmo sta percorrendo da tempo una strada che confina più con Sven Väth (e il suo pubblico) che con Nicolas Jaar. Attenzione, non è questione di creare contrapposizioni: Marco Jacopo Bianchi, come ci raccontava in questa bella intervista di tre anni fa che davvero vi consiglieremmo di rileggere, la sua epifania musicale l’ha avuta a Club To Club – il posto dove Tumor, Jaar ed Arca sono di casa. Quindi davvero, non è questione di contrapposizioni.
E’ questione di capire che molto del magico che c’è nella parabola di Cosmo, molto del fascino che emana e avviluppa, deriva proprio da architravi di quello che è la club culture più canonica, più tech-house, più “normale”. Come del resto tech-house è pure la produzione complessiva di Ivreatronic la label ed è per lo più tech-house pure l’indirizzo di Ivreatronic la serata (una creatura meravigliosa, ma ci torneremo sopra a fine articolo).
Oggi che vanno di moda le fighettate e gli escapismi vacanzieri a favore di festival, oggi che nella percezione di molti andare nei club è da reietti e rimastini, Cosmo è riuscito a sbattere in faccia la bellezza fisica e carnale di un certo tipo di esperienza. La ha sbattuta in faccia a chi non la ha mai vissuta (il suo pubblico più giovane, e/o quello di provenienza alternative rock), la ha sbattuta in faccia a chi finge di non averla mai conosciuta – e ancora oggi magari dà ad intendere di non averci (più) nulla a che fare.
Non siamo ingenui. Se Cosmo avesse fatto solo strumentali, non sarebbe mai arrivato il successo. Se fosse stato un anonimo producer che fa materiale tipo quello del cd 2 di “Cosmotronic”, varrebbe più o meno come gli Underspreche. Non li avete sentiti nominare? Beh, noi ne parlavamo ancora due anni in uno dei nostri Giant Steps. Ma ok, noi siamo settoriali. Siamo convinti che il 99,8% dei 10.000 presenti al Forum non avesse la più pallida idea di chi fossero gli Underspreche. Lo hanno capito meglio quelli che poi si sono accalcati al post concerto svoltosi in un Dude pieno come un uovo, dove il duo salentino invitato da Cosmo medesimo ha tirato fuori un set assolutamente fantastico.
Il successo nazionalpopolare di Cosmo arriva in primis dalla sua capacità di riattualizzare Battisti, perché sempre lì stiamo ahinoi, l’Italia è sempre orfana di Battisti esattamente come per le voci femminili è sempre orfana di Mina e grazie a dio Celentano fa dei film in animazione più o meno discutibili, meno male, così diventiamo tutti un po’ meno orfani dei suoi lati peggiori. Il primo “gancio” di Cosmo è la sua cantabilità svagata ma intensa, i suoi testi che sotto un’apparente semplicità da canzoniere in spiaggia incidono a fondo nella carne dell’emotività.
Ma il secondo “gancio”, beh, è quello che vi stiamo dicendo noi. Ciò che lo rende profondamente diverso da tutti. Ciò a cui Cosmo stesso si è applicato con umiltà ed un amore artistico unici, che la dicono lunga sulla sua sensibilità da artista, sul rispetto che ha verso la creazione musicale, le scene, le persone. Lui al mondo del clubbing non si è approcciato da turista distratto, pronto a rapire alcune istantanee col telefonino per poi scaricarle nella cornice digitale da tenere in salotto e sfoggiare quando arrivano parenti e amici, “Oh, guarda in che posti pittoreschi sono stato l’anno scorso. Sapessi che musica bizzarra, sapessi che bruti dalle pupille dilatate! E’ stato molto divertente”, sorseggiando un tè aspettando di farsi arrangiare il disco dal solito Michele Canova di turno (ovvero il producer che fingendo di farti essere moderno e contemporaneo ti ributta nella più annacquata melassa del pop di scarto) o, se proprio vogliamo rischiare, da quei giovanotti freschi ed innovativi di Takegi & Ketra (giovanotti de che: Takegi era già nei Gemelli DiVersi, un nome che sa di vecchio solo a leggerlo, figuriamoci ad ascoltarlo). No. Nulla di tutto questo. Cosmo si è applicato. Ha studiato. Ha ascoltato. Ha chiuso gli occhi e ha ballato. Ha portato un infinito rispetto non solo verso i più raffinati producer, ma anche verso l’ultimo dei clubber a torso nudo e occhiali a nascondere la chimicanza.
Ha capito la bellezza del dancefloor, della pista piena, dei corpi sudati, del senso di empatia (mica per forza chimica: non avete capito nulla, se pensate serva solo quella), dell’attesa per il fine settimana, della musica che pare non finire mai, va per frasi afasiche di due, tre note, si sviluppa su microvariazioni e non ha per forza bisogno del ritornello per strapparti il cuore e le emozioni.
Oh sì. Ha fatto più Cosmo, per il clubbing, di mille dibattiti organizzati dal SILB (tra l’altro, esiste ancora? Qualcuno ha notizie?), di mille label tutte preoccupate di entrare nella rete di PR giuste, di mille dj che pensano solo a farsi prendere dalle agenzie che ti offrono un numero minimo di date garantite, di mille recensioni entusiastiche sui siti. Sapete perché? Sapete perché ci è riuscito? Perché l’ha fatto per l’amore dell’arte, della musica, delle sensazioni primarie ed istintive. Non l’ha fatto per calcolo. Ripetiamo: non l’ha fatto per calcolo.
Il Forum gremito da 10.000 persone festanti&danzanti come raramente si è visto in un concerto in un palasport italiano (giusto alcune date dei Subsonica in passato) è la giusta ricompensa per il rischio che ha corso (qui una bella cronaca del concerto, su Dj Mag). Era un musicista intelligente e una persona curiosa, dai molti ascolti e curiosità; ma il salto in avanti decisivo lo ha fatto quando ha iniziato a buttarsi a corpo morto nell’esplorazione, fisica ed emotiva, del clubbing. Di quella cosa lì. Anche sporca. Anche sudata. Anche fatta di MDMA. Anche fatta di musica “tutta uguale”, che “oddio che schifo che noia”.
Poteva andargli malissimo. Poteva cadere nell’indifferenza, “Ah sì, quello si è bruciato il cervello con la techno e le pasticche”, d’altro canto la gente parla a cazzo da sempre, e ad un artista vincente si perdona e si magnifica qualsiasi cosa, se invece non ha i favori del pubblico e del mercato allora gli si fanno addosso i peggio sprezzanti moralismi piccolo-borghesi. Cosmo ha vinto. Ha vinto per il suo talento. Per la sua capacità di “leggere” la realtà con parole tanto semplici quanto profondissime. Per la sua capacità di esplorare e raccontare le emozioni più grandi&banali mantenendo una lucidità acuminata e talora anche dolorosa, piena di umanità ed umiltà.
Ha vinto per il suo coraggio. C’è chi si è sorpreso per i momenti “politici” del concerto al Forum o anche appunto per i visual che fanno cadere ogni ipocrisia e ti stampano lì, gigantesche, quattro lettere M-D-M-A a commentare una canzone che di quello parla, mica (solo) di altro; se si è sorpreso, vuol dire – e non è una colpa – che non ha analizzato con attenzione la figura di Marco Jacopo Bianchi detto Cosmo. Uno che il coraggio ce l’aveva già quando scardinava gli stilemi rock col post-punk “evoluto” dei Drink To Me, e che ha avuto ancora più coraggio quando è uscito dal guscio sicuro, confortevole e sterile della scena alternative italiana di quegli anni andando a cantare, andando a cercare Battisti ma facendolo per curiosità intellettuale ed esigenza artistica, non – alla Neffa post rap – per calcolo stile “Se canto le canzoni pop in italiano, mi sa che mi ascoltano molto di più”.
Ad uno così, vuoi che gli faccia paura esporsi?
(uno dei momenti più sperimentali ma anche emozionanti e significativi del live al Forum; continua sotto)
Ad uno così, vuoi che gli faccia paura mettere insieme Achille Lauro, Calcutta e Myss Keta coi Pfadfinderei? E, andando pure mesi addietro, ad uno così vuoi che faccia paura se poi la gente lo percula perché lo stage diving al Primo Maggio è andato male? Marco Jacopo Bianchi è un artista profondo, con sguardo affilato e luciferino, che non ha paura di rimbalzare sugli angoli della contemporaneità. Non è rassicurante. E, come scritto da altre parti, non ha paura di raccontare il buio e la malinconia anche quando apparentemente lui ti sta portando a una grande festa.
In tutto questo, ha dimostrato che il clubbing con la cassa in quattro è una cosa fortissima, è ancora adesso una cosa fortissima. Oggi che muoiono le serate tech-house più o meno di qualità, rimpiazzate da (spesso imbarazzanti) serate trap e (spesso noiose) serate it-pop, se uno ha un minimo a cuore la club culture, la sua storia, la sua energia emotiva fondante non può che essere grato a Cosmo. Molto grato. Ha dimostrato che: si-può-fare. Certe cose non piacciono solo ai rimastini che pedalano smascellanti sottocassa. Possono piacere a tutti. Perché possono essere, in realtà, molto belle.
Il modo migliore per declinare questa gratitudine è ora non intrappolarlo in un luogo comune, o in una direzione predefinita e predeterminata. Marco Jacopo Bianchi non ha obblighi. Il suo prossimo disco può anche essere mazurka, se gli va (e se gli andasse, e se mantiene l’attuale ferocissima e profondissima sensibilità, siamo sicuri che verrebbe fuori un gran disco). Può essere ancora più techno e viaggioso, può essere un ritorno al post rock, può essere calcuttianamente pop o achillelauristicamente vocoderoso, tanto l’importante è che lui declini le cose a modo suo, sempre e solo a modo suo.
Può farlo: perché lo ripetiamo, quando si è approcciato al mondo del clubbing, non lo ha fatto da turista sfruttatore mordi-fuggi. Lo ha fatto per amore. Non per calcolo. Ed ha amato in profondità, con rispetto, con gratitudine, con la voglia di restituire (…da lì la creazione di Ivreatronic la serata, una delle serate mensili più belle e “carbonare” mai fatte in Italia, no PR, no mega guest, no cazzate, ma un sacco di lavoro dal basso, un culo quadro nel fare “tutto in casa” e senza scorciatoie glamour).
Per amore e rispetto, sì. Non per il successo, La lezione più importante che ogni musicista dovrebbe capire. E che ogni appassionato dovrebbe saper valorizzare.
(foto di copertina di Virginia Bettoja Photography)