Domanda a chi è nato negli anni ’80 e magari pure nei ’70 (o pure più addietro, eh): ma davvero avete così poca memoria? Perché continuiamo a leggere di trentenni e quarantenni che si lamentano altamente dell’attenzione data al festival di Sanremo, oggi nel 2019 (e anzi, magari pure tu che stai leggendo starai pensando “Sanremo? Su Soundwall? Ma che cazzo andate a scrivere di Sanremo? Cosa c’entra? Pure voi, solo per elemosinare qualche click? Che merde che siete”). In realtà, parte della critica è pure sensata: perché è ancora vero che quella di Sanremo continua ad essere una “messa cantata” dove converge, spessissimo in maniera becera ed acritica, l’interesse della peggio Italia, mettendoci una attenzione ed una passione che non viene invece riservata ad altre – più meritevoli – declinazioni di musica, arte e spettacolo. Assolutamente. Ed è di conseguenza vero che, scrivendone ed occupandosene, si va in parte a perpetuare questa dinamica, a rafforzarla.
Ma è anche vero che le cose, se le vuoi cambiare, devi comunque rimboccarti le maniche e mettere le mani lì dove vuoi che un cambiamento ci sia, invece di stare sulla balaustra a sputar bile e malcontento. Ma appunto, veniamo alla memoria storica di cui dicevamo: sì, c’è stato davvero un lungo momento in cui Sanremo si era davvero scollegato dal paese reale, era diventato un pacchiano e tronfio circo autoreferenziale dove (r)esistevano autentiche mummie che vivevano solo ed unicamente nei giorni del festival, per poi scomparire del tutto dagli ascolti (in radio, ovunque…) delle persone normali, venendo al massimo scongelate per qualche festa estiva di paese organizzata da assessori alla cultura particolarmente ottusi ed ignoranti. Sanremo a lungo ha orgogliosamente rivendicato tutto ciò, si nutriva di questa sua raccapricciante specificità: ciò che presentava musicalmente era totalmente scollegato dalla realtà (con rare ed episodiche eccezioni), per il resto era come una telenovela di cinque, sei giorni coi suoi attori, le sue maschere, le sue macchiette, i suoi idealtipi grossolani, nulla comunque che c’entrasse col mercato musicale reale. In una parola: Sanremo era inemendabile. Un mondo a parte. E, sotto molti punti di vista, incommentabile – a meno che non si volesse (s)cadere nella mera critica di gossip e costume, mettendo brace sotto i carboni ardenti dell’effimero.
Qualcosa però sta cambiando. E questa edizione 2019, beh, merita di passare alla storia come quella che più, meglio e più all’improvviso si è aperta verso il paese reale musicale, in tutte le sue sfaccettature. Negarlo è davvero difficile.
Sanremo e le nicchie restano due contesti decisamente distinti. Ma…
Non è un caso che questo sia successo avendo come direttore artistico un musicista, Baglioni (con buona pace delle accuse di conflitto d’interessi, di eccesso di suo protagonismo sul palco, eccetera: non è questa la questione, qui). Ha dimostrato di avere un orecchio attento e una visione senza pregiudizi, da musicista e non da impresario, lì dove invece in passato il criterio era “Ok, ma questo quanta audience potrebbe fare?”. Sì, certo, i “suggerimenti” delle major di turno saranno stati presentissimi, chi lo nega, resta il fatto che se pensi solo a quella che per luogo comune d’elezione sarebbe la “platea televisiva media di Sanremo” non inviti Zen Cirus, non inviti Mahmood, non inviti Motta. Giusto per fare tre nomi. Gente che o non è passata dai maledetti talent; o, se l’ha fatto, l’ha fatto in maniera comunque irrilevante (Mahmood).
A dire il vero, questo era presentato come “il Sanremo del rap”. Vari personaggi di estrazione hip hop si sono trovati a partecipare, infatti. La delusione in tal senso è stata grossina: la suddetta estrazione ha calato veramente le braghe nei confronti di Sanremo, perché di hip hop se ne è sentito un po’ solo nel caso di quello che poi, paradossalmente e contro ogni previsione, ha vinto, facendolo senza uniformarsi troppo alle sonorità-da-Sanremo (ok la cantabilità del ritornello probabile frutto del tocco di Dardust, ma per il resto c’è molto Charlie Charles, e lui col Sanremo “storico” c’entra come Ventura c’entrava con la Nazionale). Passi per Ghemon, che la sua svolta pop-soul l’ha avuta ancora in tempi non sospetti (e, tra l’altro, ha presentato a nostro modo di vedere la canzone più elegante e di classe del festival); ma vedere Shade e Briga addomesticati così, barboncini ben pettinati ed artisticamente inoffensivi, fa rivalutare molto Achille Lauro: uno che dall’hip hop arriva e che ok, con “Rolls Royce” era hip hop come mi’ nonna da un lato, ma dall’altro invece molto hip hop nell’essere esagerato, fumettistico, esplicito, tronfio, autentico, vivo, sfacciato (a questo, aggiungere il lavoro di cesello assai intelligente e paraculo di chi gli ha confezionato la veste musicale della traccia). Nella categoria barboncini va messo ovviamente anche Ultimo (ehi, ciao, lo so che io giornalista non conto un cazzo, quindi ora che t’arrabbi a fare se ti irrido?), noioso ed annacquato come pochi; mentre non ci va Livio Cori che anche se non è Liberato ha fatto una canzone che, riarrangiata, sarebbe perfetta per Liberato e in generale ha cantato gran bene e con stile, nascondendo le pecche di Nino D’Angelo. In più proprio Livio Cori, assieme a Ghemon, ha messo nella giornata dei duetti il più alto tasso di autenticità hip hop, scongelando il totem-Sottotono (che ci piacerebbe tanto tornassero a fare cose assieme). Volendo continuare la carrellata urban – abbiamo infatti un po’ allargato l’obiettivo – volendo si possono citare anche i Boomdabash: pure loro si sono fatti addomesticare un po’ e alla fine c’era più coraggio nella (noiosa) canzone della Berté o in quella (anfetaminico-feliciona) di Arisa.
Hip hop al 100%, per quanto un po’ anni ’90 nell’attitudine, Daniele Silvestri: non tanto perché ha chiamato Rancore a rinforzo (bella scelta) ma perché ha tirato fuori un argomento duro e difficile, trattandolo “in medias res”: ehi, questo è molto hip hop. In più Silvestri non è rapper, ma soprattutto dalla seconda esibizione in poi è parso più sul pezzo, sul flow e sul ritmo di molti suoi esimi colleghi ufficialmente certificati rapper. Il che potrebbe dirla lunga su quanto oggi si sia abbassata l’asticella tecnica del rap. Vabbé: passerà.
Quest’anno come mai in passato si è potuto parlare di Sanremo concentrandosi sulla musica, non (solo) sulle cazzate
Ok. Fermiamoci un attimo. Vorremmo capiste che paragrafi come gli ultimi tre sarebbero stati semplicemente impensabili, fino a poche edizioni fa: perché se togli la breve primavera con Subsonica e Bluvertigo e qualche altra cometa isolata, per il resto sarebbe stato impossibile parlare di Sanremo disquisendo così tanto di musica, di musica vera, di generi, di fedeltà nell’attitudine a questo o quest’altro suono sintonizzato con la contemporaneità come abbiamo fatto negli ultimi tre paragrafi. Impossibile.
E allora. Esattamente come nel pop si è sempre creduto che Baglioni (lui!), Zero, Ramazzotti, Pausini sarebbero stati eterni, e il ricambio era Antonacci (che c’ha mille anni) o gli 883 (pure Pezzali non è proprio di primo pelo) o comunque qualcuno allevato e cresciuto dai soliti noti poi all’improvviso sono arrivati Calcutta, Thegiornalisti e Cosmo con CV indie al 100% (guardate chi sono i loro management e da dove arrivano come etichette…), allo stesso modo pure il moloch-Sanremo si è dimostrato improvvisamente permeabile alle aperture, agli stimoli del mondo reale e dei gusti di chi ha venti/trent’anni – e pariamo non solo dei ventenni o trentenni drogati e narcotizzati da Maria De Filippi e dai talent. L’avreste mai detto che il festival di Sanremo sarebbe stato vinto da un brano che vede fra i creatori un tizio nominato più volte su un sito come il nostro? Beh, è successo: Charlie Charles (…senza contare che pure Dardust, altro co-autore, da solista non è distantissimo dai mondi soundwalliani, anzi).
E’ che siamo troppo abituati a disgiungere Sanremo dalla musica, quindi forse non ce ne stiamo accorgendo abbastanza o stiamo accogliendo la cosa con troppo scetticismo. Invece sarebbe il caso di darsi da fare, e di rendere sempre più inevitabile questa interazione tra ambiti: perché se Hawtin ormai più di dieci anni fa finisce nelle cerimonie di inaugurazione delle Olimpiadi (Torino 2006) e gli Orbital, Underworld e Fuck Buttons nelle Olimpiadi e Paralimpiadi 2012 di Londra (ma prima ancora c’erano stati Björk e Tiësto), non c’è nessun motivo per cui non immaginare che ad un certo punto fra i credit di produzione di un pezzo a Sanremo possa esserci un Ilario Alicante o un Luciano Lamanna.
Essere ammessi nel “salotto buono” non è comunque di per sé una vittoria: non basta
Tutto questo non significa che ora deve esserci l’abbordaggio al mainstream, al pop. Abbiamo sottolineato la magra figura di parte del contingente hip hop non a caso: si può e deve fare molto di più, essere ammessi nel “salotto buono” non è per un cazzo una vittoria in sé se per farlo devi snaturare ed annacquare te stesso. Ma che persone provenienti da un mondo “nostro” (urban, contemporaneo, vivo, attivo, indipendente) finiscano a Sanremo – che resta un evento di portata enorme nel nostro paese, in grado di muovere interesse ed interessi enormi – è in sé una buonissima notizia per tutti. Dirlo non significa volere&auspicare la fine dell’underground: Sanremo e le nicchie restano due contesti distinti. Ed è giusto raccontarli come tali, anche perché si basano su valori e dinamiche di validazione piuttosto differenti. Ma se una cosa è ben fatta, spesso e volentieri può essere interessante e spendibile su piani e contesti diversi – coi giusti, dignitosi e professionali adattamenti. Già l’Italia è un paese sclerotizzato. Ce ne lamentiamo (giustamente!); poi però quando per una serie di congiunzioni astrali uno dei bastioni del “potere” si dimostra aperto agli stimoli e ai contributi da parte di realtà più fresche allora che facciamo, ce ne lamentiamo?
Il punto piuttosto è vigilare ed essere critici affinché questi contributi siano possibilmente di qualità, non annacquati, non loffi; così come il punto è cercare una giusta mediana tra capacità di essere popolari e parlare a tutti ed esigenza di essere dignitosi ed onesti verso la propria arte e creatività. Respingere a priori, proprio a priori, che una cosa grossa come Sanremo possa diventare (anche) una questione di musica diventa una grande occasione persa. O la scelta di vivere per sempre confinati in una riserva indiana che non vuole contatti con l’esterno. Scelta rispettabile, eccome: ma se la si percorre, non puoi lamentarti di Sanremo e non devi nemmeno parlarne allora. E’ irrilevante: non è nel tuo mondo.
Ma al di là delle scelte estreme, una chiusura aprioristica diventa figlia proprio di quello che si vuole combattere: pregiudizi e sovrastrutture e gattopardeschi status quo. Significa giocare allo stesso gioco del cazzo dei politici che improvvisamente si mettono a commentare Sanremo: o per rimestare su eventuali complotti (chi ha fatto vincere Mahmood, e perché: basterebbe conoscere il regolamento per capire come questo esito finale fosse più che possibile), escludendo quindi completamente la musica dalla narrazione, o per fare populismi di bassa lega per cui deve sempre vincere il voto popolare. Far vincere sempre e solo il voto popolare deridendo chi ha speso anni di studi e conoscenze in una determinata materia è il modo migliore per non progredire mai, per stare sempre sulla solita sbobba – quella che è accessibile a tutti senza sforzo, ovvero alla maggioranza. Fidarsi di chi è esperto in qualcosa e parla con laicità, apertura mentale e competenza è invece spesso un modo per proiettarsi, finalmente, verso un minimo di futuro, dopo anni, decenni di stasi.
Poi chiaro: deve esserci un equilibrio fra componenti. Un equilibrio che Sanremo quest’anno è riuscito ad avere mai come in passato (le novità musicali + ascolti televisivi comunque al top e quindi la giusta presa sul mondo popular): ecco perché ci pare interessante parlarne e lo riteniamo un argomento rilevante anche per chi, di Sanremo, di base non gliene fregherebbe un accidente ma ha comunque a cuore un’Italia in grado di essere, alla buon’ora, un po’ meno ingessata e fuori tempo culturalmente.
Quindi sì. Quando vediamo gente dei “nostri” che discute su Achille Lauro, su Livio Cori, sulla Berté, su Silvestri portando ragionamenti ed opinioni, a noi fa piacere. Ci pare un bel segno. E non per questo da lì in poi non saranno più in grado di parlare e dire cose interessanti e competenti su Dozzy, DVS1, Dj Harvey o Croatian Amor. Pare assurdo? Anzi, aggiungiamo: giudicare Ghemon ed Einar conoscendo anche Yves Tumor è una carta in più, non una carta in meno. Carta che in futuro potrebbe anche diventare, chissà, un’interessante risorsa, uno stimolo non banale. Una carta dove “Rolls Royce” diventa un punto di partenza, mica di geniale arrivo – come in questi giorni abbiamo visto scrivere inavvertitamente e con eccesso di entusiasmo.