Ascoltare “Dove gli occhi non arrivano” per qualsiasi fan di Rkomi è un’esperienza quantomeno strana. Nessun ascoltatore di rap italiano si sarebbe mai aspettato da lui un disco del genere, perché in questo ultimo disco Mirko sembra una persona nuova, lontano anni luce dalla cruda realtà di “Dasein Sollen”, o dalla frenetica sperimentazione di “Io in terra”. Ma prima di parlare del lavoro in sé, è necessario fare una breve premessa.
Nell’ormai lontano 2016 (anno del suo “Dasein Sollen” d’esordio) il giovane rapper di Calvairate era stato individuato da molti come colui che avrebbe preso lo street rap e l’avrebbe rigenerato. Come fosse un novello Marracash – al quale era stato paragonato per la capacità di abbinare una scrittura di livello esemplare con uno stile unico – Rkomi avrebbe dovuto riprendere in mano la storia del racconto della metropoli per portarla nella contemporaneità, con skills e poetica. La sua storia sembrava già scritta.
Il giovane rapper di Milano era infatti la via di mezzo giusta: finalmente un ragazzo della nuova scuola che poteva davvero piacere a tutti, che poteva mettere d’accordo le teste hip hop più tradizionali e i giovanissimi. Non a caso Rkomi si legò molto a Night Skinny all’inizio, producer da sempre molto attento a questo genere di immaginario trasversale, che aveva prodotto per lui “Fuck Tomorrow” con un campione di Nas – anzi, nell’intro di “Fuck Tomorrow” si diceva addirittura che Rkomi avrebbe creato un “Illmatic 2017”.
Ad oggi sono passati tre anni da “Dasein Sollen” e da quell’esordio folgorante, ed Rkomi non è più lo stesso. Il ragazzo a cui era stato affidato quel compito ha deciso, con questo disco, di abbandonare definitivamente (?) quella strada che sembrava già tracciata, per lanciare invece la sua personale sfida al pop. E “Dove gli occhi non arrivano” è esattamente questo: un passo verso un nuovo sentiero, per provare a produrre un disco completamente “controintuitivo”, che lo sfili dalle etichette già applicate per lanciarsi piuttosto in un universo differente. Non a caso la supervisione del lavoro è affidata a Charlie Charles – che dopo il disco di Ghali, “Rockstar” di Sfera, la supervisione dell’album di Gue, e la vittoria di Mahmood sembra essersi adattato bene ad un ruolo “alla Rick Rubin” – e non a caso i featuring presenti sono o di veri e propri giganti del pop (Elisa e Jovanotti), oppure di quei rapper talmente grossi che appartengono di diritto al mainstream: Ghali, Sfera Ebbasta e Carl Brave.
(Intanto, a voi l’ascolto dell’album; continua sotto)
Proprio la presenza di Carl Brave può aprire una chiave di lettura per quanto riguarda questo progetto. Il rapper romano, assieme al suo collega Franco126, è stato l’apripista per quello che ora viene genericamente chiamato come indie-rap (definizione brutta e approssimativa ma comoda, e che tengo buona per questioni di comprensibilità). Per indie-rap si intende quella forma di rap che prova a spingersi verso forme di cantautorialità, abbandonando l’idea di testo rap in senso classico per esplorare di più la forma canzone. Ed è proprio in questa direzione che sembra andare il rapper con questo lavoro: meno rap in senso stretto ma brani più aperti, che si lasciano contaminare dalle melodie, e dalla freschezza del pop più family-friendly.
Con il senno di poi si può forse vedere in “Apnea” (singolo di grande successo estratto da “Io in Terra”) il primo seme da cui poi è germogliato questo disco; non a caso quella canzone era prodotta proprio da Carl Brave, che per l’occasione aveva suonato una strumentale più acustica, e meno usuale rispetto agli standard di Rkomi. Si può presumere che a partire da quell’episodio Mirko ci abbia preso gusto, e abbia voluto provare a muoversi al di là di quella che fino a quel momento era stata la sua zona di confort.
E quindi, ecco la decisione di lasciare (per il momento… ?) Calvairate, Viale Molise e la Zona 4. Mirko non è più solo quel ragazzo: non ha più le mani nelle buste di cellophane, ormai è un artista a tutti gli effetti, e reclama di “cantare il cazzo che mi pare”. Il percorso di distacco rispetto alla sua vecchia realtà, iniziato con “Io in terra”, si compie definitivamente in questo nuovo lavoro dove sparisce il Mirko confuso e rabbioso, per dare spazio ad una sua versione più serena e tranquilla. Senza la necessità adeguarsi agli stereotipi legati allo street rap, viene lasciato spazio ad un altra sua faccia, quella più amichevole e più positiva.
Con questo cambiamento entrano in scena prepotentemente nuovi temi, che fino a questo momento erano stati messi in secondo piano, come per esempio le donne e l’amore. Lo spostamento tematico non va a tuttavia modificare la struttura della scrittura del rapper che, qualitativamente parlando, non si discosta mai dall’asticella che aveva incensato Rkomi come uno degli emergenti più interessanti del panorama italiano. Non si assiste quindi ad una semplificazione della scrittura per essere adattabile ad un contesto più pop; e anche nei pezzi più facili, come “ La U”, il flow rimane sempre di livello.
Perciò tutto bene? Beh, non proprio. Perché si può definire come si vuole questo disco: un passo a latere, sperimentale, pop, diverso, eccetera. Tuttavia il nuovo ruolo non calza alla perfezione a Rkomi: che non ha la naturalezza della pop star, ne l’attitudine del cantautore. Non è Ghali, che sembra aver cucito addosso quel ruolo; non possiede la spontanea giocosità di Jovanotti, o la scrittura per immagini di Carl Brave.
Per esempio la sua scrittura, che nel rap era un punto di forza, spostata invece nel macro-universo del pop diventa un limite. Il suo stile è infatti ancora troppo intricato e troppo poco radiofonico per essere davvero ascoltabile anche “dalle mamme in tangenziale“, e ad eccezione dell’episodio con Elisa il disco suona davvero troppo complesso come testi per essere radiofonico. A questa andrebbe aggiunto anche “Boogie Nights” con Ghali, ma il pezzo diventa fruibile per le radio più per Ghali che per Rkomi in sé.
Allo stesso modo, in generale le collaborazioni non danno slancio ulteriore al disco (tranne nel caso appunto di Elisa), con Sferaebbasta a riproporre l’ennesimo pezzo mediocre (prima o poi uscirà da questo momento di sterilità artistica?), Dardust e Carl Brave che non riescono a dare appeal ai loro rispettivi brani, e Ghali e Jovanotti che monopolizzano l’attenzione dell’ascoltatore, mettendo Rkomi pesantemente in secondo piano – e qui si nota la differenza tra chi prova ad essere in un modo e in un “mondo”, e chi lo è per natura. A questo punto diventa anche rivedibile il ruolo di Charlies Charles stesso, che forse per la prima volta non riesce a dare quel tocco in più al lavoro, restituendo all’ascoltatore un lavoro sì omogeneo come suono e immaginario, ma zoppicante a conti fatti.
Insomma Rkomi ha forse osato troppo in questo caso, lanciandosi in un universo che non gli appartiene senza avere davvero tutti gli strumenti per essere pronto all’impatto. “Dove gli occhi non arrivano” rimane quindi un lavoro con delle buone intenzioni, degli ottimi spunti, ma troppo traballante complessivamente, non realmente incisivo e definito. Un non-finito d’autore, certo, ma sempre un non-finito.