C’è da fare una riflessione molto interessante su “Zerosei”, il disco con cui Frenetik & Orang3 hanno deciso di raccogliere la scena romana contemporanea legata alla musica urban – rap e dintorni, insomma. E’ un disco che suona molto attuale, è una perfetta cartina di tornasole della situazione attuale della musica suddetta: la sua capacità di essere perfettamente utilizzabile anche dal pop e pronta per un pubblico vasto pur mantenendo il proprio dna originario. Un tempo sarebbe stato impossibile, soprattutto in Europa, ancora di più in Italia: o facevi pop, o facevi musica urban. Non ve n’è. Non era possibile immaginare qualcosa che riuscisse a riunire queste due anime; toh, al massimo c’era il successo trasversale targato trip hop, breve, bellissimo ma effimero, ma pure lì non stiamo parlando tanto di pop e di vero mainstream quanto di una fetta qualificata di ascoltatori attenti, ok, diffusa, ma pur sempre una fetta, una nicchia.
Una nicchia che, proprio perché giga-appassionata di musica, poteva mettere insieme Mark Lanegan e la drum’n’bass, i Pavement e gli Antipop Consortium, Neneh Cherry e i Chemical Brothers, Tricky e PJ Harvey (…e questi ultimi due poi hanno proprio collaborato). Bei tempi. Bei tempi, perché in quel periodo creare queste intersecazioni non era una cosa semplice ed immediata, ci voleva attenzione, coraggio, conoscenza, voglia di prendere sul serio la pratica dell’ascolto musicale. Per tutti gli altri, c’era il pop. O c’erano i vari recinti invalicabili: il rap, la techno, l’indie, il noise, eccetera. Ognuno stava nel suo. E ciò che stava fuori dal suo, beh, o lo si ignorava o lo snobbava. Tolti appunti i più raffinati ed appassionati. Chi era appassionato di rap schifava già l’elettronica dance, per non parlare del pop, mentre l’indie non lo prendeva manco in considerazione (ricombinate tutti questi elementi a seconda della nicchia, la repulsione reciproca non cambia). Chi invece aveva ascolti pop, manco per sbaglio finiva a seguire i rivoltamenti delle nicchie.
Basta con la romantica idea del “Faccio musica bella ed autentica, anche se so che così il mainstream non mi cagherà mai”. Ora è tutto un “Sono così autentico e fai-da-me che cazzo ora il mainstream viene da me per forza, perché spacco”
Anni ’90. Ma ancora anni 2000. Poi, all’improvviso, guardi alla contemporaneità e ti dici: ehi, ma che è successo? Hanno vinto i “raffinati ed appassionati”? Sarà mica vero? Ma sì: perché improvvisamente senti uno “Zerosei” e ti dici “Questo è hip hop ma è pop, questa è musica urban ma va bene anche per il mainstream”, ed è normale sia così, lo trovi giusto, lo trovi normale, lo trovi buono. Non sono solo Frenetik & Orang3, eh: ormai se ascolti in giro l’hip hop, ma pure la dance più in chiave EDM, saccheggiano senza pietà soluzioni melodiche pop (e talora pure gli arrangiamenti, soprattutto l’hip hop, mannaggia a lui…), il pop dal canto suo cerca avidamente tutto ciò che profuma di stradaiolo, di un po’ di “urban maudit”, di autentico, lascia la fecondazione in vitro da talentini da classifica giusto alla De Filippi, mentre nei propri laboratori va a caccia di tutto ciò che nei due decenni precedenti era fieramente indipendente.
E sono tutti contenti.
Le major: perché hanno linfa nuova, ed è una linfa che piace non solo alla gente che piace, ma anche a quella che fa i numeri, e non è una differenza da poco. Gli indipendenti, perché basta con la romantica idea del “Faccio musica bella ed autentica, anche se so che così il mainstream non mi cagherà mai”, ora è tutto un “Sono così autentico e fai-da-me che cazzo ora il mainstream viene da me per forza, perché spacco”.
Insomma, siamo tutti contenti e forse davvero stiamo meglio così. Perché un tempo un disco come “Zerosei” sarebbe stato clamorosamente snobbato dal pubblico “normale”, restando confinato nel pubblico di nicchia (un “posse album” romano di rap/elettronica/r’n’b dove volevi che andasse dieci o vent’anni fa, major o non major che fosse?); ma una volta trovatosi a caracollare in mezzo al solo pubblico di nicchia, sarebbe stato brutalmente impallinato perché troppo vario, troppo piacione, troppo fatto bene e professionale, poco “sporco”. Tu potevi provare a rispondere “Sì, ok, però ascoltatelo, è fatto bene, è prodotto gran bene, non è facile essere bravi e fare le cose così tecnicamente a modo, con anche idee musicali appropriate”, il commento sarebbe stata una gran pernacchia. C’è stato un momento, un luuuuuungo momento, in cui essere bravi a fare le cose era vista come una cosa da sfigati. Da turnisti. Da gente senza troppi meriti, da accompagnare con una pacca sulla spalla non all’uscita, ma comunque ad un angolo insignificante della festa.
Non è un caso che i Frank Sent Us, che – lo si dice troppo poco – sono stati la casa originaria di Frenetik & Orang3, siano stati sostanzialmente snobbati nei primi anni della loro esistenza, quando insomma ci stavano provando sul serio. Troppo “puliti”, tecnici ed eterogenei stilistcamente per essere underground; troppo underground per essere un minimo cagati dal mainstream. A distanza di alcuni anni, ciò in cui sono cambiati Frenetik & Orang3, nella loro evoluzione dopo che è stato messo in stallo Frank Sent Us, è stato al massimo aggiungere un po’ di astuta malizia nel sapersi mettere al servizio degli altri, del rapper/cantante di turno. Ma la loro attitudine e la loro cifra stilistica non è cambiata. E’ sempre quella. E’ quella che li ha portati ad essere snobbati fino a cinque anni fa; ed è quella che li rende perfetti ed apprezzatissimi oggi come produttori per rapper dal successo di nuovo conio, il contraltare o il complemento di Takegi & Ketra. E’ lei.
Potremmo quindi dire che “Zerosei” scorre molto bene, ed è assolutamente ben prodotto (ed è così); potremmo dire che è molto intelligente ed onesto, e pure un sacco interessante nel dare una cartografia della musica a Roma che sia completa, perché ci sono in tanti, vecchi, nuovi, famosi, meno famosi, integerrimi, bislacchi, sperimentatori, e il quadro complessivo è davvero sfaccettato e fedele (…potremmo dirlo, e lo diciamo: è così. Se un tempo per capire il “suono di Roma” dovevi andare al Locale di Via del Fico, oggi basta ascoltare “Zerosei”). Ma il punto che qui ci interessa è un altro: quanto è cambiato l’ascoltatore di musica in Italia?
Parecchio. Internet ha cambiato sia l’ascolto mainstream che quello di nicchia, creando una intersecazione fra i due che anche solo un decennio fa sarebbe stato fantascienza. Domanda: ammesso e concesso che la fantascienza si è fatta realtà, ora noi cosa stiamo vivendo, un sogno o una distopia?
Ognuno può dare la risposta che preferisce. Non mi nascondo, e io do la mia, la mia personalissima: non lo so, sono perplesso. Non escludo la distopia. Perché il rischio è quello di finire in una notte dove tutti i gatti sono grigi, o dove tutte le stimmate di orgoglio e di etica che derivavano dal far parte di una scena underground ed antagonista vengono annacquate in una improvvisa “corsa all’oro” facilitata dal fatto che improvvisamente quello che prima era il nemico, le major, ora ti aspetta all’uscio della porta con le tartine di caviale e lo spumantino già pronti, desiderandoti ardentemente. Anzi, fa pure di più. Ti dice: “Mi fido di te!”. E ancora: “Resta indipendente!”. Poi pure: “Fa le cose a modo tuo, mi raccomando!”. Anche se poi sussurra: “Sì, le cose a modo tuo, però questo e quest’altro lo devi fare come dico io, dai, con tutta la libertà e fiducia che ti do che ti costa darmi ragione su un paio di cosine?”.
Perché fanno così le major? Non perché sono diventate buone. Non perché sono diventate più oneste. Non perché sono diventate più legate all’arte. Ma perché si sono accorte che finalmente è successo quello che per anni si è preconizzato ma pareva non succedere mai: internet ha cambiato i gusti delle persone. Ha reso tutto più liquido, ha piallato steccati e contesti.
Finalmente è successo quello che per anni si è preconizzato ma pareva non succedere mai: internet ha cambiato i gusti delle persone. Ha reso tutto più liquido, ha piallato steccati e contesti
Peccato però che internet non ha cambiato la pigrizia delle persone. Qui sta il problema. Quindi se è vero che oggi il sapore urban piace al pop e alla scena urban non dispiace essere un po’ più accomodanti e pronti a scalare le classifiche, è anche vero che restano gli schematismi per cui si pensa a mode, a hype, a periodi effimeri. Il motivo per cui oggi Frenetik & Orang3 (o Takegi & Ketra) piacciono un sacco alle radio e in generale alle persone, ma ieri no e domani neppure. O il motivo per cui comunque la forbice tra chi è di moda e chi invece non lo è non si è ristretta, si è forse perfino allargata. Guardate i numeri. Guardate quanto è aumentata la differenza di cachet fra artisti che fanno musica simile, solo che uno è nel giro “giusto” del momento, l’altro il solito cane rognoso fissato con le sue cose da quattro sfigati.
Siamo molto contenti che Frenetik & Orang3 non siano più degli sfigati, ma degli hit maker rispettatissimi. Se lo meritano. E meno male che oggi la modernità nel pop non è rappresentata dai finti giovani alla Canova, a cui si butta in pasto giusto un Fedez. Ma abbiamo paura che, ad esagerare in questo abbattimento delle barriere, perderemo tutta una serie di specificità, per correre dietro ad una grande omologazione la cui qualità si misura in numeri e in euro, non in quanto si è autentici e quanto si porta avanti una battaglia ideale che preserva le differenze, preserva ciò che può e vuole essere alternativo, poco accomodante, mai domo ed addomesticato.
Bisogna restare con gli occhi bene aperti. Bisogna restare lucidi.
Perché è un attimo scoprire che quello che sembrava un sogno bellissimissimo era invece più una distopia, e mo’ il rischio che arrivino cazzi per tutti – tranne che per i soliti noti, quelli che lucrano cinicamente sulla pigrizia mentale del consumatore e sono pronti a buttare a mare senza mezza lacrima ciò che fino a cinque minuti prima magnificavano e portavano in palmo di mano.