Non è stato un processo semplice, arrivare ad “LP5”. Lo dice la cronologia stessa: era da “The Devil’s Walk”, anno 2011, che non c’erano suoi album solisti; o volendo, anche considerando la “musica per teatro” di “Krieg Und Frieden” arriviamo al massimo a 2013. Sei anni. Certo: sei anni che sono stati tutto tranne che vuoi, con l’esplosione planetaria del fenomeno Moderat, i tour in giro per il mondo, due album, in cui la scrittura di Sascha è trave portante su melodie ed armonie. Ok. Ma Moderat continua ad essere cosa altra rispetto ad Apparat (…e anche rispetto a Modeselektor: anzi, i due questo l’hanno ben messo in chiaro con “Who Else”, come ci hanno raccontato senza nascondersi).
Quindi ecco, dopo tutto questo tempo tornare a ripresentarsi in prima persona, per giunta con uno status che è triplicato rispetto al passato, non sarebbe stato semplice per nessuno; e men che meno è semplice per un perfezionista e una persona sensibile come Sascha Ring. Una cosa emerge subito chiarissima da “LP5”, innanzitutto: l’enorme lavoro che è stato fatto sul suono. Un lavoro prima di tutto acustico, attenzione, non da producer di elettronica: perché questo è un album che “respira”, un album dove il tocco umano è presentissimo. Lo è anche – se non addirittura soprattutto – quando è il digitale ad entrare in azione: perché quasi ogni azione di software è comunque indirizzata a dare un suono vivo, antropomorfo, intimo, con le affascinanti imperfezioni e delicatezze che tutto ciò che è umano e non meccanico o digitale si porta dietro. In questo, ricorda molto l’ultimo lavoro di Bon Iver: dove il trattamento elettronico è pesante ed invasivo un po’ ovunque ma, paradossalmente, non fa che aumentare il senso di umanità.
Apparat destruttura un po’ meno dell’ultimo Bon Iver, diciamo che sta più su traiettorie radioheadiane, sfiorando ogni tanto pure le geometrie timbriche di un James Blake. Detto così, a mettere in fila Bon Iver, Radiohead e Blake, pare una cosa über-hipster magari pure furbetta e calcolata, vero? Nulla di tutto questo. Trasmette un fortissimo senso di sincerità, questo disco. Zero furbizia. Chi ama il tocco di Apparat nel costruire le melodie, troverà un sacco di materiale di cui esser contento; ai primi ascolti non abbiamo individuato una nuova “Rusty Nails”, cioè qualcosa capace di diventare inno strappa-anima per sempre, ma il livello complessivo ci pare molto, molto alto, con un sacco di soluzioni ispirate e fascinose.
Chi invece da Apparat vuole pure qualcosa in più (e, in generale, lo vuole dalla musica), guardando gli aspetti più “tecnici”, potrà apprezzare il lavoro molto interessante che è stato fatto sugli arrangiamenti. In primis, per quanto riguarda l’interazione tra strumentazione digitale e classica. Quest’ultima infatti è presente come non mai (anche con strumenti come tromba e contrabbasso, ad esempio nella “Voi_Do” iniziale, che sconfina quasi come timbrica in certi territori del David Sylvian di “Secrets From The Beehive”), anche se spesso e volentieri viene mimetizzata, levigata, resa lunare e senza gravità con un maquillage tecnologico molto elegante, molto misurato. In generale, comunque, si percepisce una grande attenzione a tratteggiare una personalità precisa anche per quanto riguarda il suono, in questo “LP5”, un’identità preziosa, ricercata, raccolta.
Ecco: non certo un’identità grandiosa, da dancefloor festanti o grandi spazi. Tra l’altro, nota interessante, per registrare questo disco Apparat è andato in quegli Hansa Tonstudios e si è fatto aiutare da quel Gareth Jones che sono gli artefici del suono particolarissimo (epico ma intimo, grandioso ma sinistro) di “Some Geat Reward” e ancora di più “Black Celebration” dei Depeche Mode. “LP5” è un disco piuttosto diverso da questi, ma condivide la stessa tendenza a far interagire in maniera intensissima e per certi versi imprevedibile digitale ed antropo-analogico.
Qualcuno potrà dire, a sentire il disco nel suo complesso: anche bello, eh, ma che noia. Lo mettiamo in conto. Sono però le stesse persone per cui anche Radiohead, Bon Iver e James Blake sono irrimediabilmente noiosi, però che ci puoi fare, lì entrano in campo i gusti e le attitudini personali; però negare che Radiohead, Bon Iver e James Blake siano artisti talentuosi ed importanti per i nostri tempi sarebbe disonesto, e con questo disco Sascha Ring ha dimostrato di aver raggiunto una maturità tale da poter stare al loro stesso livello, con una sua “voce” melodica e compositiva riconoscibile. Vi pare poco?
A noi, sembra tantissimo. Magari “LP5” non è un disco geniale (forse no), non è un disco spiazzante (sicuramente no), non è un disco che vi farà scoppiare di adrenalina (zero proprio), ma ha grazia, eleganza, ispirazione, cura, inventiva; è, in definitiva, un disco decisamente sopra la media. Un disco di un artista bravo davvero. Non era scontato: poteva anche fare il compitino, Apparat, e veleggiare sull’onda lunga del successo dei Moderat (di cui lui, volente o nolente, è in qualche modo visto come frontman). Invece, si è inabissato nei meandri della sua sensibilità e ha lavorato duro, ha lavorato a fondo. Ben fatto.