Un urlo, forte. Lanciato in una lingua con cui non ho una parola in comune. Mi giro di scatto, ancora rimbambito dal lungo volo delle sette del mattino da Hong Kong. E scorgo un gruppo di ragazzine che corre a perdifiato in una direzione, come un branco di antilopi che cercano di sfuggire alle grinfie del proprio predatore. Al collo hanno macchine fotografiche più grandi di loro e sono vestite in maniera variopinta ed originale. Ma ho commesso un errore di valutazione: non sono le prede, sono i predatori. L’oggetto di tanta frenesia – le vere prede – sono un gruppo di ragazzi altrettanto giovani che, come me, sono stipati nel serpentone per svolgere le consuete formalità doganali. Hanno un look molto androgeno, con trucco pesante a schiarire la pelle ed “ingrandire” gli occhi a mandorla, come vuole la moda in questa parte del mondo: bianco e caucasico vuol dire soldi, vuol dire benessere. Spiegaglielo poi che noi abbiamo, paradossalmente, il culto dell’abbronzatura. I giovani si concedono poco, visibilmente imbarazzati dall’eccessiva esposizione in un momento in cui chiunque vorrebbe semplicemente passare inosservato al funzioniere di turno. Si lasciano sfuggire qualche sorriso sardonico e tornano di fretta nel loro mondo. L’unico rumore che intervalla le grida è quello dei centinaia di scatti emessi dalle già citate reflex station wagon da migliaia di euro. Non posso fare a meno di chiedermi chi saranno per ricevere tutto questo entusiasmo. Mentre gli passo di fianco un paio di loro mi guardano – sono pur sempre caucasico, barbuto ed alto, una combo che fa ancora colpo in Asia – per poi abbassare subito lo sguardo, impacciati, appena li ricambio. Non posso fare a meno di trattenere una risata: questa è gente letteralmente coperta di soldi e fama eppure danno l’impressione di poter volare via alla prima folata di vento. Prima di aver formalizzato il pensiero, loro e le relative groupie sono già spariti dietro le porte automatiche intanto che – con un sorriso altrettanto sardonico – cerco di sembrare una persona per bene mentre aggiungo un altro timbro alla mia collezione sul passaporto.
Questo è il mio benvenuto in Corea del Sud. La parte “buona” di una terra che al mondo italiano sembra essere nota principalmente per le bagarre mediatiche di chi ne comanda la parte Nord e per la discutibile metrica di giudizio di quel simpatico sallucchione di Byron Moreno. Ci sarebbe da addurre anche colossi industriali come Samsung, LG, Hyundai e Kia all’equazione, ma mi chiedo quanti abbiano realmente a cuore la loro provenienza geografica. Eppure la Corea del Sud in particolare è un Paese che scoppia di vita: la scena sportiva è vibrante, con baseball e calcio vissuti come un’autentica ossessione. Senza contare le Olimpiadi invernali da poco disputatesi. Le soap opera coreane sono seguitissime in tutto il Continente. La connettività internet pare sia la migliore del pianeta e l’infrastruttura di trasporto pubblico – sicuramente ispirata ai vicini giapponesi – è una delle più efficienti che io abbia mai visto. E poi spiagge turchesi e colline smeraldee, isole vulcaniche e località sciistiche a comporne la bellezza naturale. E non iniziamo neanche a parlare di barbeque coreano che ho ancora l’acquolina solo a pensarci. Avere avuto il privilegio – come spesso cerco di fare – di prendere una macchina e girarlo da cima a fondo, questo posto, mi ha permesso di carpirne un filo meglio l’essenza e le diverse sfumature. Ma è indubbio che il suo cuore pulsi freneticamente nelle grandi metropoli: Busan, Daegu ed ovviamente la magnifica Seul.
(Panoramica di Seul. Continua sotto)
La musica non fa eccezione, con la scena K-Pop arrivata a livelli di notorietà globale inimmaginabili – qualcuno ha detto BTS sulla copertina di Time e alle Nazioni Unite? – senza voler poi andare a ripescare Psy e la sua Gangnam Style, che per un po’ di tempo hanno monopolizzato l’etere globale. Anche in questo caso, come detto, sono le città – ed in particolare Soul – ad avere una sorta di egemonia sulla scena. In particolare quella internazionale. Nella Capitale la notte scorre veloce fino alle prime luci dell’alba a colpi di “Cha”. Termine con cui si definiscono le tappe di quella che è la versione tutta loro del pub crawl. Solitamente si comincia con una cena in qualche ristorante, si continua con dei drink in uno dei tanti rooftop bar e poi si mischiano le due cose nei susseguenti Cha prima di andare eventualmente a chiudersi in uno degli innumerevoli club che affollano i quartieri della movida cittadina: da quelli pettinati di Gangnam a Sud del fiume Han, che divide idealmente in due la cittá, a quelli più alla buona di Itaewon e Hongdae nella parte Ovest del centro. In questi ultimi si puó trovare un mix eterogeneo di studenti ed expat e vi si concentra la maggioranza dei “nostri” locali. Abilmente camuffati al riparo da visitatori indiscreti.
(Seul di notte. Continua sotto)
Perché specialmente ad Itaewon la situazione può facilmente scappare di mano a causa della base militare americana presente in loco ed ai fiumi di alcool che annaffiano il quartiere durante il weekend. Non a caso Hooker Hill – letteralmente la collina delle signorine dai facili costumi, una sorta di distretto a luci rosse illegale ma tollerato – è sito proprio nel suo centro nevralgico. La situazione mi è sembrata generalmente tranquilla, ma la quantità notevole di ubriachi fradici può sempre essere causa di noie. Così, come in Giappone e Thailandia – giusto per fare due esempi che ho toccato con mano in Asia – la scena underground fa di tutto per rimanere tale in mezzo alle luci scintillanti ed al raggaeton di dubbio gusto dei discopub che la circondano. Infatti, i club che ho visitato risultano essere molto simili fra loro: difficili da individuare, minuscoli nelle dimensioni, con un’atmosfera molto scura ed intima ed essenziali su tutto tranne che la proposta artistica. Specialmente il già citato camuffaggio li rende preda ardua per chi non ne stia volutamente richiedendo le prestazioni. Così da garantire alla propria clientela un ecosistema consapevole e sicuro. Ideale per godersi la musica che tanto amiamo senza troppe seghe mentali.
(Uno dei luoghi di cult di Seul per il clubbing più autentico: il vurt. Continua sotto)
È idealmente il caso del vurt, ubicato sotto ad un palazzo residenziale. Quando si arriva dove le indicazioni vorrebbero ci si trova solo ragazzo anonimo seduto dietro il portone. L’occhio allenato noterà però delle indicazioni – le regole della casa – scritte su una vecchia porta di legno. Di quelle tipiche dei ripostigli coi contatori. Che una volta aperta, però, conduce – tramite una scala di pietra – ad un’autentica catacomba che trasuda techno da ogni poro. Con una pista breve, stretta ed illuminata solo dalla luce di poche lampadine. Divisa verticalmente da sbarre che ricordano quelle di Köpenickerstrasse, for those who know. Dove venerdì Efdemin ha presentato il suo nuovo album. E domenica il nostro Neel si è esibito in due ore di live ambient, con sedie e divani disseminati in pista per favorirne l’ascolto. Forse il singolo club che più mi ha impressionato dal punto di vista dell’atmosfera e del fascino del doverselo davvero andare a cercare.
Ricerca che mi regalato anche un eclatante caso di serendipity la notte di sabato. Quando, veleggiando verso un’India chiamata Contra per il party con Jayda G, sono finito per caso a scoprire l’America. Vale a dire il Volnost. Un club a me semi-sconosciuto, anch’esso uno scantinato senza nome sulla porta e principalmente dedicato ad artisti locali. Eppure così vero e crudo al primo impatto da farmi dire al ragazzo all’ingresso che mi aveva poi addirittura accompagnato al Contra lui stesso: “No senti, ora voglio vedere che succede da voi. Torniamo indietro, qua ci vengo dopo!”. E dopo, molto dopo a dirla tutta, sono finito come da programma di fronte alla già citata – e sempre più brava – Jayda. Che, fresca fresca di Rainbow Disco Club in Giappone, aveva evidentemente portato la borsa festaiola e tantissima voglia di partecipare, corroborata da un dancefloor principalmente occidentale e decisamente ricettivo. Da quando ha affinato a dovere anche la tecnica, la canadese si è guadagnata una posto di tutto rispetto nel mio cuore. E vederla divertirsi come (e forse anche più di) chi le stava di fronte è stata una vera gioia per gli occhi ed il cuore.
(Gli interni del Volnost. Continua sotto)
A chiudere il cerchio ci sono il Pistil, altro club minuscolo e un filo più incentrato sul pre-serata. Questo nonostante la musica sentita là dentro fosse tutt’altro che scontata. E poi il Faust, dal nome evocativo visto che per raggiungerlo, al terzo piano di una palazzina nel pieno centro di Itaewon, bisogna passare da due piani della peggior musica che possiate mai immaginare. Salvo poi trovare l’alleluya, raffigurato in una sala un filo più grande delle sopracitate, con piccole finestre appannate dalla voglia di festa che danno sulla strada sottostante ed un impianto prepotente. Con i subwoofer tutti da un lato della pista come il Sub Club di Glasgow. Qui a farla da padroni sono stati rispettivamente Voiski il sabato e Levon Vincent la domenica. Durante lo stesso weekend, tra le altre feste non citate disseminate per la città, avreste potuto trovare Funkineven, Chus e Ceballos ed un sacco di nomi a chilometro zero che avrebbero probabilmente meritato maggior attenzione. Ma il tempo, si sa, non si compra. E si è dovuto fare delle scelte, talvolta sofferte. Una delle quali, ad essere onesti, è stata non strappare a metà il biglietto di ritorno e godermi Seul per almeno un altro paio di Cha. Sarà per la prossima.