Cosa c’è di sbagliato se fra la musica più moderna ed avventurosa che abbiamo sentito negli ultimi tempi c’è quella “disegnata” da un signore di ottant’anni? Forse nulla: perché il signore di ottant’anni – ritratto anche qui sopra – è Enrico Rava, uno dei più grandi musicisti mai nati in Italia, jazz o non jazz che sia. Un portento della natura, un personaggio assolutamente straordinario. Forse però qualche domanda bisogna invece farsela. E bisogna farsela partendo proprio dal jazz: una musica che ora come non mai è tornata al centro dell’attenzione anche di quello che dovrebbe essere un pubblico per esso “necessario”. Quello degli hipster. Usiamo il termine in modo dispregiativo? No: perché proprio gli “hipster” erano quelli che negli anni ’50 e ’60 ascoltavano le forme più progressiste e coraggiose di musica (che all’epoca era indubitabilmente il jazz, Kerouac docet). Avevano fra i venti e quarant’anni, cercavano il “nuovo”, cercavano qualcosa di viscerale, cercavano qualcosa che rompesse le regole del gioco, cercavano qualcosa che li rappresentasse. Cosa che anche i 20-40enni di oggi, se appassionati seriamente di musica, cercano. Un pubblico che a lungo del jazz si è dimenticato, a parte qualche eccezione, e che invece sull’onda lunga brainfeederiana prima (leggi: Kamasi Wahsington) e gillespetersoniana poi (il buon Gilles ha sempre guardato con molta attenzione alla scena jazz anglosassone più “avant”, non venendo inculato quasi da nessuno per anni e mo’ improvvisamente tutti lo considerano un maestro, un oracolo: pittoresco) ora torna tipo mosca al miele.
E’ un fenomeno negativo? Zero: è positivissimo. Il jazz, l’abbiamo scritto in passato e lo scriveremo fino a quando campiamo, non deve diventare prigioniero di un pubblico vecchio, passatista, reazionario, tradizionalista, cosa che in Italia è invece stato troppo spesso e troppo a lungo (e lo è, in molti casi, tutt’ora). Sarebbe ed è un controsenso, per una musica che nel suo DNA nasce per essere viva, contaminatoria, libera, votata alla ricerca (cosa che si intuisce parlando con chi il jazz lo fa e lo vive davvero: i musicisti ad alto livello ad esempio, quasi tutti con un’apertura mentale e di ascolti che gli esponenti di altri generi se la sognano). Ma il jazz, attenzione, non deve diventare nemmeno un accessorio di abbigliamento da sfoggiare per far vedere quanto si è à la page e ganzi: e nell’improvvisa passione per cose che per anni non si sono filate, beh, qualche dubbio affiora sempre. Ma è un argomento ormai vecchio. Che gira appunto dall’esplosione di Kamasi, il catalizzatore di questa nuova fase, l’idolo di chi il jazz l’ha scoperto solo nell’ultimo quinquennio (bene che l’abbia scoperto, male che neghi sia una scoperta così recente: non ci sarebbe nulla di male, nulla di cui vergognarsi). Un argomento che è anche di un’importanza relativa, in fondo: che la passione per il jazz sia autentica o modaiola, l’importante è che ci sia. Tanto, se è modaiola, al prossimo refolo di moda si estinguerà. E sarà vietato restarci male. O almeno: troppo male.
(Tempo al tempo… e jazz d’infinita qualità e lirismo; continua sotto)
Purtuttavia: a tutti coloro che ora parlano della scena jazz UK dell’orbita Worldwide come fosse un Sarti-Burgnich-Facchetti, e che impazziscono per Shabaka e soci e tutti i loro giri, a partire da quelli “cometari”, ci permettiamo di ricordare una cosa: il jazz è bello tutto. Tu-tto. Scopritelo. Non fermatevi agli ultimi nomi emersi, quelli che piacciono alla gente che piace. E’ bellissimo che andiate a Jazz:Re:Found, un festival che è un patrimonio dell’umanità (e che appunto ha contribuito tantissimo a ri-dare al gillespetersonismo il credito ENORME che merita), ma continuiamo a vedervi in troppo pochi al Torino Jazz Festival. Com’è ‘sta storia?
(Torino Jazz Festival: grandi venue ma anche club cittadini, per un festival che “conquista” davvero la città; continua sotto)
Continua insomma ad esserci un po’ di spaccatura fra queste due realtà, che invece dovrebbero essere perfettamente complementari – per non dire sovrapponibili – a livello di pubblico. E continua per un hipster odierno essere molto più urgente non mancare la data italiana di The Comet Is Coming, considerando invece ormai irrilevante ciò che fa quel vecchio di Rava; così come per il classico spettatore-da-jazz, la calata di tutti ‘sti tizi inglesi che “piacciono ai giovani” è visto come un fastidio, o come qualcosa di cui non tenere assolutamente conto, per rifugiarsi invece nei soliti nomi che vengono consigliati e serviti in tutte le salse dai cd di Repubblica o in quelli di Musica Jazz.
Il punto è che se poi Rava lo si va a sentire, come è successo nell’edizione 2019 del Torino Jazz Festival, lui semplicemente ti spettina, mettendo in campo una interpretazione di jazz – portata avanti col suo attuale New Quartet – che è clamorosamente moderna (ecco: molto più moderna ed innovativa di quello che vi pubblicizzano per moderno ed innovativo oggi… chiaro?). Ma è clamorosamente moderno – nel suo intersecare jazz, Radiohead e rock cosmico – anche ciò che Eivind Aarset ha ripreso a fare dopo un paio d’anni più “tranquilli”, sempre in versione quartetto: suo il premio per il miglior set visto quest’anno al TJF, per quanto ci riguarda, ed ennesima conferma di come la scena jazz norvegese sia una eccellenza assoluta (al pari di quella UK, per “apertura” di visione, ma probabilmente superiore per stile, rigore e consistenza).
Questi due concerti sono riusciti a far stare un gradino sotto Rymden, che non è nient’altro che una versione forzatamente 2.0, dopo l’assurda e dolorosa scomparsa di Esbjorn Svensson, di quell’E.S.T. che tanto ha fatto per rinnovare l’esperienza del classico trio acustico jazz, quello piano, basso, batteria, portandolo a confrontarsi con la contemporaneità. Ora alle tastiere c’è Bugge Wesseltoft, tornato al jazz al 100% dopo le esperienze con Schwarz e Garnier ma comunque finito in un organico che ha fatto della contaminazione stilistica in filigrana sempre la sua forza, quindi ecco, tutto si incastra bene. Il set è stato ottimo: muscolare, suonato benissimo, comunque di classe. E’ mancato forse l’effetto sorpresa; o molto semplicemente, troppo in alto e troppo pieno di visionarietà è stato ciò che hanno offerto Rava ed Aarset. Impossibile pareggiare il conto. Altri highlight nei giorni in cui siamo riusciti ad esserci, nell’edizione di quest’anno: Giovanni Guidi, che ha guidato con sicurezza il suo quintetto in luoghi più lirici, quelli legati al recente lavoro su ECM “Avec Le Temps” e l’ottimo BBB Trio guidato da Flavio Boltro ed impreziosito, per l’occasione, dal “grande vecchio” (ma sempre arzillissimo ed incisivo) Michel Portal. I talenti nel jazz italiano non mancano, basta andarseli a cercare (…fate conoscere Francesco Bearzatti a Peterson! Se non lo conosce già!).
Più in generale, pur con qualche mezzo passo falso che comunque era da mettere in conto (ad esempio l’inutile e scolastica presenza di Kyle Eastwood, un onesto mestierante col pregio di avere un padre abbastanza leggendario), il festival anche in quest’anno ha colpito nel segno, ripercorrendo tutte le traiettorie positive che avevano reso molto, molto importante l’edizione 2018. Di nuovo concerti quasi tutti sold out (anche e soprattutto quelli nelle immense OGR), di nuovo coinvolgimento reale della città (coi concerti in giro, con le attività collaterali, col coinvolgimento reale e ad alto livello – leggi progetti speciali sul palco centrale – dei jazzisti cittadini), di nuovo buone scelte a livello artistico. Anzi, c’è un po’ di curiosità per il 2020: il filone scandinavo in questo biennio a occhio è stato esplorato quasi del tutto, forse l’anno prossimo sarà il caso di ributtare con più attenzione lo sguardo sull’America. Magari anche quello sull’Inghilterra? O parlando di America, della scena Brainfeeder?
Mmmh. In realtà ci piace l’idea che l’identità del Torino Jazz Festival e di Jazz:Re:Found (non più torinese, magari, ma di sicuro altro esempio di festival coraggioso, sincero, non opportunista, riuscito) restino separate: ed è il secondo che ha una sorta di “primogenitura” – nata in tempi non sospetti, ben prima delle mode – sulla scena stile Kamasi e stile Shabaka Hutchings. E’ giusto che il Torino Jazz Festival parli ad un pubblico più standard, in fatto di bacino jazz: quello per cui Tenderlonius non conta una cippa o quasi al cospetto di un Joshua Redman (a proposito: ci hanno detto meraviglia del concerto di quest’ultimo al TJF, purtroppo ce lo siamo perso), così come siamo sicuri che Joshua Redman sia un nome mai sentito per il 90% di quelli che qualche giorno fa hanno affollato le date italiane di The Comet Is Coming.
(Il Conservatorio, una delle venue consolidate del Torino Jazz Festival; continua sotto)
Il fatto che esistano due sfere di pubblico diverse, e che questa diversità vada pure rispettata, compresa e preservata, non significa che questi due pubblici non si debbano incontrare, “annusare”, confrontare, iniziando a frequentarsi rispettivamente gli eventi. Anzi. L’auspicio è proprio questo. D’altro canto, la cosa è possibile eccome. Senza che nessuno debba perdere nulla. Siamo curiosi di vedere cosa ci riserverà l’edizione 2020 del Torino Jazz Festival, (già annunciata e confermata, sempre fra fine aprile e primi di maggio): quest’anno ha dimostrato che il suo radicamento in città e tra gli appassionati non era una fatamorgana dell’anno scorso, un “rigetto positivo” dopo gli inutili gigantismi panem, jazz & circenses degli anni precedenti, ma un qualcosa che c’è e ha tutte le caratteristiche per restare. Di nuovo il dato delle presenza ha parlato chiaro, attestandosi sulle 25.000, un dato non gonfiato dagli steroidi degli “eventi gratuiti in grande piazza, quindi contiamo tutti i passaggi”, trucco a cui ogni tanto Torino tende ad affidarsi: ma se questa gabola, inaugurata anni fa ai tempi di Traffic, è servita a rendere il capoluogo piemontese la città dei festival di qualità che in effetti è, possiamo chiudere un occhio. Che poi, uno dei suoi festival “eccellenti” il capoluogo sabaudo lo ha perso: ma a giugno, nel trasferirsi in Monferrato, Jazz:Re:Found per certi versi ritrova le sue radici originarie. Quindi non è una sconfitta per nessuno, ma solo un arricchimento per tutti. Ci vediamo da quelle parti. Anzi, già che ci siamo: ecco qui sotto la seconda ondata di annunci, dopo la già ottima prima.