Toni Cutrone è Mai Mai Mai, ma è anche molto altro, eppure la ragione sociale che reitera tre volte l’avverbio di tempo, assume un’importanza particolare, potremmo finanche sostenere che riassuma le sue tante intuizioni (non solo) musicali, come un crocevia in cui confluiscono ricordi personali; tradizioni antiche; ritualità e magia. L’occasione della chiacchierata è la recente uscita del suo quarto disco sulla lunga distanza, chiamato “Nel Sud”, un lavoro in cui la tradizione e il folclore dell’Italia meridionale vengono letteralmente inglobate in un flusso sonoro che di volta in volta sposta le sue coordinare verso il noise; la techno, la musica d’ambiente. È tutto questo ma anche nessuna delle singole parti dette, perché certe emanazioni artistiche non si lasciano inquadrare bene, rimangono sfuggenti o, meglio, irregolari. Un consiglio agli interessati: il prossimo 21 giugno “Nel Sud” sarà oggetto di un’installazione audio/video nella cornice del Romaeuropa Festival, nella Chiesa di Santa Rita da Cascia in Campitelli; quale migliore occasione per assistere a un’operazione a metà strada tra ascolto e video-arte? A buon intenditor poche parole.
Quali sono i tuoi primi ricordi in musica?
Mio padre era un grande fan di Franco Battiato e a ogni suo compleanno, che cadeva l’otto di gennaio, gli regalavamo il nuovo disco, che regolarmene usciva. Uno dei primi ricordi che ho è proprio legato a questa ricorrenza, io che avrò avuto sei o sette anni, sul finire degli anni ’80, e lui che ammirava il disco in vinile e lo metteva sul giradischi, per ascoltarlo tutti assieme. La cosa curiosa è che sono cresciuto in una località di mare, a Crotone, e dalla spiaggia arrivava sempre musica, di tutti i generi, però ricordo più di ogni altra cosa proprio questa situazione familiare, in cui papà scartava il disco, si gustava la grande copertina, estraeva la lacca e la posava sul piatto con attenzione… insomma è la magia del grande disco nero in vinile che ho bene impressa nella mente.
Quando hai capito che il solo ascolto non bastava più?
È stato un processo abbastanza naturale. A dodici/tredici anni c’è il tipico passaggio dalle medie al liceo, hai un nuovo gruppo di persone con le quali stringere amicizia, uno che suona la chitarra, l’altro è bassista, manca un batterista ed eccomi qui, considerato che avevo anche il “physique du rôle” (ride ndr). Se ripenso a quegli anni, c’era tanta voglia di emulare i propri miti… era appena morto Kurt Cobain (il 5 aprile del 1994 ndr); l’underground cominciava a diventare mainstream; MTV era sbarcata in Italia e passava i Sonic Youth e i Melvins; Red Ronnie in tv invitava ad esibirsi dal vivo tanti gruppi interessanti, insomma era un ambiente iper-stimolante e quindi decisi di provarci. Inoltre, fare parte di una band era anche un modo per crescere, evadere dalla propria vita quotidiana, visto che si suonava in campagna, in un garage in cui avevamo ammassato tutti gli strumenti che ci servivano. Ci passavamo interi fine settimana, ogni momento libero, provando e riprovando, o semplicemente ascoltando cose nuove, scambiandoci le cassette con le rispettive scoperte musicali.
Eri ancora stabile in Calabria a quel tempo, giusto?
Sì, anche se da lì a poco mi sarei trasferito a Roma, quindi l’inizio di mille altre cose, tutte quelle esperienze che non si potevano fare a Crotone, poi ho anche vissuto a Berlino per due anni… ma la cosa più importante del mio trasferimento è che iniziai a suonare con persone diverse, che non conoscevo, quindi ci sono state tante jam session, scambi di conoscenza, sempre da batterista, anche se spesso e volentieri lo strumento lo effettavo o comunque era associato ai synth e all’utilizzo della mia voce.
Eppure nel progetto Mai Mai Mai la batteria non c’è!
Hai ragione, la mia prima esperienza senza l’ausilio della batteria è stata proprio Mai Mai Mai. Volevo fare una cosa diversa e da solo, l’ho pensata e strutturata proprio come un progetto più snello, che mi desse tanta libertà e che fosse anche una nuova sfida. Ho iniziato registrando su nastro le percussioni e rumori assortiti realizzati da me, assieme ai suoni d’archivio su cui mi imbattevo, con l’idea di avere a disposizione un materiale di base poco nitido, come piace a me, con questa patina che rende la resa finale un po’ incerta, come se fosse stata registrata da un tempo lontano.
Raccontami della “trilogia sul Mediterraneo”, i primi tre dischi a nome Mai Mai Mai: “Theta” (2013) “Delta” (2014) e “Phi” (2016).
I primi due, “Theta” e “Delta”, sono usciti quasi in contemporanea, a meno di un anno di distanza, quindi sono strettamente legati l’uno all’altro, sia dal punto di vista della narrazione, con l’Europa e il Medio Oriente come fascinazione e le mie radici come fonti d’ispirazione primaria, che per quanto riguarda la mia tecnica di assemblaggio di voce, beat e field recordings. Dopo un lasso di tempo più lungo è arrivato “Phi”, che è un disco sicuramente più maturo e strutturato, quello dove, grazie anche a un’intensa attività dal vivo, ho capito davvero cos’è per me Mai Mai Mai. Si tratta di una trilogia perché dopo i primi due volumi dovevo trovare una chiusura del cerchio, quindi l’idea è nata così, per allargare gli orizzonti del racconto. Poi il numero “3” mi ha sempre affascinato, e si porta dietro molti simboli e miti.
Dal vivo indossi sempre una maschera. Lo fai perché vuoi “nasconderti” dietro alla musica oppure, al contrario, è per suggerire all’ascoltatore una visione che fa da controparte al suono?
La gente, effettivamente, si concentra molto sulla maschera. All’inizio volevo che “Mai Mai Mai” fosse qualcosa di un po’ staccato da me come personaggio, volente o nolente, pubblico, perché sono sulla scena da tantissimo tempo e tra la mia etichetta, la NO=FI Recordings, il DalVerme, gli Hiroshima Rocks Around e i Metro Crowd, giusto per citare alcune cose, era utile creare una sorta di separazione. Insomma, non volevo che il mio passato musicale fosse subito collegato al nuovo progetto Mai Mai Mai. Non veniva detto esplicitamente chi io fossi, seppure non fosse un segreto come può esserlo quello di Liberato, per dire. Inoltre, a livello scenografico, il live è sempre stato pensato un po’ come un rituale, per questo ho la maschera sul palco e c’è sempre una candela accesa accanto a me. Il sacerdote deve essere diverso dall’umano, deve essere un qualcosa di più, magari può avere dei connotati animali o divini chi può dirlo, la maschera ti trasforma in qualcosa che non è riconoscibile. In questo modo si diventa un medium più affidabile, il pubblico si fida di più, si lascia andare a un’entità che traghetta nella musica, che fa andare oltre le cose conosciute.
Perché questo nome, Mai Mai Mai?
Per svariati motivi. Uno dei principali è che per le mie canzoni, perché badate bene per me sono canzoni, volevo un nome italiano con il quale poter raccontare le radici della nostra terra. Ma volevo anche che questo nome fosse facilmente comprensibile/pronunciabile dal pubblico straniero, perché più della metà della mia attività si svolge oltreconfine. Quindi: Mai Mai Mai.
Tra l’altro, la ripetizione è una componente fondamentale della tua musica, quindi immagino abbia influito anche nella scelta del nome.
Esatto! Mi piace la ripetizione, quel senso di trance che puoi riscontrare nella Taranta, anche se attualmente la mia musica ha più affinità con la techno (ride ndr). La ripetitività porta all’ipnosi, quindi di nuovo al rituale, ed è annunciata a partire dal nome, che nella mia testa è come una cantilena, una formula magica che ha un potere superiore alla parola.
Prima hai detto “badate bene, per me sono canzoni”. Ecco, mi piacerebbe sapere come le costruisci le tue canzoni, da quale elemento parti, se c’è qualcosa che ti aiuta nel processo di lavoro.
La prima cosa che faccio è scegliere i suoni, quelli d’archivio e i field recordings, che creano un po’ il mood generale del pezzo. Poi arriva la ritmica, e qui inizia un lavoro minuzioso, che faccio con la mentalità del batterista, curando ogni singolo incrocio, che non deve essere banale ma nemmeno cervellotico, cerco di ottenere quella che mi piace chiamare “sudatissima semplicità”. Quindi metto insieme queste due componenti, e da lì cerco di tirare su una trama di synth e di suoni elettronici che mantengano di volta in volta il pathos, il romanticismo, la forza, la potenza o la tranquillità del pezzo. Nei dischi vecchi c’era anche la mia voce, una sorta di “cantato/parlato”, invece nell’ultimo disco, “Nel Sud”, i suoni che si sentono sono tutti tratti da una serie di documentari etnografici.
Arriviamo quindi al tuo oggi musicale. È uscito da pochi giorni “Nel Sud”. Un disco in cui la tradizione e il folclore dell’Italia meridionale assumono un’importanza rilevante.
Sì, è così, il disco o, meglio, una sua prima versione, proviene da un lavoro che realizzai nel 2016 per il Pesaro Film Festival. La mia musica si è mescolata con i suoni d’archivio di regioni come la Puglia, Calabria, Basilicata e Sicilia, accompagnando una controparte video-artistica a cura di Simne Donadni. Il suo lavoro sull’immagine è stato straordinario, avendo sintetizzato/rielaborato le immagini di registi che hanno fatto la storia del documentario etnografico italiano, come Luigi Di Gianni, Gianfranco Mingozzi, Vittorio De Seta e Cecilia Mangini. Quindi il mio “Nel Sud”, prende spunto da quell’esperienza, così carica di rito, di segni, di tradizione…
Devo dire che ne viene fuori un ascolto davvero intenso, tra l’altro non si sente la mancanza della controparte visiva.
Ah, questo mi fa molto piacere!
Sì, diciamo che l’ascoltatore è portato a tornare indietro a delle esperienze evanescenti del proprio passato, non saprei come spiegarti, diciamo che si sente il peso di una tradizione che ci accomuna un po’ tutti… penso ad esempio ai lamenti contenuti nel pezzo che chiude l’album.
Questo è un bel concetto, sì, funziona così proprio perché le fonti sonore appartengono alle nostre radici. Hai citato il pezzo chiamato “Il Pianto”, che contiene riferimenti musicali al documentario “Stendalì – Suonano ancora” di Cecilia Mangini che è sulle prefiche, ovvero queste donne che piangevano in modo rituale quando moriva qualcuno per guidarne l’anima nell’aldilà, e anche per far sì che ci fosse della vera disperazione al funerale, aiutavano i familiari e chi fosse vicino con il loro pianto. Alcune tradizioni, sono un misto di ritualità pagana e cattolicesimo, provengono da tempi immemori e sono ancora ben presenti in molte comunità italiane.
Abbiamo modo di recuperare la controparte visiva originale? Magari prevedi un compendio visivo al disco già uscito.
No, quel che è stato è stato, però dal vivo proietto delle sintesi visuali che di fatto replicano l’esperienza originale. Vedo molto coinvolgimento nelle persone che accorrono ai concerti, c’è un’aria strana e interessante, che rende l’esperienza magnetica.
Quando lo presenterai qui da noi a Roma?
Il prossimo 21 giugno ci sarà una particolare installazione audio/video per il Romaeuropa Festival, nella Chiesa di Santa Rita da Cascia in Campitelli, che si trova nei pressi del Teatro di Marcello. Non sarà un live, però ci saranno i video e i suoni dei documentari, oltre che tutta una nuova parte di synth che ho pensato per l’occasione. Non poteva essere una cosa dal vivo, perché andrà avanti in loop per sei/sette ore, però rende bene l’idea del disco e, anzi, ne allarga ancora l’orizzonte. Sarà suggestivo!
Poi vorremmo fare una cosa un po’ strana, sempre a Roma, una festicciola al parco degli Acquedotti, al tramonto, un live senza video, visto c’è già l’archeologia del luogo a fare da sfondo. Era programmata per fine maggio ma poi il tempo inclemente l’ha fatta slittare. Magari la faremo a metà di giugno, vedremo.
Parlami della tecnica del field recording, sempre molto presente nella tua musica. C’è un motivo per cui hai scelto di lavorare così o senti questa necessità? Prendi del suono che esiste e lo porti in una nuova dimensione, probabilmente quella più congeniale a te, un po’ come il campionamento.
Nei miei vecchi dischi ci sono queste registrazioni che ho fatto con delle telecamere sulla prua di una nave, o su delle barche, o ancora registrazioni semplicemente del rumore della pioggia, del mare, della spiaggia, è come se fossero delle vecchie foto, in cui dei dettagli sono noti e altri no, sono imprevedibili e continuano a stupire ogni volta. Mi piace lavorare così, con un certo grado di casualità, mi affascina, è come suonare con qualcun altro, o qualcos’altro, quasi una collaborazione con il mondo esterno.
Con le registrazioni d’archivio invece è diverso, ma comunque bellissimo. Alcuni suoni non puoi generarli ma sono comunque disponibili, penso al battito delle mani sui tamburelli, ai soffi della fisarmonica utilizzati per salvare un tarantolato… non è una cosa che si può rifare adesso, c’è una forza e una potenza in questa musica, che va oltre. Ancora, penso al canto delle donne al cospetto di un ragazzo morto… utilizzo queste fonti perché le trovo uniche. Ho riflettuto sul fatto che potrebbe apparire desacralizzante ciò che faccio, però nel modo in cui viene fuori, nel modo in cui utilizzo i campioni, credo che si comprenda il mio profondo rispetto per queste che sono le mie stesse radici, non c’è nessuna appropriazione culturale, è quello con cui sono cresciuto io e finora mi sembra che anche gli spettatori ne comprendano l’importanza.
Quindi le prime reazioni degli spettatori per “Nel Sud” sono buone?
Il pubblico capisce che “Nel Sud” è una sorta di tributo al documentario etnografico italiano degli anni ‘50/’60 e c’è l’interesse a fruirne. Potrebbe apparire ostico, invece scopro, attraverso i commenti delle persone, che non lo è, arriva a molti, è quasi “pop”, forse proprio grazie alla narrazione insita nel disco.
Una cosa che si nota sempre è la tua grande attenzione per l’arte in senso lato, non solo musica, c’è sempre un contenuto “altro” che comunichi in maniera più o meno diretta.
Sì, sono così, e forse proprio il fatto di gestire locali, avere a che fare con tanta gente, l’idea di organizzare di continuo cose anche diverse l’una dall’altra, è la mia salvezza. Se sono in tour o da qualche parte e vedo qualcosa che mi piace, allora faccio il possibile per portarla anche a Roma. L’idea è sempre stata questa, quella di creare connessioni, reti, collaborazioni. Con Mai Mai Mai sono da solo, non c’è una band, quindi quest’attitudine viene amplificata, perché mentre il gruppo è già in sé una collaborazione, da solo sei spinto a farti influenzare, a riempire i vuoti, e quindi ben vengano le incursioni a livello musicale, grafico, di video, per i costumi, ed è una cosa che sento come fondamentale perché “ricreo” un po’ la mia band. Il bello di essere da soli è che puoi stare con chiunque, sei un single!
L’altro lato della barricata: hai lavorato spesso dietro le quinte di locali romani. Che aria tira?
A Roma non tira una bella aria, non mi piace dirlo ma è così. Organizzo eventi da sempre, mi piace farlo e continuerò a farlo. Però diciamo che per i contenuti veri, quando porti dei live belli che sono anche molto costosi e impegnativi, c’è veramente poca reazione, nel senso che la gente non capisce che certe cose hanno un costo, è come se volessero tutto un po’ gratis, perché tanto c’è l’alternativa a costo zero. Quindi dalla parte del pubblico trovo questa mancanza, forse dipende dal fatto che c’è un’overdose di proposta. Poi c’è il fattore politico, un certo tipo di cose proprio non puoi farle o sono così complicate che alla fine si molla. La cultura che viene promossa adesso è una abbastanza piatta, non puoi osare. Ma noi ci proviamo sempre eh, ancora e ancora, combattiamo!