Seguiamo Jazz:Re:Found fin dalle primissime edizioni e, insomma, più volte vi abbiamo raccontato di come fosse un festival dallo spirito speciale, qualcosa nato inseguendo una visione e un’utopia in un territorio compreso tra disco/boogie anni ’70 e techno detroitiana, con in mezzo tanta afro, tanto jazz-da-club, molto hip hop anni ’90, le giustissime dosi di house. Visione ed utopia che in Italia è difficile il doppio, perché sono sempre musiche che sono state cullate e sospinte da nicchie: fiere, oneste, pulite quanto si vuole, ma comunque nicchie. Anzi: fieramente nicchie.
Ecco. Il primo merito di Jazz:Re:Found è aver preso queste nicchie ed averle completamente spogliate – prese singolarmente – della loro portata snob e purista (che, inutile negarlo, c’è – e per moltissimi ragioni è un limite, non solo una forza e una nobiltà). Questo è stato un merito enorme. E questo è stato il propellente che ha permesso ad un festival nato e pensato in provincia tra un pugno di amici di diventare un fenomeno di portata nazionale, con una storia importante e dei numeri significativi, non residuali. Nonché il propellente e l’ingrediente che ha reso magico Jazz:Re:Found ad ogni edizione: nelle spianate vercellesi sottratte per un weekend ai giostrai ma non alle zanzare, nei contesti post-industriali della città (effettivamente affascinantissimi, ma zero considerati), nei trasferimenti a Torino andando in venue adatte sì ma mai particolari, inedite, pittoresche. Sì: col trasferimento a Torino, se guardavi solo alle venue JZ:RF era un festival banale, ricicciato, scontato. Ma se ne vivevi l’atmosfera, sono aggettivi che mai ti sarebbe passato per la testa di usare. Stavi bene. Respiravi un’aria speciale. Sentivi un senso di comunità. Apprezzavi il fatto che steccati venissero a cadere, e con naturalezza, senza ostentazione, come fosse una cosa “normale”.
La magia di JZ:RF è sempre stata qui, oltre che nella qualità intrinseca degli artisti scelti e nel fatto che venissero scelti senza appendersi alle mode del momento …ma appunto, si arriva da una storia di nicchia e di resistenza: JZ:RF è sempre stato troppo “cugino di campagna” per essere di moda, col risultato paradossale che poi sì ha fatto girare la ruota con le “sue” sonorità che diventavano all’improvviso popolarissime e sciccosissime, ma Kamasi Washington e Flying Lotus li vedevi altrove, così come ora nel 2019 troverai altrove la Cinematic Orchestra. Paradossale.
Un paradosso che in questa edizione è stato spinto all’estremo, decidendo di scompaginare le carte e di recuperare addirittura “grandi vecchi” come Tullio De Piscopo, Area, Tony Esposito, facendolo prima che ci pensassero altri e facendolo per questi motivi (…e venendo tra l’altro ricompensato da concerti tutti decisamente all’altezza, niente carrello dei bolliti, anzi).
(Tony Esposito in azione, in uno scenario che si commenta da solo; continua sotto)
Ma stavolta la line up va in secondo piano. Ed è un peccato dirlo, pensando a quanto sono stati divertenti (e, ok, paraculi) i Meute; efficaci Kokoroko; compatti I Hate My Village; viaggiosi Gruff e Petrella; solidi i b-boy romani (Colle, Noyz) e non romani (Kaos); pieni di ispirati grazia Chassol e Boosta con Alberto Tafuri. Ma stavolta JZ:RF è stato davvero un festival “di flusso”, ed è vissuto prima di tutto e più di tutto sul deejaying e sul suo scorrere, non sull’evento/concerto atomizzato: menzione d’onore per il trittico Ralf, Leo Mas e Alfredo che ha veramente riportato la meraviglia balearica vera, tutt’e tre in formissima, ma pure Gilles Peterson e Lefto hanno spaccato; però ecco, ciò che resta di questo festival è il fatto che potevi aggirarti per un bellissimo paese del Monferrato e sentire proprio il “fluire” della musica instradato nell’alveo della qualità, di dj set – tutti, nessuno escluso – di qualità superiore uno dietro l’altro, non importa quanto famoso o conosciuto fosse il nome in console.
(Colle Der Fomento sempre solidi come la roccia, anche sul Molinari Stage di JZ:RF; continua sotto)
Si è respirato uno stato di grazia generalizzato. E ad influire pesantemente su questo è stato in primis il luogo, e così torniamo al discorso iniziale: dopo aver per un decennio vagheggiato una “patria immaginaria” (impiantandola di volta in volta a Vercelli o a Torino), Cella Monte – 490 anime circa abbarbicate nel Monferrato – ha dato l’impressione di aver finalmente donato a Jazz:Re:Found la sua patria perfetta, giusta, a cui legarsi per sempre. Lo spirito del festival ha trovato una traduzione incredibile nei luoghi, nei tempi, nei panorami, nei modi. E questa cosa si è respirata. Tantissimo. Incessantemente.
(Scene di vita diurna da festival – almeno a JZ:RF quest’anno; continua sotto)
Durerà? Resisterà? Lo speriamo. La risposta del pubblico è stata come numeri sorprendentemente alta in alcuni giorni (il giovedì e il sabato), un po’ deludente il venerdì – complice il maltempo – e pure la domenica, da cui ci si aspettava sinceramente di più visti i nomi. Abbastanza per stare in equilibrio? Questo è difficile dirlo, lo sanno solo gli organizzatori, ma quello che è sicuro è che è stato offerto a tutti i presenti un’esperienza profondissima, idillica, semplice ma molto intensa al tempo stesso. Sono cose di cui non si può avere mai certezza, men che meno in Italia dove certi segnali spesso sono gambizzati invece che accompagnati ed incoraggiati, ma l’impressione con questa prima edizione della “nuova fase” di Jazz:Re:Found è di aver assistito ad un festival di culto che può diventare una vera gemma in tutta Europa, per uno specifico pubblico di riferimento – quello che comprende, approva ed appoggia il DNA etico-musicale che lo ha generato e che ne conforma sempre le mosse. Se finora JZ:RF era un “miracolo italiano” (di quelli veri, non quelli delle televendite di Arcore…) ora ha fatto intravedere di poter diventare di più, di poter essere un “Worldwide nel Monferrato”: e se ci è riuscita Sete, dove il mare non è manco granché, ci sarebbe una giustizia divina se ci riuscisse altrettanto – e meglio – Cella Monte e chi l’ha scelta, ovvero chi ha corso un rischio non da poco per organizzare un festival e raggiungere finalmente in tutto e per tutto la propria visione originaria. Parliamo non solo di chi il festival lo fa, ma anche di chi ci lavora, e di chi ci viene da spettatore: mai come quest’anno queste tre componenti hanno vissuto, respirato, faticato, gioito, goduto assieme.
(Ralf, Leo Mas ed Alfredo hanno suonato qui – e sabato notte l’hanno reso un angolo di Ibiza “segreta” ed euforica primi anni ’90; continua sotto)
Ce lo ricorderemo a lungo, questo Jazz:Re:Found 2019. Uno dei più begli eventi musicali svoltisi in Italia nell’ultimo decennio. E’ stato magico, fidatevi. Ma speriamo ardentemente che queste sensazioni siano spazzate via da un’edizione 2020 simile ma ancora più bella, più magica, più acclamata: se lo meriterebbe, JZ:RF. Eccome.
Ps. Se poi qualcuno non capisce, e prende fischi per fiaschi e tira fuori post polemici su Instagram fuori fuoco che poi però magicamente scompaiono, non c’è motivo di arrabbiarsi, ma solo da sorridere: non ti vien voglia di fare altro, se il festival l’hai “respirato” veramente. A buon intenditor.