Magari avete intercettato la cosa anche voi, visto che ieri nel magico mondo di Facebook se n’è parlato parecchio fra gli appassionati di musica: la bomba è deflagrata con questo articolo di Simone Stefanini su Rockit. In sintesi: un concerto di Vinicio Capossela in Piazza dei Cavalieri a Pisa (una delle piazze iconiche della città, quella dove c’è la Normale per intenderci) è stato interrotto dall’irruzione di un centinaio di persone che hanno iniziato a protestare contro il caro-prezzi ma, ancora di più, contro l’appropriazione delle piazze per concerti privati a pagamento (e, aggiungono loro, a pagamento con prezzi senza senso). La piazza deve essere pubblica ed aperta a tutti, è la loro posizione. Ed ecco qua il post con cui il collettivo ha rivendicato (e spiegato) l’azione.
Le loro argomentazioni sono state fatte a pezzi dall’articolo di Rockit. In modo molto duro, ma anche purtroppo molto superficiale e parziale a dirla tutta, almeno per come la si vede qua. L’azione del collettivo pisano è stata bocciata sotto ogni punto di vista e si è impartita una lezione su come la cultura non debba essere gratis, con un elogio del – citiamo letteralmente – “mercato dell’intrattenimento musicale” che “genera indotto in tutta la città, offre posti di lavoro e contribuisce al benessere della comunità”. Argomentazione sbagliata? Certo che no. Quante volte noi stessi abbiamo parlato delle ricadute positive di festival, concerti e party sul tessuto urbano complessivo. Ma limitarsi a questa prospettiva implica il non voler capire quali sono i reali problemi in gioco che sono stati sollevati.
Problemi che in realtà sono anche nominati, nell’articolo, ma vengono liquidati sbrigativamente. Viene derisa la posizione del “La cultura non è merce”, ad esempio, ma nel farlo si fa uno shift per nulla corretto, ed è qui che cova il problema: si attribuisce ai sostenitori della suddetta posizione la posizione che il lavoro culturale non debba essere pagato, la visione che la cultura non abbia un valore economico. Falso. Vederla così, percorrere serafici questo processo deduttivo è involontariamente molto disonesto, e fa capire come molto facilmente si perdano le proporzioni. Mettiamola così: la cultura è merce, sì; ma è una merce molto, molto particolare. Equipararla a qualsiasi altro oggetto da vendere / comprare / immettere sul mercato è un modo di ragionare che non può che avere conseguenze nefaste, portando sul lungo periodo a una vittoria solo di ciò che è cinicamente commerciale, di ciò che segue solo i gusti della maggioranza, di ciò che è intimamente paraculo perché ciò che conta è massimizzare il profitto (…perché con la merce e il commercio ci si comporta così). Sicuri di volere questo?
La cultura è merce, sì; ma è una merce molto, molto particolare
Nel momento in cui si dice e scrive “La cultura non è merce”, la frase corretta dovrebbe essere “La cultura non è una merce qualsiasi”: perché se è vero che è lecito e corretto che l’industria dell’intrattenimento e della cultura dia vita ad economie, imprese ed interscambi finanziari (ehi, non siamo più nel Rinascimento, con l’artista di corte stipendiato dal Medici o dal Papa di turno) cosa tra l’altro che la mantiene anche più sana perché in questo modo non è ostaggio dei contributi pubblici e quindi dei giochi della politica, è altrettanto vero che se la cultura fosse solo merce non sarebbe, semplicemente, cultura. Ma sarebbe, appunto, semplice merce. La cultura è anche fascinazione, è portare le persone a riflettere, a interrogarsi, a spaventarsi, a mettersi in dubbio, a scoprire, a perdersi: tutte cose difficili, ma fondamentali. Tutte cose non remunerative e non redditizie, ma semplicemente ineludibili per avere una società sana e capace di rigenerarsi e progredire, invece di chiudersi cupa in se stessa e nelle sue certezze egoistiche ed autoriferite.
Insomma, la cultura è una questione complessa. E la fruizione della musica, da sempre una delle colonne di ciò che è “cultura” per l’uomo, lo è altrettanto. Ridurre tutto al “Questi qua vogliono che la musica sia gratis, questi qua vogliono che cantanti, musicisti e personale del tour non siano pagati, così si vedono il concerto a scrocco” o anche solo al “Lasciate lavorare gli imprenditori della musica, invece di far cagnara” è degno dei momenti meno briosi ed arguti della pagina Facebook di Salvini. Il collettivo pisano solleva un problema reale: quello dell’uso degli spazi (e fondi) pubblici, che proprio in quanto pubblici dovrebbero porsi il problema di essere più inclusivi possibile, pochi cazzi, è una battaglia più che ragionevole. Solleva pure un altro problema: quello del crescente caro biglietti, perché ormai siamo arrivati a dire che è “normale”, anzi, che è “poco” (parole dell’organizzatore stesso del concerto) pagare tra i 32 e i 46 euro per Capossela. Cioè, sul serio?
Sì, in realtà: sul serio. Il punto è: ora che i veri soldi non si “estraggono” più dalla vendita dei dischi ma invece dall’attività live (in concerto o dj set che sia) e, ultimamente, pure dal buon lavoro dei management nel vendersi a questo o quel brand, la “industria dell’intrattenimento musicale” ha iniziato a mostrare una avidità senza freni o, vedendola in maniera più innocentista ed asciutta, una pericolosa tendenza all’ipertrofia. Ogni momento che passa, la entità-concerto diventa qualcosa di sempre più grosso, complesso, costoso: fa così non solo perché è alla ricerca di sfide artistiche più alte (che sarebbe bello), ma anche perché è tutto il sistema della musica che vuole che essa sia sempre più grossa, complessa e costosa, di modo da generare più economie, più soldi, più posti di lavoro, più parcelle, più consulenze. E’ un problema, tutto ciò? Può diventarlo. Perché il rischio è quello di perdere di vista la musica, la sua funzione: il suo potere sull’anima e sulla società. Con la scusa di lavorare proprio su questi ultimi elementi, per fornire cioè spettacoli sempre più grandiosi e più belli, in realtà si innesca una corsa alla crescita continua che sconfina nel gigantismo fine a se stesso, sia a livelli micro (nei contesti indipendenti) che a livelli macro (nel grande mondo del pop); allo stesso modo, altra faccia del problema, per giustificare l’aumento dei volumi finanziari in ogni singolo aspetto (cachet artistici, produzione…) si lavora tantissimo sull’”aura” dell’artista – e questa è una cosa che tocca in particolar modo noialtri dell’elettronica, col dj/producer che nel giro di due, massimo tre decenni è passato da “…sfigato che non sapendo suonare uno strumento mette i dischi” a “sciamano supremo”, che con la sola forza del suo nome, della sua zazzera (o pelata) e della sua fama attira amore, folle ed attenzioni. Già: con la sola forza del suo nome e della sua fama, non (più) con la sua abilità. Solo così si spiega perché ci sono dj/producer che costano 50.000 e chi 500: e la scala di abilità non può essere così grossa da essere 100 a 1 (anzi: può capitare che chi prende 500 sia più bravo e si sbatta di più di chi prende 50.000…). La differenza di cachet oggi sta soprattutto in quanto si è stati bravi a creare “plusvalore” intorno a sé, non in quanto si è più bravi ed inventivi a suonare.
Su chi ricade tutto questo giochino? Su di noi. Su noi consumatori. Su noi appassionati di musica. Su noi magari modaioli: perché oggi è di moda andare ad un festival o ad un concerto, e allora i 20, 50, 100 euro li spendi senza batter ciglio, così come senza batter ciglio ti aspetti di poter ascoltare un disco (ovvero: la creazione artistica originaria) senza sborsare una lira. La grande industria ha capito che ormai dal supporto fisico può trarre ben poco, nell’industria musicale, e ha fatto sì che “desiderassimo” (e fossimo quindi spinti senza tentennamenti) ad investire in ciò che è il momento dell’esibizione dal vivo. Un tempo (nemmeno troppo fa) ci sembrava un conto salatissimo spendere 25 per un concerto; oggi ci pare un prezzo più o meno entry level. Eppure l’inflazione è al 2% circa da quando siamo entrati in Europa. Non al 20/30%, come sembrerebbe a veder lievitare il prezzo dei biglietti stagione dopo stagione.
Su chi ricade il giochino? Su di noi. Su noi consumatori. Su noi pubblico
Iniziano ad esserci i primi scricchiolii, però. Sia nella musica suonata su un palco che nella musica da club, sono sempre di più i promoter a dire che i prezzi oggi sono diventati insostenibili o quasi: dal pubblico, che sia bar o sbigliettamento, non si incassa abbastanza per reggere questo continuo aumento dei cachet. Si sta tirando la corda tantissimo, con l’idea di guadagnare il più possibile, di spremere il più possibile il settore dell’intrattenimento musicale. Vogliamo veramente fare questo alla musica? Vogliamo veramente permetterle di essere merce, che pensa prima di tutto a massimizzare i profitti costi quel che costi?
No. Non lo vogliamo. Non lo vogliono i musicisti stessi, che essendo artisti hanno (spesso) una sensibilità artistica: e infatti le parole più di buon senso, sui fatti di Pisa, sono arrivate da uno dei musicisti della band di Capossela e da Capossela stesso, che in qualche modo hanno fatto capire che comprendono parte delle ragioni della protesta. Nel senso: è una protesta che solleva un problema serio, su cui ragionare, e non da liquidare con un “…’sti cenciosi che pensano che l’artista debba campare d’aria e che la musica debba essere gratis”. Ben venga, se questo episodio e certe manifestazioni riescono – almeno nelle persone più sensibili – a far venire il dubbio su come la musica debba essere fruita, su come essa sia un fenomeno che deve stare sì nel mercato, perché non siamo più nel Medioevo, ma che deve essere anche in grado di far capire che il mercato non è tutto, nella vita, nelle scelte e nelle emozioni.
Perché questo è il punto. Non possiamo lasciare l’arte, la cultura, la creatività nelle mani del solo mercato, delle leggi della massimizzazione del profitto. Perderemmo così una parte essenziale della ricchezza dell’esperienza umana delle emozioni e della loro profondità – una ricchezza che vive di regole sue, che non sono quelle del massimizzare il rapporto costi/guadagni e dei numeri (perché così fosse, il “Pulcino Pio” sarebbe meglio di Alva Noto: ecco, anche no).
Non possiamo lasciare l’arte, la cultura, la creatività nelle mani del solo mercato
Ok. Ci avete seguito fin qui? Bene. Ora però c’è anche da spezzare una lancia in favore dell’articolo di Rockit, del suo fastidio verso la grossolanità di certi modus operandi. Perché il collettivo pisano può anche essere animato da intenzioni corrette e con cui solidarizzare, ma ha dimostrato di portarle avanti veramente con poca, poca lungimiranza. Non lo diciamo noi: basta dare un’occhiata al grosso dei commenti sotto il loro post (quello riportato ad inizio articolo). Il punto è che non siamo più negli anni ’70 e questo eterno flirtare della sinistra antagonista con quel periodo storico, ripetendone i riti e le parole d’ordine, è una cosa molto semplice: un misto di ottusità e di superficialità, oltre che di incapacità di leggere i mutamenti avvenuti nella società così com’è oggi. Fa anche un po’ specie, poi, vedere persone che hanno una conclamata (o autoproclamata) abilità di leggere ciò che è contemporaneo cercare di svicolare, rifugiandosi nelle battute sarcastiche su quanto faccia schifo al cazzo Capossela, su quanto la sua musica (e la sua figura) siano talmente ributtanti e di scarso valore – per questo ascoltatore&pensatore sofisticato – da non capire perché bisogna pagare 50, 40, 30, 20 euro per sentirlo (ah ah ah: risata sarcastica); tutto questo solo per il riflesso pavloviano di “solidarietà ai compagni che stanno a sinistra, la Vera Sinistra” (non quindi quella del PD, del Concertone del Primo Maggio, eccetera eccetera). Da un sacco di gente molto intelligente non abbiamo visto una elaborazione reale di quello che è accaduto, ma solo battutine, motteggi: un bel modo per cavarsi d’impiccio, e non ammettere che anche quelli “dalla propria parte” sanno essere ottusi e mistificatori come i peggio capitalisti senza cuore (o senza cervello). E soprattutto, è la gente stessa a cui vorrebbero parlare e che vorrebbero convincere che lì, sul posto, li schifa. Gran risultato.
Interessante e stimolante nelle intenzioni, l’azione del collettivo pisano – anche e soprattutto per quel persistente sapore di rimando alle lotte anni ’70 – si è dimostrata fallimentare nei modi, incontrando molta meno solidarietà di quella che avrebbe meritato per i problemi che metteva in campo. Si fa un favore migliore a dirglielo, invece di invocare comunque solidarietà a prescindere (insultando e additando come “nemico” chi non la dà) come abbiamo visto fare e/o di fare battutine che sviano il punto della questione, così magari ci si leva dall’imbarazzo e si fa comunque la figura delle persone brillanti.
Perché se in tutta questa storia affermi che il problema vero sia quanto faccia schifo, quanto sia sorpassata e quanto sia banale e stantia la musica di Capossela, le possibilità sono due: o sei scemo, o pigli per il culo sapendo di farlo.