Non capita tutti i giorni l’opportunità di incontrare chi di un festival rappresenta l’anima musicale. O meglio: se capita, ciò avviene una volta l’anno, a ridosso del giorno uno della rassegna, quando i preparativi si fanno febbrili e l’ansia comincia a montare decisa fino ad esplodere quando il primo colpo di cassa dà inizio alle danze. Per questa ragione avere l’opportunità di incontrare Sergio Marchionni, direttore artistico di FAT FAT FAT, rappresenta un’occasione tanto preziosa quanto interessante.
Perché il festival nato dal una costola di Harmonized – non ci stancheremo mai di ripeterlo – rappresenta una delle eccellenze della nostra scena underground. Perché la tre-giorni marchigiana ci fa divertire come dei pazzi da quattro anni, in un crescendo degno di quelle storie che, tra Barcellona, Londra e Amsterdam, ci hanno già fatto innamorare.
Il secondo anno, indipendentemente da com’è andata l’edizione d’esordio, è sempre il più difficile: replicare o riscattarsi sono entrambe sfide piuttosto impegnative. Qui invece siamo giunti al quarto appuntamento di FAT FAT FAT Festival, che edizione sarà secondo te?
Sarà un’edizione altrettanto difficile; alla fine, tutte le edizioni lo sono. Lungaggini, imprevisti, problemi dell’ultimo minuto: può succedere sempre di tutto. Non credo esisterà mai nella storia un’edizione “facile”, anche perché ogni anno vuoi confermare quanto di buono fatto l’anno prima e provi a porre l’obiettivo sempre un po’ più in alto facendo variazioni, sperimentando idee, aggiungendo nuove proposte. Novità – piuttosto necessarie se vuoi mantenere l’attenzione sul festival alta anno dopo anno – che hanno bisogno di essere seguite e testate. Nel 2017 abbiamo aggiunto il venerdì a Morrovalle e il Giardino della Sgugola, l’anno scorso abbiamo messo alcuni degli headliner nelle slot di apertura dei palchi (e in molti ci dicevano che la gente non sarebbe mai venuta così presto al pomeriggio), quest’anno ci occuperemo direttamente dell’area food e abbiamo stretto collaborazioni davvero importanti con l’Università di Camerino e il Politecnico di Torino per dei progetti pluriennali rispettivamente sulla tradizione culinaria marchigiana e sull’ecosostenibilità. Sarà un’edizione (in realtà lo è già da un po’) stressante ma super stimolante.
Una delle cose che mi ha colpito maggiormente della tua rassegna, avendo avuto il piacere di viverla in primissima persona, è l’atmosfera che si respira nel verde della Grancia di Sarrocciano: quant’è stato difficile raggiungere un risultato simile, tenendo soprattutto conto che si è ben lontani da un grande centro del clubbing nazionale?
Beh, ad onor del vero, bisogna tenere conto che anche questo è stato uno dei centri del clubbing italiano, almeno per tre anni. A Porto Sant’Elpidio sono passati deejay e artisti importantissimi, e si è sempre lavorato per mantenere un approccio più fedele possibile a quello che può essere inteso come “vero clubbing”. Il festival non nasce a caso: quello che prima facevamo con Harmonized nella nostra zona, ora proviamo a trasmetterlo con FAT FAT FAT a livello nazionale e internazionale. Negli ultimi due/tre mesi della penultima stagione invernale del club (2015/2016), sui braccialetti d’ingresso inserimmo la frase ‘“think global, act local’”; nell’estate dello stesso anno è nato il festival e per un anno hanno convissuto benissimo. Questo per dirti che, nelle difficoltà che abbiamo incontrato mettendo in piedi tutto ciò, siamo stati bravi e fortunati: bravi a scegliere e proteggere una continuità nella proposta, sia musicale che ideologica; fortunati ad avere l’opportunità di farlo nel nostro territorio. I principi del clubbing sono semplici e senza confini: rispetto, consapevolezza e presa a bene totale. E per quanto le esperienze del club e del festival possano essere per definizione diverse, la gente di FAT FAT FAT si è data queste semplici regole sin dal primo anno – quando magari neanche noi sapevamo ancora bene cosa aspettarci. Le persone si divertono e rilassano in un contesto di assoluta familiarità “autoindotta”, se così possiamo dire. E noi ne siamo davvero felici.
Ciò che rende FAT FAT FAT tanto speciale è la presenza di headliner “discreti”, nomi sì molto importanti, ma mai veramente mainstream. Come si costruisce una line-up di questo tipo?
Può essere un processo decisamente lungo. All’inizio, quando non ci sono troppe pressioni o aspettative, è importantissimo trovare una certa verticalità nella proposta e non scendere a compromessi. Il primo obiettivo è quello di trovare un posizionamento definito nel mare magnum dell’offerta globale e consolidarlo anno dopo anno. In questa fase, avere le idee chiare ed essere selettivi aiuta a creare identità e credibilità forti, sia con il pubblico che con gli artisti. Poi, se tutto va bene e si cresce, potrebbe essere necessario pensare di allargare l’orizzonte. Bisogna sempre avere chiaro in mente che mettere in piedi e organizzare un festival è un business costoso e rischioso e non un gioco a cui il più underground vince. Questo ti costringe ad un certo punto – come giusto che sia, intendiamoci – a fronteggiare una serie di dinamiche di natura economica importanti. Con lo stesso spirito degli inizi, bisogna trovare un bilanciamento diverso dal precedente, che non può più tenere conto solo dei gusti personali o di quello che ti andrebbe di fare. Vanno effettuate scelte per il bene stesso del festival e della sua piena sostenibilità. Per questo non mi sento mai di escludere che che nomi magari più mainstream in futuro possano calcare il palco di FAT FAT FAT. Ma saranno comunque azioni sempre consapevoli e con un scopo ben preciso. È complesso, ma quando penso una lineup, quando faccio determinate scelte, ho dalla mia il supporto incondizionato di tutto il gruppo con cui lavoro. C’è sempre stata completa unione di intenti in questo senso.
…e quindi, quanto c’è della musica di Harmonized dentro il festival?
Tantissimo davvero. Ti potrei anche dire tutto, in realtà. Perché a parte casi eccezionali, la musica proposta, ascoltata e goduta ad Harmonized ha definitivamente plasmato le nostre convinzioni musicali. È iniziato un po’ tutto un venerdì d’aprile di qualche hanno fa, quando Theo Parrish ci sconvolse l’esistenza con un set ai limiti del mistico. È anche grazie all’ispirazione che lui ci ha lasciato che FAT FAT FAT esiste.
Cosa vi ha insegnato fare clubbing prima di dedicarvi a un evento più strutturato e complesso da gestire e organizzare?
I quattro anni di Harmonized ci hanno insegnato a vivere e convivere con le regole del clubbing, tra pubblico, artisti, agenzie e dinamiche locali. È stata una palestra a trecentosessanta gradi, che ci ha fatto crescere tanto con le buone, quanto con le cattive maniere: lavorare fianco a fianco con i player di questo mondo non è semplice, così come non è stato semplice costruirsi una credibilità tale da permetterci di far nascere FAT FAT FAT. Va detto che si tratta comunque di due esperienze diverse, sia dal lato del cliente che dal lato di chi per un anno intero si impegna affinché il tutto prenda forma come desiderato, ma è indubbio che Harmonized abbia contribuito in modo chiave in questo processo.
Forse la misura “famigliare” che caratterizza FAT FAT FAT discende proprio da questo tipo di esperienza: girovagando per il festival – vuoi per la sua natura decentrata, vuoi per la ricerca della sua proposta musicale – ho avuto la sensazione di essere dentro a una comunità, non a un contenitore usa-e-getta da assemblare e cestinare di anno in anno. Tu che lo conosci “da dentro”, è davvero così?
Sì, decisamente. Come ti dicevo prima, nasce un po’ tutto dalla voglia delle persone di vivere quei giorni in totale tranquillità. Vogliono godersi la musica senza troppi schemi o impedimenti, senza dover correre in tutta fretta da un palco all’altro coprendo distanze siderali. Direi che possiamo considerare FAT FAT FAT come un “grande club a cielo aperto”, ecco.
Veniamo alle domande scontate: miglior set delle passate edizioni?
Eh! È una domanda complicatissima, altro che scontata! Mmm… oddio, non lo so davvero. La verità è che non sono mai riuscito a godermeli per intero e in santa pace. Forse forse Nightmares On Wax nel 2017. Ma anche Floating Points lo scorso anno, dai. I set al tramonto hanno dalla loro qualcosa di magico. Poi, va beh, Larry Heard che te lo dico a fare; è stato davvero come me lo avevano descritto: da lacrime. Menzione specialissima per il set di Francis Inferno Orchestra a L’ammazzacaffè 2018: cinque ore che prima o poi nella vita devi assolutamente vivere.
…e il dj che sogni di proporre?
Più che un deejay, mi piacerebbe lavorare sempre di più a collaborazioni originali. Quest’anno portiamo in studio Mark de Clive-Lowe, Shigeto e Malanie Charles nei giorni prima del festival e poi il venerdì debuttano sul palco di Morrovalle. È una nostra produzione originale, un’idea avuta insieme a Mark una sera a cena. È un progetto che mi eccita molto, davvero! Ad un certo punto c’è stata anche la concreta possibilità di coinvolgere nomi assolutamente stellari e allargare la formazione a quattro o cinque elementi ma poi, per una serie di circostanze, siamo tornati all’idea originale del trio. Meglio così, in realtà, perché abbiamo la possibilità di lavorare bene e senza stress in questo primo anno. Sono tre artisti assoluti e, se le cose vanno come penso e spero, il 2020 sarà molto interessante! Comunque sia, la direzione è un po’ questa: far collaborare artisti, creare contenuti nuovi ed esclusivi per provare a differenziare sempre la proposta. Lo stiamo facendo anche con i deejay: prendi per esempio Volcov, che nel 2017 si è esibito con Tama Sumo – e da allora non hanno più suonato in back to back – e quest’anno lo farà con Kyle Hall. Ma te la immagini che figata?! Poi, se ti devo dire un nome così, secco, ti dico Maurice Fulton. Ancora mi commuovo se ripenso al set che fece ad Harmonized. E, per come è andata l’anno scorso, vorrò assolutamente riprovarci con Madlib.
Chi invece vorresti riproporre? Ma la risposta Theo Parrish non vale.
Nightmares On Wax, senza dubbio. È un genio, ha grande sensibilità ed è una persona davvero disponibile. Magari nel 2020 torna, chissà! Inoltre, ci sono degli artisti che fanno ormai parte della comunità FAT, che sono veri amici prima ancora che semplici deejay da mettere sotto contratto: Volcov, Native, Patrick Gibin, Khalab, Ge-Ology, Sadar Bahar, il già citato Mark de Clive-Lowe, Francis inferno Orchestra, i Nu Guinea. Magari non vedrete questi nomi al festival tutti gli anni, ma cerchiamo sempre di fare più cose possibili insieme. Un po’ con tutti gli artisti che ospitiamo è così, ma con loro in particolar modo prima che un lavoro è un piacere.
Tornando più “impegnati”: perché, secondo il tuo punto di vista, le cose più interessanti e valide negli ultimi anni si sono viste in luoghi come Macerata, Foligno e Siracusa, mentre a Roma e Milano mancano rassegne in grado di colpire l’immaginario dei clubber come sta facendo FAT FAT FAT?
Francamente, non credo che le fortune del clubbing in Italia siano necessariamente legate a un territorio piuttosto che a un altro. A mio modo di vedere, al momento Milano e Roma non stanno meglio o peggio di Macerata. Troppo spesso, sbagliando, si cerca di fare un distinguo tra grandi centri urbani e provincia come non fossero parte di un sistema unico o della stessa scena. È vero che negli ultimi anni in provincia si è lavorato bene, meglio che nelle grandi città, tanto da creare i presupposti affinché realtà come FAT FAT FAT potessero emergere. Ma è anche vero che i club di provincia sono quelli che comunque hanno sofferto e soffrono per primi e di più per qualsiasi flessione, crisi o cambiamento a volte neanche troppo sostanziale. Quanti, ahimè, sono stati costretti a chiudere negli ultimi tempi? Inoltre, il grande paradosso attuale è che, in un certo senso, sono proprio rassegne come FAT FAT FAT a mettere ancor di più in difficoltà il sistema stesso… Si, credo ci sia bisogno di essere davvero onesti in questo. Perché manifestazioni come la nostra, che celebrano il club in ogni sua forma, allo stesso tempo ne mettono in discussione alcuni suoi fondamentali per come siamo abituati a conoscerli: militanza e senso di appartenenza, prerogative chiave per essere un vero clubber, di questi tempi stanno terribilmente venendo a mancare a ogni latitudine e non sono per forza richieste a chi frequenta i festival. L’attuale, predominante, domanda infatti è quella dell’esperienza unica e più possibile irripetibile. E questo è ciò che fanno i festival, concentrando idealmente in pochi giorni tutto quello che un club ti può offrire in mesi o addirittura anni di assidua frequentazione. Attenzione, non voglio assolutamente dire che la crisi dei club di mezza Italia sia da imputare ai festival – le cause, sostanziali e trasversali, vanno cercate altrove – ma, di sicuro, alcune manifestazioni al momento reinterpretano ideali che per decenni sono stati “confinati” tra quattro mura e creano un’alternativa solida e, onestamente, più di tendenza. In tutto questo, il classico cliché “fuggo dal frastuono della grande città e scappo in campagna” trova completa realizzazione: in termini di esperienza, la provincia italiana ha moltissimo da offrire!
Qual è, sempre secondo il tuo punto di vista, il limite più grande del “Sistema Festival” italiano? Dando per assodati permessi, orari e appoggio delle istituzioni, ci sono delle responsabilità che dovrebbero assumersi invece i promoter?
Lasciami dire che ci sono molti festival che stanno lavorando bene e i loro risultati sono sotto gli occhi di tutti. Ci sono realtà di cui dovremmo andare fieri e che hanno ben poco da invidiare a ciò che viene proposto altrove. Ovviamente c’è ancora molto da imparare, si può e si deve crescere e migliorare ancora tanto; ma se il termine di paragone principale è il Sónar… Beh, allora partiamo da un punto molto lontano rispetto a ciò che dovremmo attenderci nel futuro del nostro movimento: per le infrastrutture a disposizione e per i rapporti che si possono avere con le più alte istituzioni – solo per citare i due aspetti che, vuoi o non vuoi, vengono sempre tirati in ballo – probabilmente non potremo mai regalarci un festival come quello catalano. Ma è davvero un male questo?
Ultima, ma assolutamente non meno importante, domanda: che ci mangiamo quest’anno oltre ai vincisgrassi?
Ecco, la nota dolente…ci abbiamo pensato molto, te lo garantisco; è stata una decisione dura, ma lo facciamo per il bene un po’ di tutti. Il caldo torrido, le giornate lunghe e faticose alla Grancia, la linea da mantenere per fare bella figura al mare…quest’anno ci siamo messi una mano sulla coscienza e abbiamo raggiunto un importante accordo con un’associazione internazionale chiamata “too FAT for dancing” che promuove uno stile di vita sano ed equilibrato tra i clubber di tutto il mondo. Non sono credibile, vero? Dai, ci ho provato! Tutto, ci mangiamo tutto quel che di marchigiano può passarti per la testa: ciuscolo, galantina, porchetta, ma anche pesce quest’anno e qualche altra sorpresa – tutto rigorosamente 100% marchigiano!