Questa intervista non era prevista, con Giulio Fonseca, aka Go Dugong, ci eravamo detti quasi tutto un anno e mezzo fa in occasione dell’uscita di “Curaro” non siamo soliti rifare un’intervista allo stesso artista a distanza di così poco tempo. Anche dopo l’uscita del suo ultimo, recente EP ci è voluto qualche giorno per assimilarlo del tutto. “TRNT”, che tanto bene ci aveva descritto Giulio in prima persona, è un disco cupo, crudo, rabbioso di notevole cambiamento. Ecco allora l’esigenza di accendere il registratore in una delle frequenti cene che tra casa mia e casa sua facciamo parlando anche di musica e, spesso, di altro. Il racconto è lungo, gli spunti e gli aneddoti molti ed anche piuttosto intensi. Mettetevi comodi.
Nell’ultima intervista, quella di qualche mese fa, ci dicevamo che se “Curaro” non era l’ultimo disco di Go Dugong, sicuramente era in ogni caso l’ultimo disco che avrebbe avuto una gestazione così lunga. In effetti le promesse sono state mantenute, e ci sono due promesse mantenute rispetto a quella intervista: che non sarebbe passato tanto tempo e infatti è passato poco più di un anno, mentre la seconda è riferita al libro “Dio che balla”, per cui mi raccontavi che in caso di nuovo disco di Go Dugong sarebbe stato sicuramente legato a ciò che stavi leggendo. …
È stato così, non solo per quel libro, ma anche da tutta una serie di altre letture e documentari. Sicuramente quello è il libro da cui ho iniziato questo tipo di ricerca, chiaramente la ricerca nel corso del tempo si è poi allargata anche ad altre cose.
Qual è stata la spinta propulsiva che ti ha portato a fare un disco in dodici mesi, quasi un record considerando la tua lentezza.
Molto meno, anche! In realtà avrebbe potuto uscire molto prima, perché di materiale ne avevo già pronto parecchio. Come ben sai, c’è la storia del computer che mi hanno rubato in Spagna per cui ho perso tutto… e quando dico tutto intendo tutto, tutto. Ho dovuto rifare tutto da capo, in maniera anche diversa, aggiungendo altro tempo.
Questa se vuoi è una linea di confine tra il Go Dugong di prima è quello di adesso. Volendo, c’era un rischio altissimo che tu non facessi più nulla…
È servito un po’ ad accelerare certe dinamiche, in realtà. Prima che mi rubassero il computer stavo lavorando su tante cose differenti: le mie solite cose brasiliane versante Balera Favela, avevo poi un progetto sulla rivisitazione della musica capoverdiana per cui avevo l’idea di andare lì e avevo preso dei contatti con alcuni musicisti del posto; in più, stavo portando avanti questa cosa della rielaborazione di tarantella e pizzica. Perso il computer sono stato costretto a prendere in mano una sola cosa, ho fatto una scelta chiara e precisa: ho deciso di allontanarmi da un certo tipo di contaminazioni provenienti da culture altre e da un certo tipo di esotismo. Avevo voglia di effettuare una ricerca sulla musica popolare italiana e su qualcosa che mi appartenesse di più rispetto a tutto ciò che avevo fatto in questi anni.
Che non ha nulla di sovranista….
No dai (ride, NdI), ho girato il mondo…. ci sono arrivato dopo!
Appunto il classico back to the roots…
Esatto! Ho pensato che sono nato e cresciuto a Taranto fino ai dieci anni, e dai dieci ai venti ho trascorso comunque almeno tre quattro mesi l’anno lì perché mio padre viveva lì. Ho deciso di raccontare Taranto come una musica del mio luogo, in una situazione che ho sì vissuto ma che mi ha sempre toccato in maniera superficiale e che non avevo mai approfondito. Il rapporto che avevo con tarantella e pizzica era un po’ come quello che molte persone hanno verso il liscio: hai quella idea che sia musica dei nonni, una cosa non tua, hai presente? Io negli anni 90 ascoltavo i Sangue Misto e a tutto pensavo tranne che alla pizzica; con il passare degli anni ho fatto degli ascolti anche molto diversi rispetto a tutto ciò che avevo ascoltato fino a quel momento. Diciamo che la cosa che mi arrivava di più quando vivevo là era un altro tipo di pizzica: per intenderci, le cose tipo Notte della Taranta che non mi piacevano e continuano a non piacermi.
Musiche che si pensa rappresentino in toto la musicalità pugliese ma in realtà non è così.
No, infatti non è così. Esistono tante piccole e medie realtà che fanno un certo tipo di pizzica ben lontana da quella di stampo sanremese un po’ commerciale. Mi sento di prendere le distanze da quel tipo di musica. Quello che piace a me sono le musiche che puoi trovare nei documentari di Mingozzi legati alla taranta.
Torniamo a quello che già ci siamo detti rispetto ai tuoi contatti con la musica spirituale…
Sì, anche se in questo caso ho provato a prenderne le distanze. Ho cercato di fare un disco usando quel tipo di pizzica come linguaggio, senza però che il disco avesse un approccio antropologico… e penso si senta. Se ci fai caso, non è un lavoro fedelissimo a quella musica, non sono rimasto fedele agli strumenti o alle linee melodiche di quella pizzica.
So per certo che tu, prima di metterti sul computer a scrivere un disco, esegui uno studio oculato e approfondito, lo abbiamo visto nei precedenti lavori, che porta poi alla fase di produzione. Per arrivare a “TRNT” che tipo di viaggio hai fatto? Intendo anche a livello di coscienza, perché è logico che se mi parli di disco ispirato alla tua giovinezza, un certo tipo viaggio anche interiore deve essere passato da lì.
Come ti ho detto, sicuramente l’idea di partenza era quella di rivisitazione in chiave elettronica di un certo tipo di musica. Però mi conosci da tanto tempo: lo sai, se mi fossi fermato a questo sarebbe stato un disco freddo, il solito esercizio stilistico, e io dischi così non ne faccio e non ne ho mai fatti. Fino quando non avessi trovato la spinta emotiva, finché non avessi trovato, come per ogni mio disco, una storia da raccontare, non sarebbe mai uscito nulla.
Qual è la storia di TRNT?
Taranto è una parte di me, è un disco scuro, forse il più cupo che abbia mai fatto. Non ho un bel ricordo degli anni vissuti a Taranto. Se vuoi i motivi, te li posso raccontare.
Accenniamoli pure.
Un po’ per questioni familiari sono stati anni difficili per me, per la mia famiglia; aggiungi anche il mood che mi trasmetteva quella città in quel periodo. Ho vissuto Taranto nel periodo a cavallo tra gli ottanta e i novanta e, dovresti ricordartelo, in quel periodo Taranto aveva un grossissimo problema con l’eroina. Ero terrorizzato da questa cosa dell’eroina, mi ricordo le siringhe sopra il mio terrazzo, o quelle per strada quando scendevo con il cane. Ricordo bene con mio padre un sottopassaggio nei dintorni del ponte girevole, con una distesa di siringhe, e ricordo il mio camminarci sopra con le siringhe che si sgretolavano sotto i miei piedi, mentre negli angoli più appartati la gente si bucava. Aggiungi poi la presenza dell’Ilva, e le bombe della di mafia che hanno attanagliato Taranto per anni, il periodo di Cito sindaco per intenderci.
Questo è il tuo primo disco veramente affacciato sulla realtà. Se ci pensi “A love Explosion” è sui sentimenti, “Novanta” parlava di integrazione e multirazzialità in maniera gioiosa, “Curaro” era un disco di fantasia. Questo è in disco con gli occhi ben piazzati sulla realtà, è davvero un disco urbano. “TRNT” è un disco che vive nelle strade, nei vicoli, nel suo stesso mare…
Questo è verissimo. Aggiungici anche la questione Ilva: metà dei miei famigliari lavoravano lì come è normale per la maggior parte di chi vive lì o nelle immediate vicinanze. L’Ilva è una questione importante per Taranto. Non ho testimonianze di parenti morti per i tumori dell’Ilva, ma lì la gente è morta, muore e purtroppo continuerà a morire per qualcosa legato a questo grande mostro…
Lì c’è questo rapporto strano con un grande mostro che non sai mai se dorme o se è sveglio per far male. Da una parte l’Ilva dà lavoro a tantissima gente a Taranto, dall’altra il prezzo da pagare in termini di morti, malattia e futuro oscuro è grandissimo.
Io non credo che nessun posto di lavoro valga la vita di una persona…
Lo diresti anche se abitassi lì? a volte ho come la sensazione che gli abitanti tarantini potrebbero essere divisi rispetto a questa tua affermazione.
Non lo so, sicuramente qualcuno che non la pensa come me ci potrà essere e ci sono stati, ricordo, anche dei referendum che potrebbero corroborare la tua tesi. Io penso e, soprattutto, spero che tutti non vedano l’ora di chiudere per sempre l’esperienza Ilva e far partire un’opera di bonifica esistenziale per questa città.
Da produttore musicale come ci si approccia a un argomento come quello di Ilva? Che tipo di ragionamento fai davanti ad una traccia del genere, o cosa ti eri imposto tu che prevedesse un pezzo come il tuo?
Sai, ti basta arrivare a Taranto in treno e sentire quell’odore che entra nei vagoni per accorgerti di un qualcosa che non va. L’approccio è quello della creazione di una soundtrack. Non so se definirlo documentaristico, anche perché il mio è un approccio diretto in prima persona. È stato semplicemente un tradurre in musica un certo tipo di emozioni e sentimenti. È una colonna sonora a quello che ho visto.
(ed eccolo, “TRNT”; continua sotto)
Il furto del computer, se ci pensi, è stato davvero un taglio netto uno sliding door di quelli incredibili. Secondo me ne avevi anche bisogno.
Quella è stata una benedizione nella maledizione nel senso che a me Curaro ha portato una sfiga mai vista. Ti ricordi? ce lo siamo detti mille volte, sono andato a toccare qualcosa che era meglio lasciare stare, mi sento come se qualcosa mi abbia detto: “…adesso basta adesso molla tutto”.
Ma per superstizione o altro?
Un po’ per tutto cazzo! Oltre alla sfiga e alla superstizione, c’è anche sicuramente un discorso di maturità artistica. Qualche anno fa poteva aver senso trattare un certo tipo di musica con derivazioni africane o sudamericane, mentre adesso quel senso semplicemente non c’è più.
C’è dietro un tuo discorso etico?
Non riesco a spiegartelo bene, non so se davvero dentro ci sia anche un discorso etico, ma sento che devo lasciare stare questa roba e determinate culture.
Perché non ti ritieni all’altezza, perché credi non sia giusto appropriarti di qualcosa che non è tuo e apriamo allora il discorso dell’appropriazione culturale…?
Io mi sono fatto tutta una mia teoria sull’appropriazione culturale. Non so se è un discorso propriamente di appropriazione culturale, anche perché per me l’obiettivo principale è sempre stato quello di una diffusione di un certo tipo di musica in un discorso, al limite, transculturale. Sicuramente c’è una componente di stimolo, perché mi approcciavo a una musica che non avevo mai sentito e molte altre persone come me non avevano mai ascoltato un certo tipo di musica: bene, ero lì per aiutarla a diffondersi, ad essere conosciuta, nel mio piccolo. Adesso c’è stato un boom di questo tipo di suoni, di questo tipo di elettronica contaminata dalla world music, e non è più una novità. Prima non era così. Ora mi chiedo cosa potrei mai diffondere e quale senso avrebbe farlo. Tutti conosciamo la cumbia, tutti conosciamo l’afrobeat. Tutti conosciamo tutto.
Recentemente è morto Johnny Clegg conosciuto anche come lo zulù bianco, famoso perché in piena apartheid è stato il primo a suonare con una band mista bianchi e neri in Sud Africa. È curioso perché al tempo questo tipo di collaborazione e questo tipo di musica non vennero mai visti come un discorso di appropriazione culturale ma di integrazione, e i riconoscimenti riservati a Johnny Clegg nel tempo ne sono la dimostrazione. È curioso dicevo, vedere come in trent’anni tutto questo sia cambiato, dandogli un’accezione talora negativa. Sarebbe interessante capire chi durante questo periodo ha deciso che non si trattava più di divulgazione ma di furto, e perché. Tu stai portando in una nazione cresciuta a Totò Cotugno e Max Pezzali un qualcosa di diverso: allora dov’è l’appropriazione culturale?
È ovvio che se prendi una canzone sacra e spirituale di un’altra cultura e ne tagli un pezzo e ci metti una cassa dritta usandola per far ballare 50 persone bianche allora potrebbe essere così.
Qualcuno potrebbe obbiettare che a Balera Favela succede questo…
Ma noi non abbiamo mai usato nulla di sacro o spirituale, e son contento di chiarire questo punto: a Balera Favela il 90% delle cose che suoniamo sono cose mainstream, tutti i brasiliani che mettiamo sono artisti brasiliani in classifica e super mainstream. È gente che ha più soldi di me e te messa insieme. Non abbiamo e non andrei mai a prendere musiche ai popoli Indios da 100 abitanti sconosciuti alla civiltà. È un errore che forse avrei potuto fare o che potrei aver fatto in passato, quando non avevo questo tipo di consapevolezza, ma che sento di non aver mai commesso con Balera Favela. È ovvio che in buonissima fede quando mi sono approcciato a queste sonorità, ci sono andato a braccia aperte per fare entrare tutte queste suggestioni e ne ero sconvolto. “Novanta” ha un approccio molto naif riguardo a questo discorso, sebbene non abbia mai campionato nulla di sacro o inviolabile. L’unica cosa di cui mi pento con “Novanta” è quella di non aver accreditato i sample, ma venendo dalla scuola Madlib o J Dilla, gente a cui non è mai fregato un cazzo di accreditare i sample, ho pensato di poter fare lo stesso in un mood prettamente hip hop. Ora mi accorga che era tutto sbagliato.
Tornando a “TRNT” mo’ ti becchi la domanda “marzulliana” così teniamo alta la tradizione: è un disco di scoperta, di avanscoperta, o di stabilizzazione?
Scoperta no, non credo di aver scoperto nulla. Avanscoperta nel senso di sondare un territorio dove poter poi stare forse, quello sì.
Di stabilizzazione? Quando mi hai raccontato del disco per la prima volta ho sentito della soddisfazione, allora uso il termine stabilizzazione per dire che per la prima volta ti ho sentito in pace quieto.
Per la prima volta ho fatto qualcosa di nuovo e di mio al 100%.
Non ne sei uscito stanco o con il senso di non sopportazione rispetto ad un lavoro appena finito come invece mi hai sempre detto per i due dischi precedenti?
Torniamo al discorso dell’appropriazione culturale, con dischi come “Novanta” o “Curaro” devi stare attento a quello che usi e giocoforza senti il peso di usare una materia che non è la tua. Anche solo il fatto di sentire questa responsabilità stanca. Con “TRNT” è venuto molto più naturale.
Damir, il mio collega, su “TRNT” mi diceva che la bellezza di questo disco sta nel fatto che ti sei liberato di tanti orpelli e sovrastrutture per avere un suono molto più crudo, cosa che ti ha fatto bene. Ci ho ragionato un po’ e mi sembra si possa essere d’accordo no?
L’aveva detto anche a me ed ai tempi non ero d’accordo. Ripensandoci adesso, a mente lucida, ha ragione.
Potrei dire “Ha eliminato i flautini“, non è vero – quello succederà quando metterò le mani io sul tuo computer – però è effettivamente un disco molto più pulito…
Mi piace questo tuo odio per i miei flautini, solo i miei però, gli altri ti piacciono lo so (ride, NdI)! Ho sempre questa tendenza a riempire, riempire, riempire il suono continuando ad aggiungere altri suoni. Credo di essere migliorato anche dal punto di vista produttivo, per cui ora riesco ad ottenere il sound che voglio con molta meno roba: sarà sempre meglio, i pezzi saranno sempre più svuotati e sempre più minimali.
Il fatto di andare a lavorare su Hyperjazz cosa ha portato? Non voglio dire che su 42 records si stesse male so che siete amici da una vita, però forse sei andato a lavorare con qualcuno che parla la tua stessa lingua. Credi possa esserti stato d’aiuto?
Sì, tantissimo. In Italia credo sia l’etichetta più giusta su cui far uscire un prodotto del genere e, complessivamente, per tutto un progetto di rielaborazione della musica popolare del Sud Italia. Vedrai che avrai delle sorprese in merito. Quello che vorrei è che si creasse quella famosa scena di cui parlavamo un anno e mezzo fa, con un sound italico…
…a “sound italico” rabbrividisco eh, te lo dico.
No, attenzione: qual è il modo per cui chi tratta un certo tipo di musica può essere più originale e unico possibile? Il fatto di scavare nella propria terra, studiando dei suoni che ancora nessuno ha portato in una determinata direzione.
Perché viene più naturale nel Sud Italia che nel Nord Italia?
Io vengo da lì credo mi venga naturale. Anche se in questo momento sto guardando a nord.
Stai ascoltando Nanni Svampa, bene!
No, però sono completamente rapito dai Tenores sardi sentiti la prima volta su un film di Herzog con questi cori incredibili, quindi vorrei andare anche verso quella direzione. Il Sud Italia lo sento comunque più vicino, perché contaminato da Africa e Medioriente e questo è ovvio mi incuriosisca. Con Pino Basile, questo percussionista il cui lavoro è stata una fortissima influenza per “TRNT”, parlavo del cupa cupa, questo tamburo a frizione tipico della Basilicata che ricorda la cuica brasiliana, e mi confermava la somiglianza: questo non può non affascinarmi.
Prima mi hai detto che non vedi l’ora di suonare live “TRNT”? Non credo sia facile portare live questo disco.
No, per nulla. Sto cercando disperatamente dei musicisti che mi seguano in tour, ma non sto trovando nessuno. Da solo non vorrei farlo e non lo farò; lo strumento principale di questo disco è il tamburello, senza quello non immagino il live. Credevo fosse molto più semplice trovare qualcuno con cui suonarlo live…
Adesso da che parte si va?
Adesso sono nella famosa fase di studio stilistico di cui ti parlavo prima. Sto provando a trovare nuovi modi per altre rielaborazioni in chiave techno e anche in chiave acid, questo fin quando non mi verrà in mente una storia diversa da raccontare. Ora sto lavorando sempre in questa direzione, con l’obbiettivo appunto di costruire un live.
Abbiamo detto che il furto del computer è stato un taglio netto: come integrerai il live con i pezzi di ” Curaro” e “Novanta”?
Ah, ma è semplicissimo: quei pezzi non ci sono più. Non avrebbe nemmeno più senso farli.
Hai mai pensato di cambiare nome a questo punto?
Sì e ci sto ancora pensando.
Go Dugong non ti rappresenta più?
No, per niente.
“Chiamatemi Giulio Fonseca allora“!
Fonseca e basta! Ho fatto così tanti salti da quando è nato Go Dugong che questo forse sarebbe il momento giusto per cambiare nome, già quando sono passato dalla chillwave ad un suono più global poteva starci un cambio nome. Io mi gaso quando vedo un artista che seguo da tempo e che all’improvviso cambia totalmente strada e poi mantiene il nome ma forse non è il mio caso.
È un messaggio indiretto a Lorenzo, alias Godblesscomputers, e ad un suo post recente sui social?
Non lo so, nel senso: mi gasa se uno cambia totalmente musica e mantiene il suo nome. Mi gasa se nel tuo percorso comunque ci tieni a mantenere la tua identità. Io con Go Dugong, visto il mio trascorso e passato, potrei fare qualsiasi cosa, anche perché ho abituato tutti ad ogni disco ad un cambiamento. Con Lorenzo il discorso è diverso, perché ha sempre mantenuto una certa coerenza in ogni disco. Per me, che ho sempre mantenuto lo stesso nome pur mutando sempre i generi che facevo, sarebbe anche più naturale mantenerlo. Però adesso sento che sto facendo qualcosa di più importante, più maturo per quello ho questi pensieri.
Ascolti ancora “Love Explosion”?
Si certo rimane ancora uno dei miei dischi preferiti, lì si era creata un’alchimia difficilmente ripetibile. Credo come alchimia di essermici avvicinato con questo nuovo Ep.
Credo sia perché sei andato a toccare delle corde molto personali ed interiori…
“A Love Explosion” era una valvola di sfogo necessaria esistenziale. In questo caso parliamo di una cosa personale sono più o meno le stesse cose, stessa alchimia. Con “TRNT” veramente è stato qualcosa di involontariamente catartico, anche perché non immaginavo di intraprendere un percorso quasi terapeutico. Curioso poi che come per la taranta si sia manifestato quasi come una cura. Probabilmente dentro di me c’era davvero molto veleno che andava in qualche modo estirpato. Ho vissuto vecchi ricordi vecchi rancori, ho messo in discussione tantissime cose non è stata una cosa semplicissima, ci sono stati momenti in cui ho sentito la necessità di fermarmi a respirare.
Tu convivi con un lato che è l’opposto di quello che ci siamo raccontati qui sopra, che è quello di Balera Favela: come si concilia con tutto questo? Ti sdoppi? E’ un alter ego? Senti delle difficoltà?
Come i miei soci in Balera Favela sanno, ho molte difficoltà ultimamente. Mi risulta molto difficile dover switchare, e suonare un certo tipo di musica che non coincide più con la ricerca che sto facendo in questo momento. Sento che la mia ricerca come dj va su un binario lontano e diverso da quella di produttore. Non so se poi troverò un modo per farle riavvicinare, sicuramente è giusto definirlo per ora un alter ego.
Non è detto faccia male anzi…
Si però c’è qualcosa che non mi torna. Forse questa scissione tra dj e produttore mi porterà a trovare una personalità ancora più forte. Tu lo ricorderai, agli inizi di Balera Favela non ero certo un dj o un buon dj. Ora credo di averci preso più l’orecchio, di essere migliorato, questo coincide con la necessità di proporre dei dj set con una personalità e delle sonorità un po’ più forti.
Che non sono più quelle di Balera Favela…
No, non lo sono più, sebbene Balera Favela resta comunque un discorso interessante soprattutto per un lato umano, in primo luogo per il rapporto con i miei soci e soprattutto per il rapporto che si crea con il nostro pubblico quando suoniamo. Non posso dimenticare inoltre tutte le connessioni che si sono e che si stanno creando in giro per il mondo.
Bene abbiamo finito! Non abbiamo sparato cazzate, nell’ultima intervista avevamo parlato di Marco Columbro, Focus, alieni.
Però abbiamo parlato di eroina.
Vero, abbiamo parlato di eroina… la chiudiamo qui?
Sì, la chiudiamo qui.