Questa è, per certi versi, la “parte 2” di una chiacchierata datata 2013 che già era negli annali di Soundwall: perché quella con Alex Neri era stata una intervista che davvero aveva lasciato il segno. E che finiva con parole per certi versi profetiche: “Finirà lo star system. Ritornerà la voglia di divertirsi. In modo intelligente”: lo star system c’è ancora, ma si sta sempre più trasferendo in questa nuova entità dei festival, mentre i club boccheggiano, fanno fatica a star dietro, e anzi iniziano a capire che non ha senso cercare di stare dietro a certi ritmi – non sono sostenibili economicamente. “I festival hanno sostituito i club”, racconta oggi Alex, “e questo significa che il club, per avere rilevanza, deve tornare a fare il club come era all’inizio. Valorizzando i resident, la propria storia, le proprie radici, guardando sì al futuro ma non con l’idea di offrire i ‘soliti’ nomi che vedi dappertutto sui migliori palchi mondiali, ma coltivando una propria specificità”. La scusa per questa reprise, a livello di mega-intervista, è stata proprio una bellissima serata al Tenax di Firenze – ne parlavamo qui, dimostrazione perfetta del principio enunciato. Il giorno dopo, negli spazi della deliziosa Radio Amblé, abbiamo riaperto il registratore e questo è quello che ne è venuto fuori. Tanta, tanta roba. E si è partiti proprio dalla serata al Tenax con Fracesco Farfa, il live dei Planet Funk, Alex stesso in un dj set molto speciale, Philipp.
Fare una line up di questo tipo è coraggioso. Ti dirò: credo che cinque anni fa ci sarebbe stata non più di metà della gente, con una line up di questo tipo. Sta cambiando qualcosa?
Secondo me sì. Vero: era una line up coraggiosa. Era qualcosa che poteva lanciare due tipi di segnali: il primo, sarebbe che in realtà non vogliamo andare avanti, che ci siamo rifugiati in una sorta di revival, io, Planet Funk, Farfa. Il secondo, ed è quello in cui invece credo, è che le generazioni più giovani stanno riscoprendo certe cose degli anni ’90: ecco, forse è arrivato il momento giusto per dialogare veramente. Io, quando si tratta di decidere la programmazione del Tenax, insisto sempre per avere queste line up “miste”, dove c’è un nome diciamo storico, alla Francesco Farfa, e qualcuno di più giovane. Questo per recuperare qualcosa che è mancato tantissimo al clubbing italiano: la comunicazione fra generazioni.
Come mai è mancato?
Secondo me abbiamo sbagliato noi più “anziani”, e mi ci metto io per primo. Insomma, ecco: non ho trasmesso ai giovani quello che avrei dovuto, probabilmente. Sono stato troppo “leggero”. Ho dato per scontate troppe cose. Poi magari avevo anche la scusa della stanchezza nel fare le serate, va bene. Ma mi prendo le responsabilità, e lo dico a mio discapito: ho pensato più a fare pubbliche relazioni per me stesso che a tramandare informazioni e consapevolezze a chi veniva dopo di me anagraficamente. Oh, le pubbliche relazioni le facciamo tutti eh, inutile nasconderci, ma avremmo potuto fare qualcosa di più. Faccio un esempio: c’è stato il periodo in cui andavo a far serate come guest e, ovviamente, prima di me c’era qualche ragazzo più giovane ad aprire le serate – ragazzo che magari voleva provare a stupirmi, ad impressionarmi, e quindi si metteva a strafare. Ecco, lì invece di pacche e sorrisi sulle spalle, tanto per quieto vivere, avrei dovuto essere più diretto e dirgli “Oh, stai sbagliando tutto, non è così che bisogna fare”. Sì, ci sarebbero dovuti essere più dialoghi e confronti di questo tipo, da pari a pari. Per fortuna però la natura e il tempo fanno il loro corso: si va a cicli, e oggi sta compiendo la fine di un ciclo, o meglio, ne sta iniziando un altro. Ovvero (…e questo discorso io e te l’abbiamo già affrontato in varie chiacchierate fra di noi): l’esterofilia ha un po’ stancato. Si sta tornando a dare valore a quello che abbiamo sempre avuto in casa. Che non è poco. Anzi. E non lo dico per tirare acqua al mio mulino. Io penso che qua, in Italia, abbiamo fatto grandi cose per la club culture, e non mi sto certo riferendo solo a noi del giro house: parlo già di molto prima, dell’Afro per dire, che ha creato uno dei primi movimenti “nomadi” al mondo, gente che viaggiava da un club all’altro pur di sentire certe cose, qualcosa di pionieristico anche avendo a paragone Germania o Inghilterra. Si è fatto un mito della scena di New York, sì, ma alla fine era rappresentata quasi solo da un club: ti rendi conto? L’Italia, pensando anche a come fosse in teoria staccata culturalmente da un certo tipo di Europa, aveva in realtà una offerta grandissima, con cose incredibili. Insomma, se vedo che oggi le nuove generazioni stanno (ri)dando valore a chi c’era negli ’80 e nei ’90 io sono felicissimo. Che poi, anche la fase “esterofila” è servita, e anche su questo eravamo d’accordo io e te: ha fatto sì che molti italiani aprissero la mente, che magari iniziassero a viaggiare anche di più, e dopo una iniziale fase di fascinazione dopo arriva il momento in cui inizi a rivalutare – con più consapevolezza – anche quello che hai sempre avuto sotto casa. E sta arrivando. Sì, mi pare che oggi stia succedendo un po’ questo. E la cosa mi fa un sacco di piacere: non per me, eh, io non sono preoccupato per il mio futuro, ma proprio in generale, come principio.
Tra l’altro mi pare che tutto ciò abbia influenzato il tuo modo di suonare: il modo in cui suoni oggi, recuperando molto del tuo passato anni ’90, non è il modo in cui suonavi cinque anni fa, che era forse un po’ “prevedibile” e legato insomma al suono-del-momento.
Sai cosa ho preso dalle nuove generazioni? Il coraggio. Coraggio che forse avevo perso. No, aspetta, il coraggio diciamo che l’ho sempre avuto… però sì, le nuove generazioni mi hanno ridato il coraggio di credere nelle cose che avevo fatto in quegli anni. Sono stati loro a dirmi “Ma guarda che quelle sono gemme, sono tracce pazzesche”, sono stati loro a farmi notare che quel mio materiale lì è stato risuonato tantissimo negli ultimi Dekmantel, festival che è diventato una ispirazione per tanti – anzi, per i migliori, per quelli che prendono più seriamente l’approccio alla musica da club.
Oggi suono e mi arrivano dei ragazzini che mi dicono “Ah, bella questa traccia di Gemolotto, la conosco”: quando cazzo ti succedeva negli anni ’90? Te lo dico io: mai!
Per un sacco di tempo non sei stato un esempio di “coolness”, anzi, eri visto come un dj ormai sul crinale del commerciale…
Vero.
E per più d’uno l’idea che un pezzo di Alex Neri finisse in un set al Dekmantel pareva, mmmmh, discretamente improponibile.
Hai ragione. Sì, hai ragione. Ma è anche vero che l’avventura Planet Funk ha dato una svolta alla mia carriera. Prima di loro, ci sono stati dodici anni di clubbing, di produzioni, le robe a nome Kamasutra, che nel micromondo dell’elettronica un segno l’avevano appunto lasciato… Planet Funk, beh, ha spazzato via tutto questo. E mi ha catapultato in un mondo, effettivamente, più pop.
Ti sei accorto all’epoca che Planet Funk stava cancellando il “te” precedente?
Sì. Ma probabilmente ero io per primo che volevo cancellarlo, ripartire da qualcosa di nuovo, di diverso. In quel momento è arrivato un periodo della mia vita in cui sentivo necessario segnare una rottura rispetto al mondo dei club, facendo qualcosa più da “musicista”. Ecco, diciamo che non è che volessi proprio “cancellarmi”, quello no, era più un desiderio di evolvere, di progredire. Avevo fatto quello che avevo fatto, nei club – poi arrivava il momento di andare avanti. No? Certo, col senno di poi non mi sarei mai aspettato che nel 2018, 2019 sarebbe stata riscoperta così pesantemente la mia musica della seconda metà degli anni ’90, quindi parliamo a vent’anni e passa di distanza. Quindi la mia era stata una scelta davvero libera e senza rete.
Ma hai avuto paura, ad un certo momento, di non poter rientrare nel contesto del clubbing, di essere ormai diventato – o di essere visto – come un corpo estraneo?
No. No. Mai. Perché io so di aver sempre seguito il cuore. Sai, ho rinunciato negli anni anche a tanti soldi: avrei potuto fare le baracconate, tipo dei dj set “a comando” dove suonare solo pezzi dei Planet Funk, ma mi sono sempre rifiutato. Ho sempre fatto il dj propriamente detto, senza mai tradire questa arte. A periodi piacevo di più come tale, a periodi meno, ma c’ho sempre tenuto ad avere ben separate l’identità del gruppo, e l’identità mia come dj. Il mio background è troppo forte, è troppo dentro di me. Ecco, io non capisco come facciano certe persone come Bob Sinclar: non lo critico, non lo giudico, perché io non giudico nessuno, ma – come diavolo hai fatto a fare così? Ad avere una evoluzione di questo tipo? Ad allontanarti così tanto dalle tue radici? Perché lui era un dj e un producer della madonna.
Porca eva se lo era, pensa solo alle cose su Yellow…
Esatto. Incredibili!
E prima ancora c’era Mighty Bop, con cui faceva uscire delle tracce trip hop molto oscure di una bellezza pazzesca.
Esatto. E se lo dici oggi, pare che stai prendendo per il culo qualcuno, sembra impossibile.
Oggi c’è la Carrà.
Già. E ti chiedi davvero: oh, ma stiamo proprio parlando della stessa persona? Sì, cazzo, stiamo parlando della stessa persona, è sempre e proprio lui! Io ho alcuni vecchi dischi suoi che non venderò mai, perché sono delle produzioni semplicemente pazzesche. Ecco: non so come sia riuscito a dimenticarsi completamente di questo suo background, arrivando a fare qualcosa di completamente opposto, arrivando alla Carrà. Io, al posto suo, non ci sarei riuscito. E ti dirò: oggi, alla mia età, ho riscoperto il gusto di essere intransigenti, radicali.
Il che è paradossale: perché di solito invecchiando si diventa più saggi, più equilibrati, si relativizzano molte cose. No?
Dovrebbe essere così – ma invece no, nel mio caso invece no. Probabilmente proprio aver (ri)preso a comunicare con le nuove generazioni mi sta dando l’energia giusta: quella che ti porta a scelte nette, a credere profondamente in quello che fai, senza compromessi. Sto facendo scelte che qualche anno fa non avrei mai fatto.
Le avevi perse di vista, all’epoca, le nuove generazioni?
No, ma gli davo risposte un po’ di routine, diciamo.
O forse ti sembrava essere ancora tu un “giovane”, mentre ora hai una consapevolezza diversa.
C’è del vero anche questo. Io di default sono spesso accomunato ai grandi maestri, ai Ralf e ai Coccoluto; ma la verità è che io all’inizio con loro non è che ci suonassi assieme, io all’inizio li andavo a sentire! Dovevo ancora iniziare seriamente a fare il dj! Non siamo in realtà della stessa generazione. Non sono della stessa generazione loro, o di Leo Mas, di Gemolotto; sono della generazione dei Pastaboys, lì sì. Però per qualche motivo sono sempre stato accomunato a Ralf e Claudio…
…eh, l’effetto-Ibiza: colpa di Made In italy.
Eh sì. Ha lasciato una traccia bella profonda, quella roba lì.
Una traccia che deve essere stata anche un po’ traumatica, visto che da un certo momento in poi avete smesso di farvi vedere insieme e di suonare nella stessa serata. E’ stato proprio al Tenax, l’anno scorso, che dopo mille anni vi siete ritrovati insieme, condividendo la console. Come è andata quella serata?
E’ stata bizzarra. Sai, noi siamo tre entità molto diverse – e ne siamo consapevoli, perché tra di noi ci conosciamo molto bene. Dal punto di vista emotivo, “ritrovarsi” è stato bellissimo. Per me prima di tutto: sai, c’è stato un lungo periodo in cui io e Ralf non ci siamo proprio parlati. Rivedersi e riscoprirsi così è stato fantastico.
(Ralf, Claudio, Alex in azione al Tenax, una reunion dopo tanto tempo; continua sotto)
Non c’ero, ma ho visto un sacco di foto – e in alcune di queste foto le vostre facce parlavano chiaro, soprattutto quelle più verso fine serata…
E’ stato davvero bello, emozionante. Però ecco, dal punto di vista musicale è stato un po’ strano, soprattutto all’inizio. Sai, poco prima di quella serata abbiamo fatto tanti discorsi fra noi tre su come gestire il tutto, su cosa fare; poi ovviamente una volta arrivati lì, ci siamo detti “Vabbé, dai, facciamo un po’ come ci viene, andiamo liberi…”. E questo è pericoloso. Pericolosissimo.
Soprattutto con tre caratteri molto forti come i vostri.
Io sono quello che porta rispetto a chi è più anziano di me: “Fate voi, io vi seguo”. Ed era giusto fosse così: anche perché visto che eravamo al Tenax ero un po’ il “padrone di casa”, quindi si trattava di un ovvio e sacrosanto dovere di ospitalità. Ad ogni modo: Claudio ha scelto di partire per primo, e stai sicuro che vent’anni fa questa cosa non sarebbe mai successa, non avrebbe mai accettato di essere lui il primo a suonare… (risate, NdI) Dico questo perché voglio molto bene a Claudio, eh, ho un rispetto immenso verso di lui, sia chiaro! Il dato di fatto è: come warm up, come set per iniziare la serata, ha fatto una delle cose più belle che abbia mai sentito negli ultimi due, tre anni. Ma non da lui, intendo proprio in assoluto.
Claudio è molto in forma, musicalmente.
Sai cosa? Gente come io e lui stiamo diventando un po’ la boutique; prima eravamo dei supermercati, ora stiamo diventando delle boutique.
Claudio infatti parlava di se stesso come di “artigiano”, in questa nuova fase della sua carriera dopo i fasti degli anni ’90 e la popolarità immensa guadagnata in quel periodo. Con lui ci fu un’intervista davvero significativa.
Giusto, giustissimo. Secondo me persone come io e lui ci stiamo proprio specializzando, sai? Abbiamo smesso di essere l’Ipercoop, l’Esselunga, stiamo diventando delle piccole boutique. Il caso di Ralf forse è un po’ diverso, lui forse è ancora un po’ a metà fra questi due estremi, ma questo proprio per sua caratteristica personale, si trova bene in questa situazione. E poi lui guarda, è un comunicatore, un comunicatore incredibile, è un personaggio enorme. E’ il “Jovanotti dei dj”.
E’ uno di quelli che più e meglio riesce a parlare ai ventenni, così come sono.
Sai perché? Perché ci dialoga in modo onesto. Questo è il punto: onesto. Ed è una cosa in lui che io ammiro a dismisura. Chissà, forse perché è proprio lui ad essere ancora, almeno in parte, un “ventenne dentro”. Ed è quello che lo aiuta a restare legato a certe dinamiche, facendolo da protagonista. Detto ciò: quella del Tenax con noi tre è stata una serata meravigliosa. Ad un certo punto, guarda, avevamo deciso di fare un “roll” di trenta minuti a testa, ci eravamo detti così: ovviamente la cosa non ha funzionato per un cazzo, ovviamente quasi subito Ralf si è rotto le palle di stare lì ad aspettare, “Oh, quando tocca a me?”, sempre più impaziente. Fino a quando ad un certo punto è saltato tutto, ogni forma di divisione di tempi è andata a farsi benedire, stavo suonando io e all’improvviso Ralf mi arriva vicino – sai come fa lui, no? – e mi dice “Ale, dai, ora tocca a me. Sì, dai, tocca a me. Basta, su. Non riesco a star fermo. Tocca a me. Devo fare qualcosa. Siamo troppo lenti”. Dai 122 bpm su cui eravamo attestati, arriva lì e fa uno strappo – quelli classici suoi – e fa schizzare tutto a 132. Ti dico la verità: in quel momento mi sono anche un po’ spaventato, temevo che avrebbe “spezzato” il dancefloor e l’atmosfera, creando una frattura troppo forte, disorientante. Invece, e vedi cosa significa il sesto senso di un fuoriclasse, con quella scelta ha proprio ribaltato la serata, portandola ad un livello superiore. Lì per lì la gente è rimasta un po’ stranita, ma al secondo disco erano già impazziti tutti. Certo, per me e Claudio riallinearci è stato difficile, ma la verità dei fatti è che con quella scelta brusca ed improvvisa Ralf ha creato quello che si doveva creare: il giusto mix, la giusta varietà. Sai, spesso le cose migliori nascono dagli errori. Che poi no aspetta, il suo non era nemmeno un errore: era più un elemento di rottura. Ma soprattutto, era qualcosa di assolutamente pensato e voluto – ed è da lì che è partita la vera magia. Prima era stato bello, certo, ma eravamo tutti un po’ impostati, bravi, e così pure il pubblico, molto rispettoso attento; bello che sia rispettoso, eh, sono soddisfazioni, però ecco, ad un certo punto al diavolo il rispetto, deve proprio far partire la festa… E così è stato. E’ stato Ralf a dire, implicitamente, “Oh, bello tutto questo eh, bravi, bene, ma ora tocca menare” perché sì, essere dj è anche saper creare la dimensione della festa, non solo far vedere quanto si è di gusto ed intelligenti. E la festa Ralf l’ha creata alla grande, tirando fuori delle chicche techno-rave incredibili. Lui ha davvero questa sensibilità che lo porta a “sentire” quello che succede nella contemporaneità più avanzata, sa cosa la gente vuole per esaltarsi nel qui&ora. Vale anche per me, comunque, credo: ho riscoperto un certo tipo di sonorità, quelle del mio periodo Kamasutra, non solo per caso o perché mi girava così, ma perché ho avvertito che la gente era tornata ad averne bisogno. E mi ci sono ributtato dentro. A modo mio. Anche perché è comunque il “mio” elemento.
C’è una cosa che è mancata tantissimo al clubbing italiano: la comunicazione fra generazioni. E sì, mi ci metto fra i colpevoli
Sì, non puoi essere accusato di essere un wagon jumper, su un certo tipo di sonorità tra techno, house e progressive.
E’ il mio vero background. Su di esso sono un nerd: conosco etichette, dischi, solchi, tutto, tutto…
Faccio l’avvocato del diavolo: non è che questo ritorno agli anni ’90 segni una sconfitta, perché sta a dire che nell’ultimo decennio e passa non siamo riusciti a far emergere nessun paradigma forte, nel campo più strettamente legato al clubbing?
E’ assolutamente così. Ma attento: non è solo e non è tanto una sconfitta artistica, è prima di tutto una sconfitta tecnica.
Questo è interessante.
Perché in realtà oggi, e in generale negli ultimi anni, è pieno di gente che fa musica meravigliosa. E’ più difficile scoprirla? Sì, nell’enorme “rumore di fondo” del web è effettivamente più difficile scoprirla. Sai cosa (…e questi sono argomenti che porto avanti già dalla comparsa del cd, che è stata una prima forma di digitalizzazione e semplificazione): è molto comodo avere tutta la musica nel proprio smartphone, ma questa “facilità” non può non influenzarti.
Prima comprare un disco era una scelta da ponderare per bene, era un investimento da fare in maniera un minimo oculata, oggi per nulla: tanto rischi zero, non è che butti via dei soldi, se metti in streaming qualcosa che scopri essere una mezza sòla.
E’ proprio una legge di mercato: un eccesso di offerta, e la facilità nell’approvvigionarsi di ciò che viene offerto, diminuisce il valore percepito dell’oggetto in questione. Ma siamo nella generazione del “mangia & sputa” consumistico. Tornando però al discorso tecnico: è comunque il vinile ad avere un suono diverso dal digitale. Non dico neanche migliore o peggiore, oh, ma diverso. Ed evidentemente il suono più “nuovo”, quello digitale al 100%, in questo momento non sta soddisfacendo il pubblico abbastanza, e si sente il bisogno di tornare agli anni ’90.
Ho tirato fuori tutti i miei vecchi dischi: li ho puliti tutti, li ho ricampionati tutti – ma non li ho messi nel computer, no!, li ho messi nell’Akai, come si faceva una volta
Ma mi sa che un po’ di responsabilità ce l’ha proprio la scena stessa del clubbing, come ecosistema musicale, vista la sua tendenza diventata davvero spiccata dal 2000 in poi a mettere in circolazione se non proprio dei tool, dei dischi comunque pensati solo per il dancefloor, anzi, per un certo tipo di dancefloor…
Potrebbe essere. Ci sta, come osservazione. Ma io vorrei pensarla un po’ diversamente. Credo sia più una questione di… ecco, non voglio chiamarla colpa, ma diciamolo che ‘sta cosa del mondo nel proprio smartphone è deleteria, perché ti spinge ad automatismi molto sbrigativi. “Ah, è uscito il nuovo disco di eccetera eccetera? Bene. Next!. E’ uscita anche quest’altra cosa? Ottimo. Next!” …capisci, al gente gira subito pagina, in cerca della prossima notizia, della prossima cosa, della prossima persona. Anche perché nel frattempo non hai più tempo per nulla – te ne sei accorto? Ormai con la tecnologia ci ritroviamo a lavorare anche non in orari lavorativi, e per giunta da parte loro gli orari lavorativi invece di diminuire stanno aumentando. La gente arriva a casa stremata. Stanca morta. Siamo entrati nella “money machine”: lavorare, lavorare, lavorare. E’ per questo che la gente poi si rifugia nel mainstream: perché il mainstream è quello che ti offre le cose più “facili”, quelle che non ti obbligano a pensare. E’ così, e sarà sempre così. Poi sì, ci sono i malati come me, che hanno ancora voglia di cercarsi le cose, di fare fatica per riuscirci, e che si mettono a spolverare 20.000 vinili come io ho appena fatto con la mia collezione. Perché ti parlavo della “sconfitta” tecnica, no? Questo suono iper-digitalizzato ed altamente tecnologico che ha preso piede da un certo momento in avanti non ha lasciato niente, non ha creato niente, questa è al verità. Non lascia eroi, non lascia canzoni che diventano inni… non lascia nulla. Ci credo che poi la gente torna a guardare agli anni ’90. Dove proprio il suono era qualcosa di diverso, tra l’altro, e pure inconsciamente questa cosa è avvertita: un suono più caldo, o comunque differente. Cosa ho fatto allora? Da vero malato mentale quale sono ho tirato fuori tutti i miei vecchi dischi, li ho puliti tutti, li ho ricampionati tutti – ma non li ho messi nel computer, no!, li ho messi nell’Akai, come si faceva una volta. E ho detto ai miei collaboratori: “Proviamo a fare per un anno musica così, come si faceva un tempo. Vediamo cosa viene fuori”. Cambia proprio il suono. Il basso del Juno, la 909. Il sapore anni ’90 arriva lì – arriva anche da una questione meramente tecnica di come si produce musica.
Si diceva del pop e del maintream, invece. Domanda: oggi, ai Planet Funk quanto interessa essere in quel mondo, che comunque è stato all’inizio il loro mondo d’appartenenza, per quanto in maniera molto atipica?
Noi abbiamo un album già pronto. Che, per vari motivi, non è ancora uscito. Ed è un disco molto particolare.
Ah, è già pronto.
Sai, ovviamente questa cosa davvero brutta che è successa (la morte a inizio 2018 di Sergio Della Monica, uno dei fondatori della band) ci ha destabilizzato per un bel po’. Ci ha fatto fare delle domande, tipo: è giusto parlare ancora di Planet Funk, senza di lui? In ogni caso, era inevitabile mutare un po’ pelle. Quello che uscirà, più che un album, è un raccolta di tracce fatte negli ultimi quattro anni, quindi “fotografa” sia la parte in cui lui c’era ancora che il successivo cercare un nuovo assetto, un nuovo suono. Noi, di nostro, non ci siamo certo fermati artisticamente. Ma di una cosa siamo consapevoli: non andiamo bene per il pop attuale. Non del tutto. Il pop oggi dialoga con i social; e noi, beh, non siamo molto social. Né vogliamo diventarlo. I contratti discografici, oggi, si fanno in base agli streaming e ai follower, non ascoltano nemmeno il disco che gli stai presentando, praticamente non gli interessa. Io non sarò mai uno da streaming, da web, da social: non mi sveglierò mai la mattina facendoti vedere su Instagram come mi lavo i denti.
Non hai manco i denti d’oro, alla Sfera…
…contro cui non è assolutamente nulla: se lui e quelli come lui esistono, è evidentemente perché se ne sente l’esigenza, la gente li vuole, la gente li segue. Però ecco, non capisco come noi Planet Funk possiamo rientrare in questi nuovi scenari. Sì, faremo uscire il disco, però boh…
Ti sento molto disincantato.
Ma sì. Perché ormai ho la giusta esperienza per capire come funziona la discografia, come si strutturato certe economie. Oggi non si vendono più dischi, si ragiona solo a livello di streaming.
I fatturati delle major restano alti. I soldi continuano a farli.
Però li fanno in un altro modo. Sai cosa? Non vanno più in giro a fare scouting musicale. Vanno giusto a chiedersi “Ok, chi è che sta funzionando ora sul web? Ghali? Benissimo, ciao Ghali. Sai cosa, compro te e tutta la tua crew: continuate pure a fare quello che stavate facendo, che io penso giusto al marketing e a massimizzare i numeri”. Oggi va così. Il che non è solo negativo, perché incentiva il consolidarsi delle crew attorno agli artisti, è un modo per restare indipendenti. Per certi versi, è quanto facevamo già noi con la Bustin’ Loose: in realtà cedevamo i dischi solo in licenza. Peccato che oggi, coi soli dischi, per le major non ci siano più abbastanza margini, quindi ciao licenze. Tutto si è ristretto. Le nuove generazioni ci stanno dentro, anche perché hanno molte meno pretese di quelle che potevamo avere noi. Noi abbiamo vissuto i tempi in cui, per fare un disco che suonasse decentemente in ambito pop, dovevi mettere sul piatto almeno duecento milioni di lire. Capisci? E abbiamo anche vissuto la fase in cui arrivava l’etichetta straniera e ti diceva “Bene, per fare questo video abbiamo un budget di 100.000 sterline”. Oggi invece si fanno interi album in una sola settimana e i video, beh, te li puoi girare in due ore grazie al tuo amico che è bravo e sveglio a fare le riprese con gli smartphone. Si è abbassata un po’ la qualità.
Guarda, più di quello io mi concentrerei sul fatto che oggi puoi fare le cose con molto meno sforzo. Il che è un bene ma anche un male, credo.
Esattamente. E il corollario sai qual è? E’ che oggi metti più sforzo ed attenzione sul resto: sul gestire i social, per dire, più che sul lavoro certosino in studio. Insomma, oggi il mondo è l’opposto di come sono stato abituato fin dall’inizio a viverlo io e a lavorarci. Ma attenzione, non voglio fare quello che dice che tutto è perduto, anche perché non è vero per un cazzo, e lo dicevo ad inizio chiacchierata: ci sono nicchie, fra le nuove generazioni, che sono incredibili, hanno una conoscenza ed una apertura mentale pazzesca. Qualcosa che ai miei tempi, quando avevo vent’anni io, era impossibile, semplicemente impossibile. Oggi suono e mi arrivano dei ragazzini che mi dicono “Ah, bella questa traccia di Gemolotto, la conosco”: quando cazzo ti succedeva negli anni ’90? Te lo dico io: mai! Negli anni ’90 quelli che andavano nei club e nelle discoteche erano belli tossici, una mandria di gente felicemente smandrappata. Bello eh, perché si creava la festa: ma stai sicuro che non venivano lì in console a chiederti che disco stai mettendo… Quindi sì, il mondo è cambiato, vero, e i social sono un po’ non dico una merda ma almeno un’arma a doppio taglio, vero; ma c’è anche molta più informazione, e questa è una gran cosa.
Ti dirò, a me sembra anche che ora si stia molto meglio in pista, rispetto a una decina di anni fa.
Assolutamente sì. Il pubblico è migliorato parecchio. I giovani oggi sono splendidi. Meno tossici, non gliene frega praticamente più un cazzo di puttanate un tempo in voga come le risse in pista. Sono tranquilli, ascoltano con attenzione la musica, la giudicano con competenza. Chiaro, non tutti sono così, ok, ma noto davvero un cambiamento. Io dico sempre, negli ultimi tempi, che il ventenne italiano di oggi è come vedevo io i ventenni inglesi negli anni ’90. E io devo tutto all’Inghilterra, guarda: sono stati gli inglesi i primi a chiamarmi dopo le prime robe Kamasutra, è grazie a loro che ho iniziato a girare il mondo, sono stati loro a farmi capire che quello che facevo ero importante, mentre in Italia ero attanagliato dalla paranoia che ‘sta cosa della musica elettronica fosse solo una puttanata – quello, ti dicevano. In Inghilterra no. In Inghilterra ti facevano capire che la tua arte era valida, importante, significativa.E che era importante che fosse “tua”, che fosse particolare, originale. Ecco, i ventenni di oggi sono come gli inglesi: credono in quello che fanno, sposano le loro cause, vanno in fondo. Bravi. Quando fanno così, bravi davvero. E io, grazie a loro, ho imparato a tornare a farlo.