Umanesimo Artificiale è il nome di un’associazione culturale con base a Fano che cerca attraverso forme d’arte di indagare l’intreccio tra uomo e intelligenze artificiali. Lo ha fatto in una realtà dai numeri piccoli ma frizzanti e in fermento come quella di Fano sulla costa marchigiana. L’ha fatto portando in città nomi come Caterina Barbieri, Robert Henke o Jeff Mills. L’ultimo appuntamento della rassegna ha visto sbarcare sulla costa Max Cooper con il suo audio/visual show nella splendida location del Teatro Della Fortuna. Un bel progetto ed un’ottima idea, che fa cultura e intrattenimento con molta intelligenza. Filippo Rosati, che di Umanesimo Artificiale è tra i fondatori, ne ha approfittato per intervistarlo e per regalarci questa splendida chiacchierata tra scienza e musica.
Iniziamo con il tuo percorso: nel 2008 hai conseguito un Dottorato di Ricerca in Computational Biology presso l’Università di Nottingham e lavorato per un breve periodo come scienziato prima di dedicarti a tempo pieno alla musica. Che cosa ti ha mosso a fare il salto verso una carriera da artista e come hai integrato il tuo background scientifico nella produzione artistica?
Ho sempre amato l’arte, così come ho sempre amato la scienza, specialmente il suo valore estetico ed emozionale. Mi affascina molto anche la natura e per me la scienza è sempre un riflesso della natura. La scienza è intrinsecamente bella perché la natura è intrinsecamente bella. Una foglia o un albero non sono piacevoli solo esteticamente, ma la loro bellezza è celata anche nelle leggi che governano – ad esempio – il processo biologico di nascita e di crescita di un albero. Mi è sempre piaciuto quell’aspetto della scienza ed è per questo che ho studiato theoretical science. Non mi piace tanto la parte di esperimenti scientifici, quanto la bellezza delle idee. Credo di aver sempre avuto un approccio artistico anche quando facevo lo scienziato. Ho sempre preferito giocare con sistemi astratti: pensare all’idea, al concept, svilupparle attraverso la programmazione e vedere cosa esce fuori. In questo senso, la musica è molto simile, perché uno si siede di fronte ad uno strumento e gioca con dei sistemi astratti che hanno differenti elementi che si interrelazionano e devono funzionare insieme all’unisono. Il mio background scientifico si vede maggiormente nei visual. Visivamente il contributo della scienza è molto esplicito e ti consente di rappresentarlo fedelmente quasi al 100%, mentre per quanto riguarda la musica è sempre più complicato fare questa trasposizione. A volte compongo la musica come se componessi la colonna sonora di un film, altre volte sono molto più esplicito nell’inserire teorie scientifiche anche nella struttura compositiva di una traccia. Ad esempio, in “Penrose Tiling” – una struttura aperiodica di tiling che non ripetendosi mai ti permette di creare strutture infinite – l’idea matematica sviluppata dal matematico Roger Penrose ha già un effetto visivo molto bello di suo, quindi ho pensato “Come posso esprimere questa idea a livello musicale?”. Ho deciso di usare diversi loop di diversa lunghezza, ed ogni loop era inteso come un numero primo, che in matematica è un numero che si divide solo per se stesso e per 1; associare ad ogni loop un numero primo significa che i loop non si sovrappongano mai – se non dopo un’infinità di commutazioni. Non è una rappresentazione esplicita dell’idea matematica, ma una mia interpretazione; ma se si ascolta bene, si sente che la struttura musicale si sviluppa insieme alla struttura visiva. “Penrose Tiling” è un esempio di come audio, video e matematica si basino sulla stessa struttura ed il mio modo di creare dei link tra arte e scienza.
Parliamo appunto del tuo ultimo progetto “Yearning for the Infinite” che presenterai questa sera. Come è nato e come si è sviluppato?
“Yearning for the Infinite” nasce da una commissione del Barbican Centre il cui brief riguardava le nuove tecnologie e come queste nuove tecnologie influenzino la società odierna, con un focus sul processo di accelerazione del progresso umano. Volevo visualizzare questo concetto, sia dal lato personale dell’essere umano che si sveglia ogni mattina e cerca di perseguire i propri obiettivi, giorno dopo giorno, e sia in un’ottica più macro di sviluppo della civiltà, della società, incentrata al consumo. Questa tensione verso l’irraggiungibile, l’infinito – appunto – può avere connotazioni positive o negative, ed io preferisco vederla in modo positivo. In fin dei conti se nella vita ci si sente arrivati, non ci resta più niente e si cade in depressione. Nel modo in cui lavoro, inizio con lo scrivere delle storie che partono da concetti scientifici, passo poi a scrivere la visual story che comunico ai visual artist e successivamente creo la musica per quella storia. Nelle performance audiovisive parto dalla parte visiva per poi passare alla parte musicale. In questo progetto, per cercare di visualizzare l’infinito, ho fatto uso di diversi elementi come ad esempio il concetto dell’infinite regression o della ripetizione. Per esempio, nella traccia “Repetition” cercando vari modi in cui rappresentare visivamente l’infinito, insieme a Kevin McGloughlin (visual artist) abbiamo preso dei clip da diverse città e le abbiamo ripetute all’infinito; con la stessa struttura ho costruito la musica, fatta di loop che si ripetono.
In questo progetto hai collaborato con diversi visual artist, uno per ogni traccia. Come è stato questo rapporto?
Una volta che ho scritto le mie visual stories, quello che vorrei esprimere etc… cerco di individuare gli artisti che possano essere in grado di rappresentarle visivamente, e che parte della storia potrei affidargli. Che non è sempre e solo un video maker. Ad esempio, per “Penrose Tiling” ho dovuto cercare un matematico, perché è appunto una teoria matematica. A volte lavoro con neuroscienziati, data scientists e ricercatori in generale. A volte con film maker tradizionali. Dipende dal concept. Quello che faccio è un normale lavoro di commissione di un lavoro: li cerco, li contatto, gli racconto la storia, definiamo un budget e tutto il normale iter di un lavoro su commissione. Il mio rapporto con l’artista dipende molto dalla sua personalità: qualcuno è più introverso, preferisce lavorare da solo senza parlare con nessuno e solitamente se lavoro con queste persone è perché ho totale fiducia in quello che fanno. Altre volte è completamente l’opposto e si discute di ogni singola scena in uno scambio di email continuo. Adatto il mio processo in base alla persona con la quale decido di lavorare, perché quello a cui sono interessato è la qualità del lavoro.
Che importanza ha la tecnologia nel tuo processo creativo? È la tecnologia che influenza Max o è Max che conduce la tecnologia?
Entrambi. Credo che il mio sia un rapporto di collaborazione reciproca con la tecnologia e questo rapporto dipende dalla potenza computazionale. Per la musica, il mio processo di creazione è molto complesso ed è una questione di gestire il caos e incanalarlo verso qualcosa di interessante. Il processo ha diverse fasi differenti di sviluppo ed in ogni fase cerco l’aiuto della miglior tecnologia che mi consente di fare quello che vorrei fare. Mi piace spingere me stesso e la tecnologia ai limiti di quello che si può percepire. Ad esempio in un paio di tracce di questo ultimo album ci sono più di duecento layer di suoni differenti. Ovviamente non sono tutti percettibili, però mi dà la possibilità di spingere la complessità al limite. Per cercare di rappresentare la complessità dei suoni ed inserire sempre più informazioni, a volte mi servo di diverse tecniche, come ad esempio il binaural panning in cui sembra che i suoni arrivino da ogni parte. Infatti, molto spesso la mia musica è studiata per essere ascoltata con un buon impianto stereo, o con le cuffie. La bellezza e la parte interessante di questa arte è che questo genere di composizione può essere realizzata solo in un contesto di musica elettronica, non si può replicare in nessun altro modo. In questo senso, sono molto interessato a nuove tecnologie come l’intelligenza artificiale e il machine learning, a nuovi strumenti computazionali sempre più potenti che aprono la strada a forme di espressione artistiche diverse e sempre più complesse. Questo si applica anche in campo visivo. L’arte riguarda i sentimenti e le emozioni, non è qualcosa di asettico. Queste idee sono come una cassetta degli attrezzi che definiscono la struttura e i confini entro i quali lavorare, ma poi dentro questi limiti cerco sempre di esprimere le emozioni e i sentimenti; anche se si tratta di musica elettronica e di scienza, alla fine la musica deve trasmettere delle emozioni. Viviamo in un momento molto interessante per questo genere di arti.
Ho assistito al tuo show “Emergence” un paio di anni fa e le proiezioni erano su una sorta di superficie a 180°. In questo tuo ultimo lavoro “Yearning for the Infinite” ricerchi la tridimensionalità con proiezioni su molteplici superfici che avvolgono la platea. Perché ritieni che l’elemento di immersione sia fondamentale nei tuoi show e che tipo di esperienza vorresti che lo spettatore abbia durante i tuoi show?
Questo si ricollega al discorso di spazialità di cui parlavo prima. Mi piace avvolgere lo spettatore all’interno di una performance multisensoriale. Preferisco una fruizione personale dell’esperienza; è per questo che, rispetto ad una situazione di festival in cui si è in mezzo ad una folla immensa e magari lontano dalla consolle o dai visuals, preferisco situazioni più raccolte in cui la performance si sviluppa intorno allo spettatore che si trova al centro. Ad esempio, nello spettacolo portato qui a Fano ci sono proiezioni anche sui lati; quando la situazione lo permette mi piace proiettare anche sul soffitto o sul pavimento. Ho fatto un paio di show nei dome a 360°, o 3D shows con impianto surround. Per quanto riguarda invece quello che vorrei che lo spettatore percepisse, è un insieme di cose, in quanto nelle mie performance esprimo sempre una diversità di emozioni e sensazioni, non ce ne è una in particolare. L’unica cosa forse che ricerco sempre è un’esperienza molto intensa. Ho un aneddoto curioso su questo. Ho invitato i miei genitori alla premiére dello show al Barbican Centre. La nuova moglie di mio padre, che non era mai stata a performance di musica elettronica simili, ha passato tutta la prima parte con la sciarpa intorno agli occhi e alle orecchie. Alla fine, si è sciolta e le è piaciuto, ma si vedeva che all’inizio ha fatto molta fatica. Era qualcosa di troppo forte, un’esperienza troppo intensa per lei.
Nei tuoi ultimi album, ad iniziare da “Emergence”, ogni traccia viene presentata attraverso un videoclip e spiegata sul tuo sito nei minimi dettagli: dal concept, al processo creativo, alla teoria scientifica che c’è dietro. Questa cosa mi affascina molto. Perché è così importante per te condividere la conoscenza?
Perché amo la scienza, la natura, la filosofia e le trovo talmente belle che credo debbano essere condivise. L’aspetto dell’idea e del concept per me ha lo stesso valore della musica e dei visual. Dedico moltissimo tempo alla ricerca, alla lettura e alla formulazione del concept. La sfida sta sempre nel cercare di comunicare sempre di più e sempre meglio i concetti nei miei lavori. A volte tengo delle lecture nelle quali presento a fondo il video, quello che c’è dietro, ed amo questi momenti perché mi consentono di parlare di quello che mi piace. Lo faccio sperando di rendere il mio pubblico sempre più interessato alla scienza, che molto spesso – soprattutto quando ci viene spiegata a scuola – risulta molto boriosa.
Prima di concludere con l’ultima domanda, una nota di curiosità visto che Renick Bell sarà nostro ospite a marzo 2020 per una residenza artistica: perché hai scelto proprio un’opera (algoritmica) di Renick Bell come copertina dell’album?
Ho scelto quell’opera di Renick perché credo identifichi a pieno l’idea dell’album. Raffigura una branching structure (ramificazione) che cresce, cresce, cresce e tende all’infinito. Ma assomiglia anche ad un viso visto di profilo, che quindi sembra che miri verso l’infinito. Entrambi i concetti rappresentano perfettamente lo spirito del progetto.
Ultima domanda, e forse quella più filosofica. “Yearning for the Infinite” nasce da una commissione del Barbican Centre all’interno del progetto annuale “Life Rewired” che intende esplorare che cosa significa essere umani in un mondo in cui la tecnologia cambia qualsiasi cosa. Lo stesso tema è alla base di Umanesimo Artificiale fin dalla sua nascita, quindi – per concludere – vorrei chiederti: che cosa significa essere umano per te e che ruolo ha secondo te l’uomo in un mondo dominato da tecnologie sempre più intelligenti?
Il concetto di post-umanesimo è molto complesso. Quello che posso dire è che anche se faccio un uso intenso della tecnologia e delle teorie scientifiche, la musica e l’arte rimangono sempre un modo di esprimere le emozioni, i sentimenti, i qualia (da Wikipedia: i qualia sono, nella filosofia della mente, gli aspetti qualitativi delle esperienze coscienti. Ogni esperienza cosciente ha una sensazione qualitativa diversa da un’altra, NdI).
Qualcosa le macchine non arriveranno mai ad ottenere?
Magari potrebbero anche arrivarci, ma ogni essere vivente ha i suoi qualia. Quello che ognuno di noi percepisce è definito dalle nostre personali esperienze sensoriali, da come lavora il nostro cervello, in che environment siamo cresciuti; le limitazioni del nostro corpo definiscono chi noi siamo. Una macchina credo non arriverà mai ad avere questo tipo di esperienza ed è quello che ci distingue da una macchina. La maggior parte della musica e l’arte è ancora legata a questi elementi: non andiamo ad un concerto o ad un museo solo per l’opera in se, ma vogliamo riflettere sull’essere umano che c’è dietro all’opera, che vita hanno vissuto, che idee avevano, a che problemi sono andati incontro. Quando ascolti la musica della tua band preferita, non ascolti solo le onde sonore, ma anche tutto quello che la band rappresenta. In questo, il fatto che noi umani vogliamo relazionarsi con gli altri umani è ciò che ci differenzia da una macchina. La tecnologia ci permetterà di fare sempre più cose e meglio, ma credo che ci sia ancora spazio per noi esseri umani coscienti in questo mondo.