“Ah, l’ambiente della moda… Sì, fantastico. Le vedi tutte quelle Ferrari e Lamborghini parcheggiate lì fuori? Parliamone, parliamone… che stile. E parliamo anche di Lenny Kravitz! Sì! Ti prego. E’ fantastico, Lenny. Credimi. E’ soprattutto un ‘pussy magnet’. Lo sai, vero?”: inizia così, la nostra chiacchierata faccia a faccia con Carl Craig, catturato nel backstage della sfilata di Marcelo Burlon (i due sono amici, e Burlon ha chiamato Craig a suonare nel festone post-sfilata), nel pieno di una delle millemila Fashion Week milanesi. Già da questo incipit, capisci che non sarà una chiacchierata qualsiasi, non sarà una chiacchierata “normale”. Bene così: perché in quanto leggerete qui sotto ci sono ammissioni, affermazioni controverse, spunti feroci e, anche, importanti (e dolorose) verità. E quando avrete modo di vederlo dal vivo di nuovo con la versione live set di Paperclip People, al prossimo Kappa FuturFestival, ovvero quella versione che tanto rumore ha fatto dopo l’esibizione al Polaris targata Boiler Room, dopo questa intervista avrete più strumenti per decodificarla. Nel bene o nel male.
Ok, dicevamo di Lenny Kravitz…
Io non so quanto sia famoso qui in Italia, ma oh, te l’assicuro: tutte le donne lo amano. Tutte! E’ incredibile. Lui. Lui e Denzel Washington: loro, amico mio, sono dei “pussy magnet” pazzeschi, non c’è una donna che non dica di esserne innamorata, figurati poi quando appaiono veramente in un posto… il panico.
In effetti.
Ah, lo sapete anche qui in Italia?
Decisamente. Anche qui il buon Lenny ha sempre avuto molte fan. E ne faceva, di capatine nei club di Milano, all’epoca. Coi risultati che dici tu.
Vedi? Vedi? Io l’ho pure twittato, che il buon Lenny è un “pussy magnet”. Poi però un mio amico mi ha detto “Dai, Carl…”; e la mia ragazza “Ora tira giù quel tweet, subito”. Capisci? Oggi non puoi dire nulla, devi stare composto, abbottonato. Ma in realtà hanno anche un po’ ragione loro. Pensa se lo legge sua figlia, quel tweet…
Ok, se volevo chiederti se ti stavi divertendo ad usare in maniera così provocatoria i social, devo dire che mi hai già risposto. Molto bene.
Accidenti se mi diverto!
Ma posso dire che quando ti ho conosciuto non eri così?
Dici?
2002, se non sbaglio. Mi ricordo lunghe conversazioni – brillanti, eh – su politica estera, economia, il tentativo degli Stati Uniti di abbattere il regime iracheno…
Ah però.
…e tutto compunto mi chiedevi di trovarti in città – eravamo a Cagliari – dei negozi che vendessero vestiti eleganti di Armani. Ora invece ti vedo tutto allegro a cazzarare sui social. Insomma, che è successo? (risate, NdI)
Guarda, io sono sempre stato una persona che si divertiva e si diverte. Sempre. E’ che sai, come dire?, devi ritrovarti nella situazione giusta per poterlo far vedere al cento per cento. E’ un po’ dura quando scendi dall’aereo e… Ecco, prendi ora: sono sceso dall’aereo poche ore fa, arrivando da Detroit, e un attimo prima ero in Vietnam: con un ritmo così certe volte non riesci a indovinare sempre le giuste sfumature da adottare. Sai cosa diceva Miles Davis? Che l’essenziale non è nelle note, ma nei silenzi tra una nota e l’altra. Ecco: i social sono un po’ questo, hanno questa utilità. Cioè: io e te non ci vediamo ogni giorno, anzi, ma attraverso i social tu hai potuto seguire quello che mi è successo in tutto questo tempo, dal 2002 ad oggi; e sono contento che attraverso i social tu possa vedere solo le battute, l’humour, anche corrosivo, e non vedi invece di quando sono stanco, di quando non ho nulla da dire, di quando sono poco ispirato. Cose che non è importante tu veda. Amo i social, mi danno la possibilità di divertirmi sulla mia personalità – e fanno sì che possa far vedere agli altri quanto amo divertirmi su di me.
Certe volte sei proprio ai limiti dell’oltraggio e dell’assurdo.
(scoppia a ridere, NdI)
Ridi perché sai che è così!
Sono un Gemelli. (risate, NdI) Sai chi è Gemelli? Trump! Ok, non sono così sghiandato come lui, ma… Ah, sai un altro Gemelli? Kanye! Vedi tu!
Maledizione…
Ma pure Lenny Kravitz è Gemelli, attenzione!
Insomma, diamo la colpa alle stelle, allo zodiaco.
Come si chiama la tipa che stava nei Fugees? Lauryn Hill?
Lei.
Gemelli anche lei. Ecco perché ad un certo punto sembrava avesse dato di matto.
A questo punto finita l’intervista andrò a leggermi i nati illustri sotto il segno dei Gemelli, con un po’ di preoccupazione. Ok. Ma torniamo al 2002, visto che siamo partiti da lì: era un periodo strano, per te. Eri ancora nel pieno del casino e delle dispute attorno al Detroit Electronic Music Festival (ne parlammo parecchio fra noi), e comunque viaggiavi ancora sull’onda delle tue incredibili release negli anni ’90, una più seminale dell’altra, ma proprio col nuovo millennio iniziavi a diradare in modo abbastanza sensibile l’uscita di materiale nuovo.
Sai, il Detroit Electronic Music Festival è stato qualcosa di incredibile, e intendo non solo per la città di Detroit ma proprio per tutti gli Stati Uniti. Era la prima volta che si provava a fare un festival di musica elettronica di quella portata, da quelle parti. Il punto è che io e la mia socia in affari all’epoca avevamo delle visioni, ecco, troppo diverse. Troppo. Il mio background era quello della musica underground, della scena alternativa. Attenzione: io ho un enorme rispetto per il pop, e non potrei non averlo, a istinto, perché sai cosa succedeva quando ascoltavamo Electrifying Mojo alla radio? Lui suonava dei pezzi che in realtà erano super-commerciali, di enorme successo, solo che a noi – che non eravamo consci di questa cosa – sembrava roba strana, totalmente underground. A Chicago era uguale: Silk Hurley, Farley Jackmaster Funk facevano la stessa identica cosa, paro paro. Mettevano dei pezzi che noi che li sentivamo pensavamo fossero assurdità underground, poi col tempo abbiamo scoperto che da altre parti del mondo erano invece megahit. Esempio classico: Kraftwerk. Vuoi dirmi che i Karaftwerk non erano un fenomeno pop, per la portata immensa del loro successo? Ovvio che lo erano! Ma per noi in quel momento erano controcultura. Quindi ecco, siamo cresciuti con un background di un certo tipo, una attitudine di un certo tipo, per noi i Kraftwerk erano la roba assurda che conoscevamo in pochi, il segreto da girare solo ai tuoi migliori amici, la musica anti-sistema, fuori da ogni traiettoria commerciale… cosa che nella realtà dei fatti loro né erano, né si sognavano di voler essere. Ma torniamo al festival. Il mio template era il Sónar, tanto per capirci. C’era pure Derrick (May, NdI), pure lui la vedeva tendenzialmente come me. C’era bisogno di un headliner? “Mettiamo i Parliament”, dicevamo noi; “Ma per niente, come headliner chiamiamo qualcosa tipo Madonna”, rispondeva la nostra socia di allora. Capisci quanto eravamo distanti? Non poteva durare. E infatti, non è durata. Però ecco, al di là di tutti gli scontri, i litigi, le rotture, se mi guardo indietro non posso che essere profondamente orgoglioso di quanto abbiamo fatto per la città e per tutta la scena statunitense della musica elettronica.
C’è sempre di mezzo il grande paradosso per cui techno e house sono state inventate negli Stati Uniti, ma è in Europa che sono state prese sul serio e valorizzate (e monetizzate)…
Sì, in Europa avete apprezzato certa musica fin da subito, ma il punto è che negli Stati Uniti esattamente quando techno e house iniziavano a svilupparsi seriamente, la fruizione della musica in generale (e la sua educazione ad essa) stava subendo dei colpi durissimi. Sotto il peso della recessione e/o dei tagli di budget la musica – soprattutto quella non da classifica, non già codificata e canonizzata – ha iniziato a perdere sempre più possibilità di circolare, di essere prodotta, di essere ascoltata o ballata. In Europa la situazione è sempre stata molto migliore in tal senso, e credo che questo abbia fatto la differenza sotto alcuni punti di vista. Ma tornando al Detroit Electronic Music Festival e ai primi anni del duemila…
…sì, esatto, torniamo lì!
…vero, è stato faticoso, è stato un casino, ci si sono messe in mezzo molte questioni di ego, molti scontri anche brutti, molti litigi che si potevano evitare. Ma fortunatamente, quando tutto questo stava succedendo io avevo appena compiuto trent’anni: da un lato era già una persona con una certa esperienza, dall’altro avevo ancora tutto il futuro davanti. Puoi riuscire a reggere, una situazione di quel tipo. E infatti l’ho retta.
Però appunto, l’impressione – almeno da fuori – è che abbia interrotto la tua ispirazione e la tua prolificità, che negli anni precedenti era invece a livelli assurdi.
Beh, di sicuro vivere tutte queste cose è stato un casino. Non poteva non esserlo. In una città come Detroit, poi… in una comunità come Detroit… Un posto dove l’attitudine è “…Kraftwerk? Questi sarebbero i Kraftwerk? Vabbé, carucci questi tedeschi, ma cazzo io se solo mi ci metto posso fare le cose tre volte meglio di ‘sti manichini”. Attitudine che poi si è riversata anche su di me: “Carl ha fatto tutto questo successo? E perché? Per quei dischi lì? Ma figuriamoci, io se solo voglio posso fare musica tre volte migliore”. Insomma, una dinamica competitiva però di quella non costruttiva ma un po’ distruttiva, con un sacco di rancore e veleno, dove le energie venivano usate più per sminuire il lavoro altrui che per fare al meglio il proprio. Vedi, se le critiche ti arrivano da gente che conosci, in realtà è prezioso: persone che ascolti, di cui hai fiducia, le loro parole ti possono spingere a fare meglio, possono essere il calcio in culo di cui hai bisogno per alzare il livello, perché li conosci, sai come pensano, sai che non dicono cazzate o non sono mossi dall’invidia. Ma quanto le critiche ti arrivano per principio da persone che manco sai chi sono, quando inizi a sentire attorno a te tutta un’atmosfera di odio, ostilità, fastidio, beh… ti colpisce. Non puoi dire che non ti colpisca. Non puoi. Anche perché quando fai musica, se la fai bene, non puoi non mettere dentro anche tutto te stesso, le emozioni del momento. Ognuno reagisce a modo suo, ognuno si fa ispirare alla sua maniera: c’è chi diventa più produttivo quando sente attorno a sé il conflitto, chi invece lo diventa quando sente che ha il supporto delle persone attorno a sé; c’è poi chi ha bisogno di sentirsi sempre “a margine”, sempre sul punto di fallire, per tirare fuori l’ispirazione più efficace, chi al contrario ci riesce solo quando percepisce che tutto a posto, tutto è sicuro, tutto è sotto controllo. Dipende. Poi io oh, non è che facessi solo musica: c’era anche l’etichetta. Un’etichetta per cui ho sempre fatto tutto io. Non avevo un A&R. Ero io. Tutto io! Classica arroganza da Detroit… (risate, NdI). Per dare infine l’elemento definitivo di tutto quella fase della mia vita, nel 2001 nasceva il mio primo figlio. Insomma: un periodo in cui stavano succedendo un sacco di cose. Ci sta che avessi rallentato la serie di release, no?
Eccome se ci sta. Però ti chiedo: ti è mai venuta – in quei momenti, o anche successivamente – paura che l’ispirazione fosse finita, che avevi terminato le idee buone e forse avevi esaurito il tuo ciclo creativo e non avevi più nulla da dire?
Se mi è mai capitato?
Già.
Mi capita sempre. Sempre! Di continuo! E’ una cosa che mi accompagna da quando ho iniziato! E che di certo non è andata via col tempo.
Bene, e allora in questo caso che si fa?
Devi trovare qualcosa che faccia da scintilla. Qualcosa. Qualsiasi cosa. Una canzone che senti in giro, un concerto, ma anche qualcosa che ti succede in famiglia. Qualsiasi cosa. Davvero.
Ma a te capita di riascoltare le tue release storiche, quelle degli anni ’90?
Certo.
E ti ritrovi a dirti “Aoh, guarda che figo che ero…”?
Sai perché sono ancora in giro dopo così tanto tempo? Perché non me lo sono mai detto, questo. Perché non ho mai nemmeno lontanamente pensato una cosa del genere. Non che non avessi le idee chiare: l’idea era di prendere quanto fatto da pionieri come Juan, Kevin e Derrick e dare un “twist” particolare. Ma attenzione: sì, i miei compaesani, i pionieri della techno; ma un altro pioniere altrettanto fondamentale e d’ispirazione per me è stato, per dire, un Todd Terry.
Ecco, questo potrebbe sorprendere molti.
Lui di sicuro è un’influenza fondamentale. Ma dovrei fare altri nomi. I Public Enemy. Ma anche il Wu-Tang Clan. …ecco, aspetta, fammi parlare dei Wu-Tang, perché loro possono permettermi di esprimere qui un concetto molto importante: ti ricordi le loro prime release?
Certo.
Bene. Se le ascolti, capisci subito quanto erano “affamati”, quanto avevano urgenza di esprimersi, quanto non gliene fregasse un cazzo di niente e volevano fare le cose dannatamente a modo loro. Di quanto avevano un’energia in corpo e nelle idee che non poteva essere in alcun modo addomesticata, grezza, feroce, senza compromessi. Ecco: lo stesso tipo di energia lo ritrovo nelle mie prime produzioni, quelle appunto degli anni ’90. Non avevo soldi per comprare questo o quello? Ma cazzo, piuttosto lo rubavo, se necessario! Poi: io ho iniziato a fare musica usando strumenti tradizionali, e quando suoni la chitarra bene o male hai una visione abbastanza limitata e standardizzata su quello che può fare una chitarra, su come la chitarra deve essere usata in musica. “Vaffanculo”, mi ero detto, “io amo Ornette Coleman e il suo sax, ora voglio mettere un po’ di Ornette nella mia chitarra”. La svolta sono stati i synth. Accidenti, se i synth mi hanno cambiato la vita! Con loro, improvvisamente, la musica non aveva più limiti. Il suono non aveva più limiti. Non era prevedibie e canonico. Non era standardizzato. Potevi inventartelo tu da solo. Una meraviglia! E poi, mentre creando con la chitarra inconsciamente pensavi a seguire la forma-canzone, perché tutta la musica fatta partendo dalle chitarre aveva queste forme rock, folk o pop chiaramente codificate, coi sintetizzatori era tutto una fantastica tabula rasa. Potevi esplorare soluzioni improbabili ed anzi era era “normale” ed inevitabile che lo facessi, con quegli strumenti lì. Per me è stato fondamentale anche quanto ho imparato da giovanissimo, a scuola, a dieci, undici anni, quando nelle ore di musica ci avevano fatto vedere come potesse esistere un pentagramma dove non scrivere solo le note ma anche i suoni, la tipologia di suono, trovare insomma un sistema di notazione per il rumore, per gli effetti elettronici. E accidenti quanto la cosa mi aveva colpito, all’epoca. A questo aggiungi che ascoltavo Electrifying Mojo alla radio e le sue soluzioni incredibili, poi c’era pure il ragazzo di mia sorella mi passava della musica assurda – lui tra l’altro viveva in Indiana, manco a Detroit – e aggiungi che nella mia adolescenza esplodevano gruppi come De La Soul, Public Enemy, Eric B & Rakim, Run DMC, ma poi arriva anche la musica dance e synth-pop dall’Europa, sì… anzi, proprio dall’Italia arrivava roba incredibile, sai?
Sì sì, so di questa tua passione, che peraltro è fortissima anche in Derrick May: impazzite, per l’italo-disco.
Alexander Robotnick!
Esatto.
La cosa fantastica è che per noi quella musica non commerciale per un cazzo, era underground. Così underground che non sapevamo manco bene come chiamarla. Quindi, nel dubbio, avevamo finito col chiamarla “progressive”. L’italo-disco per noi era “progressive”.
Sul serio?
Ma mica solo l’italodisco. Anche la prima musica house, stessa cosa: “progressive” pure lei. “Can You Feel It” era “progressive”. La prima release di Derrick, era “progressive”. Cybotron, stessa cosa.
Arriviamo però ad oggi. Oggi per te questa “fame”, ovviamente, non c’è più. Non può esserci. Tutto gira bene. Tutti ti cercano. Tutti ti fanno suonare (pagandoti pure bene… d’altro canto per giusta legge di mercato). La “fame” che ti ha fatto fare cose incredibili negli anni ’90 non c’è più. E quindi? Che succede? Come si fa?
Si fa e succede che oggi, onestamente, questa “fame” mi sembra che non ce l’abbia più nessuno. Specialmente in questa nostra scena elettronica. Siamo tutti un po’ omologati. Stessi suoni. Stesse routine. Io questa cosa cerco di combatterla, e paradossalmente è lì che spesso ti complichi la vita da solo, fai cazzate, perché oggi cerchi di sconfiggere la routine basandoti sulla tua sensibilità attuale, su di lei, e non su quella di quando avevi diciotto anni, volevi “mangiare” il mondo, la tua strumentazione ce l’avevi perché l’avevi presa a rate (pur sapendo che non te le potevi permettere quindi non le avresti pagate), andavi a pranzo da tua madre perché altrimenti non avevi un dollaro per andare al supermercato. Oggi è diverso. Non hai quella sensibilità lì. Non hai quella “fame”.
La scena elettronica oggi? Siamo tutti un po’ omologati. Stessi suoni. Stesse routine
Il che, allargando l’obiettivo, mi fa dire che i diciottenni di oggi con la “cazzimma” molto più facilmente si mettono a produrre musica trap o anche pop, piuttosto che techno o house.
Merda. Questo mi spinge a dire una cosa. Che non vorrei dire. Ma…
…ma?
Allora. Ero a questo festival in Vietnam un paio di giorni fa, no? Bene. Ad un certo punto vengono da me quelli dell’organizzazione a mi fanno “Vieni, ti accompagniamo: tu sei al palco principale, quello ‘commerciale’, ora ti portiamo lì”. Ci sono rimasto malissimo. Anche perché a vedere la line up di quel palco lì erano tutte persone che conosco, tutte persone che stimo. Per loro, per gli organizzatori noi eravamo i “commerciali” del festival. Cazzo. Noi. Io. Io, che per tutta la vita ho sentito di appartenere a qualcosa che nasce come alternativo, controculturale. Come era possibile. Io. Commerciale. Cazzo. E sai cosa?
Dimmi.
Era vero. E’ vero. Tutti questi anni mi sono voluto negare l’evidenza. Ma è vero. Io. I miei amici. I miei colleghi che più sento vicini. O comunque, molti che rispetto.
Tra l’altro sarà sempre peggio, ora che il fenomeno EDM si è un po’ sgonfiato e che l’industria dell’intrattenimento dance più commerciale vuole (ri)scoprire techno e house…
…vedi le tipe belghe che fanno techno, e il loro successo.
Esatto.
Che non sono manco male, attenzione. Suonano cose nuove. La gente le apprezza molto. Però sono, effettivamente, un fenomeno “commerciale”.
Appunto. Ora l’industria si getterà sempre più su chi arriva con un suono house o techno, per farne un fenomeno da grandi numeri.
E la cosa mi fa star male. Ora, quando bevo un po’ e mi ubriaco posso attaccare un pippone alla gente su quanto questa cosa sia terribile, pessima; però poi magari sono ubriachi pure loro, e mi rispondono “Vabbé cazzo vuoi, tu mica sei meglio, anche tu sguazzi in questa cosa, in queste dinamiche”. Oh, nella nostra scena ci sono talenti pazzeschi, incredibili. Tipo: Jeff Mills, che uomo incredibile è? E Derrick? E Vega? E Dope? E Cox? Ma anche Seth Troxler spacca. Jamie Jones, gran dj pure lui. Loco Dice, quanto è bravo. E Ricardo, Luciano: vogliamo non nominarli? …tutta gente che ha un talento enorme, e-nor-me!, e io odio il fatto che ora la gente possa percepirli ed incasellarli nella categoria “commerciale”. Ma ha senso farlo, effettivamente, e aggiungo “purtroppo”.
Io darei una fetta di responsabilità anche agli appassionati delle cose “nostre”, che in qualche maniera non “sfidano” gli artisti, vogliono da loro solo la routine, vogliono rassicurazioni, se qualcuno prova ad uscire dal seminato il rischio di non essere seguito è altissimo.
E’ vero. E’ così. Oggi va che funziona solo chi fa “impazzire” le persone, ma essenzialmente nel modo più superficiale. Senti, mi sta bene che i tempi cambino, che l’industria cambi, ma il dato di fatto è che oggi siamo arrivati al punto che chi va a sentire un dj non è più lì per ascoltare o ballare, è lì per vedere. Con questo tipo di dinamica, noi in console diventiamo un feticcio, un giocattolo, un fumettone. E’ quello che sta succedendo per il fenomeno delle dj donne. Prendi anche una come Honey Dijon: è brava lei, spacca, ma l’impressione è che la gente vada a vederla per il personaggio che è, non per quello che suona. Il risultato insomma è che questa faccenda della club culture è diventato un gigantesco fumetto, una messa in scena spettacolare, piuttosto che qualcosa di vero ed autentico.
Mi viene da dire che forse è per questo hai voluto fare un set così assurdo alla Boiler Room al Polaris.
Esattamente.
Insomma, quel set era volutamente provocatorio.
E certo che che era volutamente provocatorio. Era la prima cosa che facevo come Peperclip People dopo un sacco di tempo. Sai qual è il detto, no? “Lasciali quando loro ancora ne vorrebbero di più e vorrebbero altro, spiazzali”. E così è stato (ride, NdI)… Io ho voluto fare questa cosa per Mirko Loko, colui che è il capo del Polaris, grande dj e producer ed anche mio amico; ma… hmmmm… non farmi dire brutte cose sulla Boiler Room, però ecco, se guardi ormai è diventata sempre la solita dinamica, il dj suona, la gente alle sue spalle si dimena, urla…
…ma lo fa a favore di telecamera.
Proprio questo. C’è sempre lo stesso pattern: la gente balla di fronte alla telecamera, aizza il dj a prescindere, il dj a sua volta è sempre “hyped” in un certo modo. Insomma, è sempre la solita messa in scena. Far transitare tutto su internet ha cristallizzato tutto questo, ha reso quasi obbligatorio un certo tipo di format – ed è un format che non c’entra molto con quello che sarebbe il clubbing di suo. Ma non è certo solo internet o la Boiler Room, è proprio un fenomeno generalizzato. Prendi Elrow: è diventato talmente forte che oggi si è arrivati a pensare che o hai i coriandoli, miliardi di coriandoli nei tuoi party, o non vali granché. Perché la gente insegue un format.
L’impressione è che la gente vada a vedere un dj per il “personaggio” che è, non per quello che suona. Il risultato insomma è che questa faccenda della club culture è diventato un gigantesco fumetto, una messa in scena spettacolare, piuttosto che qualcosa di vero ed autentico
Ok, ma facciamo un passo indietro: quando hai iniziato a leggere i commenti pesantemente negativi su quella tua Boiler Room al Polaris (tra cui il nostro, NdI), ti sei incazzato? O ti sei messo a ridere, commento dopo commento?
Vuoi la verità? Entrambe le cose. Da un lato ero incazzatissimo, ma contemporaneamente ridevo. Poi sai, io sul web ci sono, e mi diverto spesso a trollare la gente. Lo sai, no?
Sì, mi è giunta voce.
Un tipo di Milano l’ho trollato proprio tanto (risate, NdI)… Senti, pensa alla vita che facciamo ora. Pensaci. Che altro fai, se non prendere aerei per andare in giro a suonare? Sali a bordo, decolli, la cosa più eccitante che può succedere è che ci sia qualche piccola turbolenza in volo, poi atterri, ti portano subito in hotel, lì stai in camera, guardi un film, cerchi di far passare il tempo… E’ diventato tutto routine. Tutto assolutamente routine. Ora però ti devo parlare di casa mia e della mia cagnetta, un pincher…
Eh?
Lei sa perfettamente quando arriva il postino. E quando sente che sta arrivando, inizia a dare di matto: si agita, abbaia come una matta… ma fa tutto da sola; poi quando finalmente il postino fa passare le lettere attraverso la buca nella porta si agita ancora di più, perché vede finalmente “succedere” qualcosa. Ecco: i social sono così. Ti agiti da solo. Ti fomenti da solo. E la cosa quasi ti piace, anzi, ti piace proprio. Il tuo cervello impazzisce, ma tu stai bene, ti diverti. Dimentichi la noia e la routine. A me via web arriva di tutto: accuse di essere stronzo, arrogante, eccetera. E io non sono nessuno, figuriamoci a quelli famosi cosa succede, cosa gli arriva… Ma la differenza tra me e quelli realmente famosi è che io i social me li curo da solo, in prima persona. Mi piace. E’ divertente. Ti scalda il sangue, e il cervello. Nel bene e nel male.
In effetti più di una volta mi è capitato di parlare con persone che ti descrivono come uno stronzo arrogante. Avendoti conosciuto un minimo, ho sempre risposto che secondo me era diverso, eri tu che ti divertivi a comportarti così apposta, per te era un po’ un gioco. O una forma di difesa.
Ogni tanto è effettivamente una forma di difesa, di protezione. Altre volte, semplicemente, è un gioco: c’è chi lo capisce, chi no. Ma c’è una cosa importante da dire: c’è una grande differenza tra essere un artista, ed essere un artista nero.
Ah. Ancora oggi?
Ancora oggi. Una volta Derrick (May, NdI) parlando con me ha detto una verità sacrosanta: “Se sei nero, la gente ti vede sempre come un entertainer, e non come un artista”. Era così quindici, venti anni fa, ma in molti casi è così ancora adesso. E nel mio caso, da me ancora oggi non si aspettando e non vogliono arte, vogliono solo entertainment. Questa non è una cosa che riguarda solo i bianchi, eh, riguarda invece proprio tutti, tutti! In moltissimi ancora cadono in questo pregiudizio. Ancora oggi la gente vuole il “Dj Champagne” di turno che balla, intrattiene e fa l’animatore della festa, “Ehi, devi dare alla gente quello che vuole!”, ma col cazzo, perché il mio modello è Miles Davis, il Miles che negli anni ’70 suonava dando le spalle al pubblico. Quindi, messaggio a chi mi trova arrogante: ehi, io faccio questa cosa dal 1989. Posso anche permettermi di fare il sostenuto. No? Non posso? Poi possono pensare che sia uno stronzo. Va bene. O magari pensano che sono un “pussy magnet”, come Lenny, ecco, questo è ancora meglio… (risate, NdI)
C’è ancora oggi una grande differenza tra essere un artista, ed essere un artista nero
Sai qual è la cosa bella di questa chiacchierata? Che non è la solita intervista dove si parla in modo pedante di musica, e solo di musica…
Merda, davvero. Finalmente!
Però dai, concedimi almeno una domanda banale: a cosa stai lavorando, musicalmente parlando, in questo periodo?
A un progetto assolutamente super con Matthew Dear. Poi c’è il disco con Moritz Von Oswald, a cui stiamo lavorando almeno da dieci anni, accidenti a noi. Poi ci sono le date da dj, al solito. Ma ci sono anche dei progetti con un’orchestra; c’è una installazione che devo fare per una delle gallerie d’arte più rinomate di New York, la Dia Art Foundation, loro sono dei grandi, patrocinano un sacco di artisti, fanno probabilmente “sul campo” più per l’arte newyorkese di quanto possa fare il MoMa. Per loro faccio una installazione in cui provo a ricostruire quella che, secondo me, deve essere l’esperienza in un club.
Insomma, un sacco di cose.
Puoi giurarci.
E ti stai ancora divertendo.
Sì. Ma ehi, non ho ancora una Ferrari. Male.
Dai che poi parcheggiarla è un casino.
Ma no, ma no. Me la caverei.
E poi ti tocca stare sempre in pensiero, magari te la rubano…
E le assicurazioni che ci stanno a fare, allora?