Dopo una lunga malattia che, oltre proprio ad un’inclinazione caratteriale personale, lo aveva spinto progressivamente lontano dai palchi, è morto uno dei più grandi tastieristi dal dopoguerra ad oggi: Lyle Mays. Per molti il suo nome non dirà molto, o non dirà troppo, ma aggiungendo che si tratta dello storico collaboratore di Pat Metheny più di una lampadina si accenderà. Ma si accenderà, in parte, male. La debordante personalità di Metheny (e, diciamolo, il suo talento unico ed enorme) ha spesso messo in ombra l’incredibile lavoro di Mays agli arrangiamenti e, soprattutto, alle armonizzazioni. Qualcosa che parte dal jazz, ma che più di una volta lo ha travalicato, inserendo elementi che potevano andare da echi beatlesiani alla classica colta – dando al tutto in qualche modo un sapore di “futuro”.
Sì, questo si tende a dimenticare, pensando all’esperienza del Pat Metheny Group, con un suono che via via è diventato canonizzato: quando esso è apparso, è stato una vera e propria svolta nell’universo jazz, introducendo un “salto in avanti” come visione sonora che aveva pochi uguali; il primo, vero salto in avanti dopo la stagione “storica” del jazz-rock, prima cioè che diventasse fusion di maniera. Per certi versi anche il suono methenyano è diventato “maniera”, ma nulla toglie alla grandezza e alla portata rivoluzionaria di dischi come “Offramp”, “Travels” (album doppio di registrazioni live e, permettete la nota autobiografica, il disco che chi vi sta scrivendo ha ascoltato di più in vita sua), “First Circle”.
Alla sua maniera, Mays ha introdotto nell’universo-Metheny una vibrazione cosmica, astratta, visionaria ma al tempo stesso raffinatissima e rispettosa delle tradizioni. Come lui, nessun altro. Non ha mai voluto mettersi in primo piano, e solo raramente si è concesso degli assoli, nei suoi brani: forse per questo motivo non è mai stato sullo stesso piano di uno Joe Zawinul ma, sinceramente, fra le persone che hanno cambiato il jazz imponendo una impronta personale e nuovi stilemi – qualcosa che è destino di pochi – noi vorremmo inserire assolutamente anche lui.
Lo vogliamo ricordare con una delle collaborazioni più intense con Metheny: una traccia – qui nella sua versione dal vivo – dove la chitarra di Metheny c’è solo nell’intro e dove i due lavorano poi su arrangiamenti, armonizzazioni, atmosfere cinematiche, contaminazioni. Una traccia incredibile. Che lascerà a bocca aperta chi di Metheny ha una conoscenza solo superficiale, legata a “Last Train Home” e poco altro. Una traccia che spiega bene a quale “quarta dimensione” Mays poteva portare il suo socio. E prima di riascoltarla, vi consigliamo assolutamente di recuperare il primo disco da solista di Lyle, con una formazione di altissimo livello (e con momenti di suggestione assolutamente incredibili).
Riposa in pace, Lyle. E grazie per i sogni e capolavori in suono.