Non siamo soliti intervistare qualcuno band o singolo che sia ad ogni uscita, non succede davvero quasi mai; facciamo però eccezioni quando ci troviamo davanti a qualcosa di grosso. Qualcosa di grosso i Calibro 35 l’hanno fatto per davvero col loro nuovo lavoro, “Momentum”, mettendosi al passo con la modernità – pur rimanendo affezionati ad un approccio vintage fatto da musicisti vintage. Il risultato è abbastanza clamoroso per compattezza e solidità, diventando quasi una prova di forza. Per questo motivo siamo andati ad intervistare Tommaso Colliva direttamente nel suo nuovo studio milanese, uno dei componenti della banda, uno che oltre ai Calibro 35 fa un sacco di altre cose tipo vincere un Grammy con i Muse, collaborare con Dr. Dre o Timbaland o produrre Ghemon.
“Momentum” è una prova di forza, forse la più forte fatta dai Calibro 35…
Penso sia uno statement: non mi piace usar le parole in inglese, ma non ho l’equivalente italiano. Penso che sia uscire dalla nostra comfort zone, ecco. Di sicuro non è una scelta facile; è una scelta che ha un po’ di intrinseco coraggio, ma che ti viene quando sei curioso. Noi dobbiamo avere un motivo per vederci: Calibro 35 non è l’unica cosa che facciamo, per nessuno di noi lo è. E’ importante anche per me che cordino tutto chiedersi: “Questa cosa per noi è interessante farla? E’ figo?” se la risposta è sì lo facciamo, e so che è interesse di tutti fare roba bella che ci piace. E’ anche un limite di Calibro il fatto che, senza sembrare oltranzisti, è un progetto poco commerciale e non è nemmeno un progetto che ci rende ricchi. La sfida ovviamente fa parte di questo, dire facciamo una roba che non abbiamo mai fatto, facciamo un disco che non cita il passato, che non è un “come se fosse“, ma è proprio la fotografia di come siamo.
Gabrielli mi disse “Vedi noi siamo come gli Xmen, o come quelle bande criminali dove ognuno è esperto in qualcosa“. Allora mi viene da dire che la banda aveva bisogno di un grosso colpo: perché non fate colpetti da nulla, non fate colpetti da pochi euro (stando nella metafora), ci vuole un colpo anche a suo modo particolare…
Assolutamente! Poi sai, noi siamo Calibro, abbiamo definito già i paletti di ciò che siamo. In questo momento questo volevamo fare questo, cosa succede tra un anno? Non ne ho idea. Anzi aspetta, lo so: tra un anno ci troveremo qui a pensare a qualcosa di diverso. Non replicherei questo disco, non lo voglio replicare.
Due anni fa dopo l’uscita di “Decade” e dopo un successo a mio avviso clamoroso, avevate in mente di fare un disco così?
No, è capitato, ed è capitato per questo studio qui, in cui stiamo parlando ora. E’ capitato perché io dopo sei anni sono tornato in Italia rilevando questo studio che è lo studio dove sono nati Calibro 35. Avevo bisogno di un progetto per testare di nuovo questi spazi e ho chiamato gli altri. In realtà, c’era una concomitanza: ci dovevamo vedere per qualcosa di altro, ci siamo visti e in due giorni sono venuti fuori sette pezzi. A quel punto abbiamo detto “Ok, abbiamo qualcosa!“. Successivamente abbiamo fatto un’altra sessione dove abbiamo fatto gli altri pezzi e infine io ho fatto un po’ di post produzione, che è una novità per Calibro 35, perché i dischi prima di pre produzione non avevano nulla.
Non replicherei questo disco, non lo voglio replicare
Voi avete sempre avuto un approccio molto vintage, nel senso che siete musicisti tradizionali, Enrico Gabrielli mi raccontava che lui scrive le note sul pentagramma sapendo già come suonano. L’approccio vintage sicuramente è rimasto, perché non credo abbiate acceso i laptop o altri macchinari “moderni”, però come fa un gruppo che suonava dal passato a diventare così moderno? Certo c’è l’esperienza dei grandi musicisti…
Non è così, l’esperienza in questo caso gioca poco. Quella che hai appena detto è la sfida filosofica di questo disco. La sfida filosofica di “Momentum” non è “…facciamo un disco non retrò perché ci siamo stufati di quei suoni“. La sfida è: siamo cresciuti umanamente e come progetto musicale, il mondo intorno a noi è cresciuto e cambiato. Le scelte sono due: o ci rintaniamo nelle caverne a guardarci e a dirci che suonare gli strumenti in un certo modo è sempre più figo e guardiamo solo noi stessi, oppure ci rapportiamo con tutta la musica che ci gira intorno e cerchiamo di capirla e di confrontarci. E’ vero, non abbiamo tirato fuori i laptop e fatto quella cosa che non funziona, ovvero: se non sei un drago e non sai bene che cosa stai facendo, fare musica loop.based funziona abbastanza male. Ovviamente se sei Jon Hopkins, tiri fuori sempre il capolavoro, ok? Ma se sei un uomo d’altri tempi, come ormai stiamo diventando noi, non è che puoi prendere le ultime tecnologie, usarle male e pensare che vengano fuori cose fighe. Abbiamo fatto un discorso diverso: abbiamo selezionato delle cose che ci piacevano, e abbiamo deciso di suonarle come le suoneremmo noi.
Vi siete mai chiesti se qualcuno potrebbe pensare ascoltandovi “Ah ma cazzo si può fare anche così“, e ti cito un titolo dell’ultimo lavoro tipo “Fail It Till You Make It” dove voi andate a mettere un bel punto su un certo modo di fare beat making…
Ma sai, comunque stiamo parlando di alcuni capitoli di questa modernità che vanno in giro da vent’anni, non è chissà cosa di nuovo: il fatto che noi non li tocchiamo è un altro discorso. Io penso che anche alcune frange più attuali di quella scena stanno convergendo verso una musica più suonata, vedi “Compton” di Dr Dre o anche “To Pimp A Butterfly”: sono lavori pieni di musica suonata. Devo dire ad ogni modo che da parte nostra non c’è alcuna velleità o volontà di dire “Noi siamo i più bravi“, o di voler insegnare nulla a nessuno.
Questo è sempre stato così…
Forse sì, hai ragione, ma ancora di più in questo disco io non mi sento di dover dimostrare a qualcuno che sono io il più bravo, o che qualcuno è più bravo di me. Credo che a livello di gruppo ci sia uno scarto di maturità piuttosto grosso, rispetto al passato. Credo sia anche coerente con una a certa maturità: bene o male quando diventi adulto non cerchi di affermare la tua personalità in ogni cosa che dici perché sei in pace con il fatto che ogni volta che parli, userai la tua voce. Io collaboro con i Calibro su un sacco di progetti, quindi li conosco anche al di fuori di Calibro 35 in maniera abbastanza definita. So che quando ci vediamo come Calibro 35 siamo i Calibro 35. Fabio, per dire, quando suona con i Calibro, suona in maniera diversa da quando non è con i Calibro.
Ai tempi di “Decade” si era detto: questo è un disco per rapper dove non ci sono i rapper. La sensazione che avevo avuto con Enrico, anche nella precedente intervista, era quella di dire: non ci sono i rapper dentro “Decade” non perché non vogliamo i rapper, ma quanto perché in Italia non troviamo rapper adatti alla musica dei Calibro 35. Ora, tu collabori e produci molti rapper, allora ti chiedo è giusta questa mia supposizione?
Non del tutto. Penso ci sia un gran valore in molti rapper qui in Italia. Penso però anche che alcuni processi abbiano bisogno di una certa gestazione. Il rap in Italia esiste in maniera molto forte da metà degli anni duemila, il rap in America esiste in maniera molto forte dall’inizio degli anni novanta: credo sia normale che alcuni processi siano più lunghi. Io sono un grande fan delle collaborazioni win-win dove però dobbiamo averne voglia tutti, non mi va di fare le cose con i rapper solo perché questo anno va di moda, sarebbe un errore enorme. Voglio fare una cosa per cui se trovo un rapper che mi dice “Mi piace la roba che fai facciamo qualcosa insieme” in un sentimento reciproco, allora si può fare. L’abbiamo fatto l’anno scorso a Sanremo con Ghemon, che voglio dire: quanta pubblicità potremo mai portare noialtri a Ghemon a Sanremo? Zero!
In una certa bolla tanto, perché è un riconoscimento…
Vero, ma avendo lavorato con Gianluca per tre dischi ti dico che ci vuole uno come Gianluca per capirlo, possiamo farlo solo se trovo persone come Gianluca. Tornando alla tua domanda: penso, presumo e posso supporre, che succederà prima o poi, semplicemente ora i tempi non erano maturi per farlo. Dobbiamo fare anche molta attenzione a non rinchiuderci troppo in Italia, perché molta parte del nostro pubblico non è italiano.
Beh, anche perché se no non è che vai da Illa J e gli dici vuoi suonare nel disco dei Calibro 35 così. Sono sicuro che in una certa scena o comunità americana i Calibro 35 siano ascoltati, senza dover per forza citare Jay Z o Dre: avete pensato di prendere più rapper internazionali per questo disco?
All’inizio c’è stato un po’ questo discorso, poi ci siamo detti che far uscire un disco tutto con i rapper, di nuovo, era una scelta scontata, già fatta, con dischi in giro che sono anche dei capolavori. Ci siamo detti: “Rifacciamo “Blacrock“? Sì ,si può fare, ma l’idea era quella di fare un disco nostro. Ti do un’informazione in più: la scelta di non chiamare i rapper è l’idea di base di “Death Of Storytelling”, quando inizialmente volevamo qualcuno che ci rappasse sopra e poi ci siamo detti è già bello così, non serve.
(Eccolo, il nuovo uscito “Momentum”; continua sotto)
Però io se fossi un rapper e volessi veramente avere una strumentale su cui trovare un certo flow, probabilmente userei “Fail It Till You Make It”, soprattutto per fare rap su un groove non preimpostato come quelli che girano adesso…
L’idea era proprio quella! So che sto andando un po’ new age, ma io sarei contentissimo se succedesse una cosa del genere. L’incontro tra me e Ghemon e la continua collaborazione che ci lega, al di là dell’amicizia, nasce proprio dall’idea del win-win di cui parlavamo prima.
Da produttore che ha vinto un Grammy, non hai la sensazione che molti rapper italiani vadano un poi con il freno tirato perché c’è un certo contesto, una certa serie di convenzioni che ti impongono di andare con il freno tirato?
Non lo so, non sono abbastanza esperto, non seguo abbastanza tutta la scena rap. Mi capita di intercettare e sentire tante cose che mi piacciono tipo l’ultimo di Marra, o le cose di Ensi; è uscita l’anno scorso Madame che è bravissima. Ci sono i Colle che mi emozionano…
Anche quando senti i beat dell’ultimo disco?
Beh, sono beat un po’ old school ma venendo da quella roba lì, li trovo molto congrui. Sono molto felice che i Colle ci siano e che siano ancora così freschi: non puzzano di armadio in nessun modo. So che c’è anche molto altro in giro, ma non sono cose che ascolto. il capitolo rap continua ad essere un mio guilty pleasure
Addirittura?
Io vengo da lì, ero un b-boy, l’hip hop mi ha fatto crescere, è un lato della musica dove ascolto ciò che mi va. Mentre per tutto il resto della musica è ovvio che se non sono un po’ puttana, quello no, ma almeno mi devo tenere aggiornato, con il rap invece non me ne frega un cazzo, faccio un sacco di beat hip hop che tengo per me.
Strana questa congiunzione per cui tu b-boy sei finito nei Calibro 35 e David Nerattini, b-boy e forse anche molto di più, è finito ne La Batteria…
Io ho imparato tantissimo da David Nerattini, non l ho mai incontrato ma la metà delle cose che so sul rap e sulla black music dipendono da David Nerattini e Alberto Castelli. Loro due soprattutto da ragazzino erano la mia bibbia.
Prima mi hai detto questo disco nasce da dopo il tuo ritorno da Londra, secondo me questo lavoro porta molto ella scena londinese, mi vengono ad esempio in mente i Comet Is Coming…
E’ vero, è una scena che mi ha colpito tantissimo. Mi sono trasferito a Londra tra il 2013 e il 2014, quando usciva il primo disco dei Sons of Kemet, se ti devo dire cosa mi ha colpito di quella scena non posso non citare questo disco. i Comet is Coming hanno colpito più Max. Una delle mie più grosse soddisfazioni a Londra è stato suonare con i Calibro 35 in posti importantissimi come il Total Refreshment Center. Non so dirti cosa di preciso mi sono portato dietro, forse era perché ero a Londra io, forse perché negli ultimi anni il jazz da una parte e il rap dall’altra in Inghilterra stanno facendo uscire in posti così cose favolose e che sono d’ispirazione. E’ un disco più di ispirazione inglese che americana.
Pensa che quando avete annunciato l’album, vedendo copertina e titolo del primo singolo, ho pensato avreste fatto qualcosa di molto molto americano. Invece è un disco molto molto inglese. L’inserto elettronico di “Thunderstorm And Data” è figlio di quella scena lì, siete stati combattuti su quella parte della traccia?
Hai ragione, ma è una riflessione che faccio e a cui arrivo proprio in questo momento con te. Se parliamo degli ultimi due tre anni, la gran parte delle cose che abbiamo condiviso non è americana è inglese o world music largamente intesa, ma molte cose hanno piuttosto una radice molto forte nella golden age dell’hip hop anni novanta. “Thunderstorm and Data” in particolare è un pezzo che nasce da un beat che faccio io (…come ti dicevo prima, quello rimane un mio piacere intimo e personale). Nel tempo libero ho sempre fatto le mie cose che mi tengo nel cassetto. in un periodo di brainstorming con i Calibro sono andato in quel cassetto a vedere che c’era e ho tirato fuori dei pezzi da far suonare. Il primo è stato “Modular” su “Decade”; “Thunderstorm and Data” è esattamente la stessa cosa e se senti il provino ti accorgi che è un beat di un ragazzino di sedici anni ispirato, o per lo meno quello sembra, agli OGC, questo gruppo super underground. C’è un po’ di diatriba su questo, io ti dico “90’s hip hop” come riferimento sopratutto per alcune cose, ma ascoltando i pezzi del disco soprattutto quelli più da jam devo dire che sono molto “tortoisiani”, e lo sono perché molti di noi da lì arrivano. Queste cose succedono quando davvero fai musica senza regole di impostazione precisa. Non facciamo punk rock, non facciamo soul, guardiamo molto alla scena soul, ma non siamo soul.
Ai vecchi puzzoni inglesi e italiani che già con “Decade” storcevano il naso, perché troppo contaminato, che si dice…?
Sono molto pacifico su questa cosa! Quando abbiamo iniziato con i Calibro, i primi due dischi di Calibro sono molto riferiti ad un immaginario preciso e mi aspettavo in effetti di diventare un gruppo di nicchia per gli appassionati di quell’immaginario. Invece, abbiamo avuto la fortuna per cui alcuni appassionati di quel genere lì hanno capito cosa facevamo e ci hanno lasciato lo spazio. Gli altri, giustamente, hanno semplicemente deciso di non ascoltarci, e ci sta. Con la legittimità di un ascoltatore di non piacere e di non ascoltare ciò che non piace o più non piace, sono molto in pace. Preferisco questa dinamica a dover essere una tribute band…
Ti faccio una domanda che nasce da una considerazione che credo sia diventata un mio grande classico: ti manca un po’ il fatto di non essere americani, perché se lo foste magari sareste da Jimmy Fallon tipo The Roots?
Ti dico: a me no, ora come ora. Prima di tutto perché ho imparato a non mettere più quello che è di mio personale nella band, perché se no (ed è successo…) diventa fonte di frustrazione infinita. Poi sai, ognuno di noi è curioso e gira, io ho vissuto a Los Angeles come a Londra, e mi accorgo di come trasferivo la mia immaginazione nei posti in cui andavo a vivere e quanto poi, alla prova dei fatti, mi sbagliavo. E’ vero: da un lato potresti essere americano e suonare da Fallon, da un altro chi mi impedisce di mettermi nel mio studio a Milano e fare “Momentum”? E’ uno spazio che ognuno si crea personalmente.
Non posso non parlare anche di te specificatamente: sei uno che ha una pagina lunghissima su Wikipedia. Prima di continuare le sviolinate però torno alla frase di prima in cui mi hai detto “Io sono stato un b-boy“. Allora ti chiedo: senti un po’ di aver realizzato i tuoi sogni? Quando eri b-boy avresti mai pensato di collaborare con Dre ad esempio?
E’ stato molto buffo, Timbaland ha campionato Calibro e poi io ho lavorato con Timbaland ad un pezzo dei Muse…
Be’ torna un attimo a quando sentivi Timbaland con Missy…
Io è da quando ho venticinque anni che ho realizzato il mio sogno, che era quello di campare facendo musica. Non avevo altri sogni. Non volevo conquistare l’Empire State Building. Una delle cose interessanti rispetto a quello che dicevi prima anche a proposito del Grammy è che io non ascoltavo la musica che vinceva i Grammy, no: io a scuola ero quello strano che ascoltava un’altra musica, per cui il mio sogno non era tanto vincere un premio come quello ma, semplicemente, fare dischi. Non ho mai avuto il sogno del successo, ma di fare cose belle sì: suonare alle feste un disco che non aveva nessuno per avere il brivido, ad esempio.
Ora cosa ti dà quel brivido…
Questo è interessante. Credo me lo dia il cambiare sempre, fare sempre cose diverse, e un’idea chiara l’ho avuta quando abbiamo registrato “S.P.A.C.E. al Toe Rag Studio a Londra. Il Toe Rag Studio a Londra è questo studio super hardcore sul vintage, bellissimo davvero, è un tuffo in un certo passato. Poi capisci che il fonico che lavora in questo studio per tutta la vita non farà altro che fare dischi come quelli che suonavano negli anni settanta, e… beh, io mi sparerei il giorno dopo. Mi piace imparare, e fare dischi in maniera molto diversa, ogni volta.