Parlando a carte scoperte: per chi scrive, gli anni in cui la minimal tech-house imperava sono stati per lo più anni di, insomma, non di zozzeria, ma di musica sempre più noiosa, prevedibile ed uguale a se stessa sì. Qualche volta anche nei casi migliori (tradotto: anche Villalobos ogni tanto lo trovavo davvero noioso e poco significativo, figuriamoci quelli meno bravi e geniali). Solo due nomi hanno sempre drizzato le mie antenne e mi hanno fatto innamorare dei loro set: Wighnomy Brothers (ok, quando Robag non aveva bevuto troppo…) e i meravigliosi Minilogue. Sebastian Mullaert, che dei Minilogue era la metà, quando ha (ri)preso la sua strada da solista ha continuato a riempirmi il cuore, per la sua capacità di avere sempre un tocco personale da un lato, dall’altro per la sua volontà di scegliere della strade non scontate, di imbarcarsi in imprese inutilmente complicate, come ad esempio Circle Of Live (ve ne abbiamo parlato qui). Sabato 22 febbraio Sebastian sarà ospite di quel posto incredibile che è il Circolo Masada, a Milano. Lì, presenterà una performance unica, in quel gioiello che è l’appuntamento targato Acquario: dal primissimo pomeriggio fino a mezzanotte, o giù di lì, senza soluzione di continuità. Lo farò portando la sua identità artistica più eterea, sognante e sperimentale, WaWuWe, dove comunque la musica non sarà certo solo ambient ma sarà pensata a come esperienza totale ed immersiva a trecentosessanta gradi (cassa in quattro compresa, ma sarà solo un ingrediente fra tanti). Per celebrare e presentare a modo questo appuntamento davvero speciale, ci siamo concessi una lunga telefonata con Sebastian. Dove si parla della data milanese, si parla del suo nuovo progetto con un ensamble di musica classica (c’è un album in uscita il 3 aprile, a titolo “Natthall”: non perdetevelo, e se potete non perdetevi la premiere dal vivo assoluta), si parla di cosa significhi essere adolescenti e di cosa essere adulti. E del come techno e house abbiano un po’ perso il senso di “futuro”. Ma non è per forza un male.
Allora, cosa dobbiamo aspettarci da questa esibizione milanese al Circolo Masada? Perché so che sarà qualcosa di abbastanza particolare… è infatti un po’ che non porti in giro il progetto WaWuWe, se non sbaglio.
Eh sì. Che poi, quanto devo suonare? Qualcosa come dieci, undici ore, esatto?
Mi sa di sì, qualcosa del genere. Son tante!
Accidenti se sono tante! In effetti set di questo tipo non sono così frequenti. In primis perché, come ovvio, ti portano via veramente tanta energia mentale; ma la cosa buona con questo tipo di performance dalla durata anomale ed estesa è che se da un lato ti si succhia via energia, parecchia, devi essere creativo e concentrato per un sacco di ore, dall’altro però te ne arriva altrettanta. Soprattutto quando sei da solo, come sarà il caso a Milano al Circolo Masada: lì si trasforma tutto in un viaggio molto introverso, devi concentrarti su te stesso, sui tuoi pensieri, sulle tue intenzioni ed intuizioni, ma al tempo stesso è un viaggio anche schiettamente estroverso – perché comunque hai un pubblico di fronte a te, che vuoi coinvolgere. Cosa succederà nello specifico, dal punto di vista della scelte musicali, non lo so; anche perché di sicuro ci sarà molta improvvisazione, molte scelte fatte sul momento a seconda dell’energia che si ricrea nello spazio. WaWuWe, ma direi proprio in generale la mia musica, è qualcosa che vuole essere profondamente organico, abbastanza ipnotico, di tanto in tanto melodico. Poi figurati, quando le ore a tue disposizione sono tante, come in questo caso, diventa inevitabile spaziare veramente tanto. Ci sarà non solo materiale WaWuWe, ma sicuramente anche qualcosa di più vicino alla classica contemporanea o alla pura ambient… sarà un lungo viaggio, sì.
In una intervista di un paio d’anni avevi addirittura usato il concetto di “noia” per descrivere la tua musica, ma occhio, avevi sviluppato il discorso in una maniera molto interessante.
Ma infatti la prima cosa che voglio dire è che per me coinvolgere il pubblico è sempre una priorità! Non è che rivendico la “noia”, almeno non nel senso in cui viene comunemente intesa. Quello che intendevo ed intendo dire, è che io trovo molto affascinante dare vita ad una musica che, in qualche maniera, lasci spazio all’ascoltatore: che sia in qualche modo non “completa”, che per certi versi sia solo una “base” che poi ognuno può e deve integrare col suo pensiero, con la sua ispirazioni, con le sensazioni che ha mentre ascolta. La musica deve essere invitante, devi spingerti a provare a “raggiungerla”, ad “entrarci”, ma una volta che ci sei dentro è bello che tu abbia dei momenti in cui pensi “Beh, ma ora cosa succede? Io, cosa potrei far succedere? Cosa ci metterei qui?”: in questa maniera vieni in qualche modo chiamato ad essere parte attiva e, spero, vieni insomma coinvolto maggiormente, diventi co-creatore. Il contrario della “noia” insomma, visto nell’accezione più comune del termine. E’ bello che l’ascoltatore non sia solo un fruitore passivo, no?
Forse l’accezione più tradizionale di “noia” lo potremmo usare per alcune dinamiche che hanno preso il sistema del clubbing… a partire dai livello più alti. Anzi, l’impressione è che “noia” sia quelli che tu provi per contesti che una volta frequentavi assiduamente, ai tempi d’oro dei Minilogue: Cocoon, Ibiza, eccetera… e che ora mi sembra ti attraggano molto meno. Immagino perché li trovi meno stimolanti.
Mah, guarda… Non è che nei club non ci suoni più. Faccio ancora festival, anche importanti, grossi, e mi può capitare pure di essere sul Main Stage; insomma, non è che mi sia completamente staccato dai circuiti più tradizionali. Né vorrò mai farlo, finché possibile. La differenza rispetto a dieci, quindici anni fa è che ora sono molto focalizzato nel prendermi io la facoltà di scegliere, di volta in volta, dove andare: quindi scelgo di andare lì dove so che posso essere capito ed apprezzato, indipendentemente dal contesto. La nascita del progetto collettivo Circle Of Live serve anche a questo, perché è un progetto modulabile che può andare bene sia per situazioni raccolte che per grandi palchi di fronte a migliaia di persone – e sono io a decidere di volta in volta qual è l’articolazione migliore, a seconda degli ospiti che chiamo data per data. La stella polare è sempre la stessa: la condivisione. Ma puoi farla in contesti molto diversi fra loro. Anzi, io ho sempre voluto e sempre vorrò suonare in situazioni differenti, che di volta in volta rappresentano un cambiamento e una sfida rispetto alla volta precedente: questo ti permette non solo di tenere viva la tua arte, ma anche di raggiungere persone differenti fra loro, non parli sempre ai “soliti”, non ti rifugi nelle certezze. Se prendiamo questa data di Milano, ha delle specificità ben precise: un posto piccolo, intimo, accogliente, praticamente un salotto, e ad organizzare il tutto un promoter davvero genuino ed appassionato. Poi magari fra qualche giorno sarà il turno di una data con un promoter altrettanto appassionato, ma abituato a lavorare in contesti più ampi, da club vero e proprio, con un certo tipo di impatto: va bene uguale, anzi, questa diversità è ricchezza, mi arricchisce. Anche perché questa diversità è libertà. E’ la libertà di scegliere. Di esplorare. Di non essere legato ad un unico contesto, ad un unico filone. Ed è questa libertà che mi permette, dopo tutti questi anni, di essere ancora molto felice di creare musica.
(Un filmato storico: un live dei Minilogue approntato per Ableton più di cinque anni fa; continua sotto)
Però mi verrebbe da dire che tu, con questo approccio, sei più una eccezione che la regola, ormai, se guardiamo al panorama generale.
Immagino di sì. Le cose cambiano: anche le scene musicali, e le dinamiche che le percorrono. Oggi, nei campi house e techno, credo sia diventato molto più difficile rispetto al passato poter essere autonomi, liberi, sfuggire alla morsa di ciò che è popolare, di ciò che funziona, di ciò che è di successo. Soprattutto se sei arrivato ad una età come la mia e ad uno stadio di carriera come il mio, tenersi fuori da queste dinamiche è dannatamente più complicato oggi che dieci o quindici anni fa. Ti piace questa cosa? Non ti piace? Intanto, è così. Il risultato è che se ti vuoi mantenere libero nelle tue scelte devi faticare molto più di prima, fare più rinunce di prima. Non solo: un tempo potevi calibrare tu bene il tuo livello di coinvolgimento in un certo tipo di dinamiche “industriali”, oggi questo tipo di margine si è molto ridotto – o sei dentro e giochi al gioco, o sei tagliato fuori da tutto. Ritagliarsi una posizione mediana, in questo gioco di estremi, è diventato davvero più difficile. I trend sono diventati molto più importanti, inseguirli (o anticiparli) è diventato uno skill necessario come mai in passato; ma questa accresciuta velocità significa anche che sempre più spesso ci sono artisti che per due, tre anni sono ovunque, tutti li cercano tutti li vogliono, poi all’improvviso sembrano non interessare più a nessuno. E ci puoi fare poco.
Tutto questo mentre tu hai trovato un modo di resistere, un modo di evitare – per quanto possibile – queste polarizzazioni. Ma se ti guardi indietro, ci sono delle cose che mancano? O qualche scelta che col senno di poi rimpiangi?
Intendi come musicista?
Sì, essenzialmente sì, ma se vuoi estendere il discorso…
Proprio in generale, io cerco di non avere questo tipo di approccio. Preferisco concentrarmi sul presente, e capire come agire su di esso per avere degli effetti positivi sul futuro. Se mi concentro bene sul qui&ora, posso avere un quadro più chiaro su come usare in maniera costruttiva le mie energie per creare qualcosa che sia utile sia per me che per gli altri. Tanto il pattern che segue le nostre vite è unidirezionale: quello che siamo adesso è frutto delle nostre scelte passate. Tu puoi anche iniziare a dirti “Eh, ma ma magari in passato avrei potuto fare questo, avrei potuto fare quello, ora le cose sarebbero diverse”, ma a che serve? Le cose sono come sono. Non ci puoi fare nulla. Quindi spostare le tue energie mentali per pensare a come avresti dovuto agire in situazioni su cui non puoi più fare nulla è perfettamente inutile, no? E’ proprio questione di indirizzare le proprie energie nella direzione giusta. Lì dove sono utili, lì dove possono creare e generare qualcosa. Questo non significa che non si sbagli mai, tutt’altro: sapessi quanti errori ho fatto. Il punto è che si tratta di capire che nessun viaggio nella vita è perfetto, ma al tempo stesso nessun viaggio nella vita è imperfetto – è semplicemente quello che è, ecco. Accettare quello che hai, quello che stai vivendo, è il modo migliore per avere più probabilità – e più risorse dentro di te – per costruire qualcosa di positivo per il futuro. Gli errori fanno parte del gioco, ma non vedo nessun utilità nel fissarsi su di loro: tanto non puoi tornare indietro. Puoi solo usarli come insegnamento, per non rifarli più in futuro, ma non devono condizionare la tua esistenza. Ma mi sono capitati gli errori, e altri ne capiteranno. Di più: quando capitano possono essere una fortuna, perché ti rendono più chiaro il modo per evitare di farne in futuro.
Ecco, a proposito di futuro: per tutti le persone della mia e tua generazione, house e techno erano “il futuro”, le musiche del qui&ora o addirittura delle utopie a venire. Oggi, quanto è ancora rimasto di tutto ciò?
Se ripenso a come è nato il mio rapporto con la musica elettronica, con house e techno, penso a quando da teenager ho iniziato ad andare ai primi rave: sensazioni indimenticabili, che ancora oggi mi porto dietro e che ancora oggi identifico chiaramente come ciò che mi ha spinto a fare nella vita tutto quello che ho fatto finora. Sensazioni che dividerei in tre declinazioni specifiche. La prima: l’energia liberatoria del ballo, qualcosa che se ci pensi è immediato, fisico, istintivo, che va al di là di ogni discussione su generi musicali o su commerciale o non commerciale. La seconda, è essere parti di una subcultura, di una cerchia di persone con interessi che senti “tuoi”, che senti come diversi e qualificanti rispetto agli altri, al resto del mondo, che ti danno un grande senso di orgoglio ed appartenenza. Terza declinazione, infine, è il fascino di “novità” e “futuro” che la techno, l’house, i rave e il clubbing si portavano dietro. Queste tre declinazioni, mescolandosi fra di loro in un’unica cosa tutte insieme, hanno avuto un impatto enorme su di me. Ma oggi? Ragioniamo sempre seguendo questo trittico: il ballo, per me è ancora una componente fondamentale, che amo inseguire ed evocare con la mia musica, anche se non è più una priorità o una necessità. L’appartenere ad una subcultura invece, beh, sai, non avendo più sedici o diciassette anni per me è diventato abbastanza poco rilevante, com’è giusto che sia, perché all’età che ho non è più il mio ruolo creare qualcosa di diverso, di divisivo, che segna dei confini, che costruisce delle identità, ma proprio in generale non è compito mio essere “diciassettenne in eterno”, con tutto ciò che questo significa ed implica. Quello che posso fare, a livello di ricerca della novità, o meglio, di avere una mentalità sempre sveglia e dinamica, è saper muovermi in contesti diversi, evitare la routine e i meccanismi troppo prevedibili – ed è qui che entra in causa il fatto che tu mi possa vedere un giorno in un club “normale”, il giorno dopo a Masada, il gioco dopo ancora ad un festival, il quarto giorno in un teatro alla guida di un ensemble classico. Questa è la miglior forma di “resistenza” che posso avere ed offrire, credo. Infine, c’era la terza declinazione, quella del futuro: vero, in passato era una componente molto importante, ora – parlo per me a livello personale – ciò che conta non è che una cosa sia nuova, ma piuttosto che sia adatta per il contesto in cui viene rappresentata ed eseguita e se aiuta a raggiungere gli stati emotivi e le vibrazioni che io desidero vengano raggiunte. Un tempo era molto importante per me capire se una cosa era nuova, fresca, inedita, di rottura; oggi mi interessa di più capire se è appropriata, se raggiunge le persone nel loro profondo.
Abbiamo ancora qualche minuto, e so che ora hai paura che ti chiederò qualcosa su quando torneranno i Minilogue…
(Grande risata, NdI)
…invece la domanda è leggermente diversa: ti verrà mai voglia di tornare alle origini, ovvero di riprendere in mano strumenti veri e propri, non mixer, synth e software con cui agire digitalmente o comunque elettronicamente sulla musica?
Per certi versi, lo sto già facendo. Perché se da un lato comunque il mio ruolo è sempre di stare dietro a mixer, synth e software, dall’altro mi sto dedicando tantissimo al mio progetto assieme ai musicisti classici della Tonhalle Orchester di Zurigo, a cui ti accennavo prima. Siamo come una piccola band: chitarra, percussioni, pedalistica ed effetti, viola, clarinetto, arpa… un organismo musicalmente complesso. Io tecnicamente magari mi ritrovo a non suonare, in molti passaggi, ma in tempo reale mixo quello che suonano gli altri e magari costruisco pure dei loop campionandoli, sempre in tempo reale. In questa maniera, il mio ruolo è molto performativo, arriverei a dire da strumentista vero e proprio; al tempo stesso, per i miei colleghi di band è una esperienza molto particolare e a cui non erano abituati. Loro usavano anche in passato effetti, pedali, loop, ma la differenza fondamentale è che erano loro a controllarli in prima persona e loro a decidere cosa fare: ora invece devono abbandonarsi al fatto che sono io a gestire tutto questo. Loro suonano, ma sono io che ne mixo il suono, o che decido quanto mettere in loop una loro frase, quanto farla durare, come deformarla ed estenderla. Devo dire che reagiscono in maniera entusiasta, a questo: invece di essere gelosi di quello che fanno, colgono l’aumentato potenziale creativo di un processo di questo tipo. Un’altra cosa interessante da dire è che mi sono talmente innamorato di questo modus operandi da essere riuscito a stabilire un set up, a livello di microfonature e schede audio, per cui potrei permettermi di approcciarmi a qualsiasi tipo di band, sapendo più o meno sempre come fare per essere utile alla causa. Non solo un ensemble classico, quindi, ma potenzialmente anche uno rock o, che ne so, world.
Mi sembra un approccio concettualmente molto jazz.
Sì. Il jazz più legato all’improvvisazione. Questo come concetto. A cui applico a livello di sonorità la mia visione di “insieme”, di costruzione cioè del mix, che è parecchio mutuato da dub e reggae, a livello di uso degli effetti e riempimento degli spazi. Ecco, sai che forse sono riuscito a dare una discreta spiegazione della mia musica, e di come la immagino e faccio? Non male, non ci speravo…