[…] Pochi scatti, poche foto nel cassetto
Le mie felpe, i miei booze, il mio cazzo di berretto
Già, il rap, i miei pantaloni larghi […]
Hip hop 101: il rap italiano spiegato ad un estraneo in materia avrebbe probabilmente i connotati delle barre riportate qui sopra, prese da “Tell Me” di Palla & Lana del lontano 2006, impregnate di un liscio storytelling delle origini che per il carico strutturale, quello lirico e quello figurativo fa spuntare tutti i quadratini sulla check-list del genere. È l’old-school hip hop il movente, quello di Mecca e Timberland vestito, che spruzza vita inchiostrata in freestyle improvvisati su basi skretchate e bum-cha dei beatbox, qualcosa che ha inglobato sotto un unico immaginario un genere musicale ben più vasto di un paio di reference visivo-uditive.
Rapporta la suddetta figura nel 2020 e cosa viene fuori? Errore di sistema: glitch su schermo bloccato, Page Not Found. Come mai? Al banco degli imputati abbiamo la trap: che viene additata non solo come fautrice di un golpe cannibalistico di categoria ma anche come una controparte sui generis fatta di Rolex al polso, rime su soldi&sesso&droga strizzate in note sull’iPhone e stridente autotune su basi sintetiche. Il rap è morto, la trap ha ucciso l’hip hop è morto e nemmeno io mi sento tanto bene (a sentire queste apocalittiche prese di posizione). “Unità divise come lo yin e lo yang” per riportare Neffa e Deda in “Guerra e Pace”, “[…] dilemma interno, bene male paradiso e inferno […]”: due entità a sé stanti, di cui la prima, in ordine di successione temporale e sul gradino più alto del podio emozionale, rappresenta il polo positivo di una pila la cui controparte è vista, invece, come piatta e negativa.
Sta di fatto che, volenti o nolenti, è di un congegno unico ciò di cui parliamo – quello hip hop – e, ben mi assista la prima legge di Ohm senza mandare in corto circuito nessuno, vi è una proporzionalità diretta che lega il fu old-school rap e la trap ad un’unica matrice. Sì. Proprio così. Che il dio della musica mi fulmini forse, ma la freccia scoccata da Apollo deve prima farsi largo nel mare di nebbia che permea il genere sulla scena italiana odierna, di cui, sin dal successo di Sfera Ebbasta (che abbiamo ben analizzato qui), siamo ancora spettatori à la Friedrich nel sublime di una confusa interpretazione.
È un ibrido quello che abbiamo di fronte e che ancora non riusciamo ad accogliere tra le nostre fila: quasi come monito generazionale del retrogrado “non è un paese per vecchi” in cui viviamo, si tende ad aborrire il diverso perché “sconosciuto”, e quindi da additare piuttosto che analizzare. Ecco che ancora adesso, dopo nemmeno un mese dall’inizio del nuovo decennio, ci sono ancora gli omofobi che gridano scandalo al look di Ghali alla sfilata di Gucci o i puristi che danno dell’ignoranza sostanziale alla massa dei pischelletti dark senza badare all’impatto sul campo che ha avuto la Dark Polo Gang. L’Italia dell’hip hop si schiera in fazioni medievali di guelfi e ghibellini, i primi santificati dal sigillo papale di Neffa, i secondi esplicazione popolare di un body horror cronenberghiano, entrambi in realtà buttati nelle fauci di uno speed vortex ansiogeno che si abbuffa di gogne mediatiche, numeri e likes. Rimanga sacro il “De gustibus non est disputandum”: ma capire prima di parlare è quella che dovrebbe essere la prima regola anche nel rap-Fight Club che tanto inneggia a Primo Carnera e all’analogia del mic con Mike Tyson.
“Io ascolto il rap quello vero, non – quella roba lì -”
Poniamo una proporzione: il termine ‘rap’ sta all’hip hop come il termine ‘rasta’ usato per il look dei capelli sta per il rastafari. Una metonimia inversa che coagula il tutto in una parte, una trasfusione di significato che ormai non si tiene più in considerazione. I Sangue Misto facevano Rap, quello con la maiuscola, non Sanguedecane; chiamare rapper chi evidentemente fa trap fa scorticare le unghie degli adepti delle origini. Se volessimo trovare l’ago (insanguinato) nel pagliaio, sarebbe necessario riaprire la grammatica base dell’hip hop e sottolineare di rosso come il rapping sia una delle pratiche della cultura a cui ci riferiamo, insieme al DJing, alla break dance e al graffitismo; per bacchettare qualche altra mano si potrebbe anche aggiungere come la trap music sia un sottogenere della grande ampolla hip hop, e ancora più diligentemente spiegato, un’esplicazione del southern hip hop. Diagrammi di flusso che rimandano a diversi gruppi sanguigni, la cui matrice di cuore è sempre la stessa.
La differenza tra rap e trap ce l’ha spiegata Shade in un goliardico video di un anno fa, che ha destato i commenti della massa verso un auspicio ad una trap davvero come quella rappresentata (se non l’avete visto è questo qui); sì quello Shade del “siamo troppo strani / io sono Frodo il signore degli anelli vaginali” nel celeberrimo freestyle del 2012 insieme ad Ensi e Fred De Palma davanti alle Lavanderie Ramone di Torino (ancora, se sobri ubriacatevene qui); lo stesso Shade che ha presenziato a Sanremo del 2019 con parole in rima servite come accompagnamento ad uno zuccheroso pop nazional-popolare trascinato da un’eterea voce femminile.
È da biasimare la svolta commerciale? Sicuramente, dice il mein führer sir old-school hip hop. Credo che Shade, vincitore della seconda edizione dell’Mtv Spit 2013, sia una personcina discretamente intelligente da fare i propri conti: ha deciso di fare altro, e le motivazioni personali della svolta palpabile non sono mero oggetto di questa discussione. È la definizione attuale, quella che non quadra: Shade faceva rap, è ancora classificato come rapper, così come il latineggiante compare Fred De Palma che ad oggi non ha nulla da invidiare ai Benji e Fede diretti dal ‘videomaker del rap’ Alessandro Murdaca. Sembra esserci un abuso malsano di termini qui, vostro onore; un’incomprensione basilare del concetto, signor giudice. Stando a siffatti dati, anche il Raf di una parte di Infinito o il Tizianone nazionale in Ti Voglio Bene fanno rap: sentile le spoken words, i bassi, le rime, perché questi sono rimasti relegati nel limbo del pop per signora con chihuahua in borsa e non si sono guadagnati la catenona d’oro al collo?
Sembra che chi affermi di ascoltare il rap, quello vero, ripudi con ogni molecola del proprio corpo “quella roba lì” riferendosi alla trap, avendo in mente il ghiaccio al collo, gli sk sk ollare la gang, e il ventaglio di cinquantelli in mano a mo’ di costosa briscola nel baretto dei social. C’è la tendenza, dai fedelissimi del campo di bocce, a pensare alla trap come un gioco al pc, fatta per i ragazzini che hanno scoperto nel vocoder e nei programmi digitali un modo per circumnavigare l’utopia di un rinnegato posto fisso. Nel Belpaese si nota una tendenza generalizzata a cercare il piatto pronto su una tovaglia a scacchi rossi e bianchi, attribuire stelle Michelin alle carbonare d’eccellenza e schifare a priori le infamous fettuccine Alfredo. Bene, rinnegare la Dark Polo Gang senza essersi fatti una mangiata negli USA è un po’ come inforcare la pasta con il coltello: insensato e frustrante. Mordere i beat da 808 in cassa piena e disossare lo storytelling con i grillz che smaltano le carie sono elementi importati da oltreoceano, dove il genere è nato, ha preso piede e di cui la controparte tricolore ha usato gli stessi ingredienti: rapportatevi ai Migos di Versace, il Gucci Mane di Trap House ed è un “Mamma, butta la pasta” cruda da infornare nell’italian cuisine della scena odierna.
È un ibrido culinario quello che si è venuto a creare sulle nostre tavole, ibrido che mescola primo e secondo in una portata unica: una novella cucina molecolare che smembra i canoni della tradizione, li mescola a nuovi sapori e li impiatta in stoviglie di design per essere serviti nel ristorante della musica di oggi. Il rap del 2020 in Italia presenta il conto di un background socio-culturale incastrato tra gli “Ok boomer” e il “Che ne sanno i 2000”: un’instabilità sostanziale che offusca il ricordo del passato e vive di un’amara incertezza del futuro, che si crogiola sempre più nel motore ego-concentrato di un capitalismo di sopravvivenza e che lascia gli scheletri a marcire nell’armadio. Il singolo si ritrova a specchiarsi in una taglia d’abito troppo grande e preferisce spargere di naftalina quell’attivismo sociale, la cui mancanza è additata come omissione di contenuto, e imbustare dentro copri abiti ammuffiti una presa di posizione che invece sarebbe ora più che mai richiesta.
Quel “Di doman non c’è certezza” si esplica allora in una sfrenata corsa al platino dei dischi, al numero delle visualizzazioni, ai cuori su Instagram, e ingloba – usando etichette esplicative – il vecchio e nuovo sotto un unico segno zodiacale in cui i vari ascendenti stanno a rappresentare il carattere musico-personale di ognuno. Il singolo si incorona capo della propria one-man band e si pone alla pari solo della gang-loggia massonica di cui è esponente, così come si rapporta con l’esterno per un mero scambio di lustro (vedasi Ketama126 e Max Pezzali in In Questa Città, Salmo e Alex Britti in Brittish, Rkomi ed Elisa in Blu), o presta la faccia per traballanti campagne pubblicitarie dal lucroso fine sponsorizzato dal ‘partnership with’ (Fabri Fibra per Hero, Ernia per Timberland e AW LAB) e usa tattiche incrementa-views per finire sulla home del proprio pubblico (“Tagga sotto al post tot persone”, “Commenta con – insert emoji – se vuoi sentire in anteprima il nuovo singolo”, “Partecipa al video facendo una storia e taggandomi”).
Non si faccia di questa cupa visione radicale un fascio: qualcosa è riuscito a muoversi anche in questa raffigurazione commercial-oriented nichilista, e ha valicato alcune barriere fisse dello stivale: dal manifesto trans-femminista della ragazza di Porta Venezia Myss Keta all’ incontro tra culture diverse che ha promosso Ghali, entrambi emblemi di lotta contro l’eliminazione dei pregiudizi che impregnano ancora fortemente il nostro Paese. I principali fautori di questo switch etico-generazionale sono propri i maggiori fruitori di musica rap di ora: quella fascia di ascoltatori che si trova a googlare Fritz Da Cat perché a malapena lo ha sentito nominare e riconosce senza reference Rick e Morty in Tha Supreme, la malfamata generazione Z insomma. Quella che ha difficoltà con i compact disc ma presalva senza problemi i singoli su Spotify, che preferisce seguire i beef su Instagram piuttosto che concentrarsi sui dissing in rima. L’ibrido è venuto a crearsi e, volenti o nolenti, i mostriciattoli sotto al letto bisogna capirli, prima di affrontarli. Perché ci sono.
[…] È questa mia nostalgia che mi riporta ai primi passi
Dei pantaloni larghi e delle felpe giganti
Ma Bassi m’insegna ci sono cose più importanti di voltarsi
E una di questa è guardare avanti […]
Il dapprima definito rap è stato quindi soggetto all’incontro-scontro con il background odierno e si è dovuto, in maniera logicamente consequenziale, rapportare ad esso. Venendoci spesso a patti. Maniere diverse e peculiari alla propria personalità, o scelte dovute dal ‘così gira il mondo’: inevitabile carne al fuoco per l’ibrido di genere e per la definizione di rapper che si sono creati. Estromettere il background sarebbe una falla nel sistema, sia che si parli di quella scienza doppia H, sia di Trap Lovers: tutto si evolve, la stasi si auto-annienta e, musicisti e non, siamo tutti – per citare Zampa di Lupo Solitario – pedine sulla gigante sputacchiera della vita. “E se vuoi andare in Cadillac, si va in Cadillac” diceva Fibra nel disco masterpiece da altarino sacro “Verso Altri Lidi”, un qui e (al)lora implementato da quel “rapidi più di uno Speedy”, in una società che continua a fagocitare il tempo.
Ora siamo allo stesso bivio di coscienza per l’old-school rap: “E allora che decidi? È inutile che mi sfidi / Se mi parli dei divi che invidi”. Prendiamo il rapper di Senigallia: Fibra non è uno stolto se nel 2017 ha pubblicato “Fenomeno”, se ha deciso di essere un feat nel disco d’esordio di Quentin 40, se lo si trova a mettere due rime nella pop song che passano al centro commerciale; “Ho avuto pure un figlio, ma l’ho fatto ammazzare / Perché sperava facessi un altro Uomini di Mare”, diceva con ghigno tirato nella Bonus Track di Turbe Giovanili. Che Fabri Fibra si sia commercializzato per rimanere a galla tra le onde impervie delle acque di confini territoriali in cui navigava può essere una presa di posizione vista attraverso una maschera subacquea appannata, ma perché non considerarla invece una scelta di bilancio tra comodo bagnasciuga e nuotate al largo? “Verso Altri Lidi” è una stella nella notte, un pianeta lontano anni luce che, indipendentemente da quando e da dove lo si guardi brilla sempre là, alto nel cielo; un’ondata che bagna, fa tremare e coccola nel vento, semplicemente è, fa sentire.
Fibra probabilmente lo sapeva, che con quel disco si sarebbe venuta a creare una turbina idraulica; così come era conscio che tale prodotto non si sarebbe più potuto replicare, complice il boia del tempo che trancia i fili che lo collegano alle circostanze; tutto prosegue e si tramuta in altro, per tenere il ritmo servono immancabilmente delle Nike nuove. Ecco che ritroviamo quel flusso dissacrante à la Slim Shady di “Mr Simpatia” ridotto agli sgoccioli in rime basilari e reference d’arguzia rallentata, che tramutano quell’incapacità di allinearsi con il mondo “lunedì-venerdì, nove-diciotto” in una descrizione dal retrogusto rassegnato di chi sognava di andarsene – nell’utopia di un non-si-sa-dove – e alla fine, invece, è rimasto.
Un artista è tale quando crea una peculiarità riferita solo a sé stesso che può essere rapportata in alterazioni di campo, o contesto, e far risultare ad ogni modo unici ed efficaci i connotati base che la contraddistinguono.
Prendiamo Bassi Maestro, di nome e qui anche come fatto docente del Rap: armeria pesante in prima linea durante le prime battaglie, ora porta un auto-commiato alla scena di cui è stato propulsore con la dicitura-medaglia al valore ‘ex-rapper’ nell’Instagram bio. Il valore di Bassi e il contributo che egli ha dato alla scena è innegabile, ma il capitolo personale ha chiuso i battenti e la pace stipulata con il passato è rappresentata da una reinvenzione di se stesso e delle proprie capacità, esplicate nel progetto electro-Prince North Of Loreto, che trasportano l’artista in un’altra dimensione, senza estirparne il genio. “È da un anno e mezzo che non escono strofe, non faccio concerti rap, non mi abbasso alla mediocrità della scena italiana (o internazionale?). Non mi interessano il gossip, i selfie, i tatuaggi, i numeri, i dissing, la trap, il raggaeton, I DON’T GIVE A FUCK! Faccio il mio in serenità con il nuovo progetto @northofloreto questo è quanto. NON tornerò a fare rap perché non mi interessa e non ho più voglia di scrivere, mettetevi il cuore in pace. Non cagatemi il cazzo col rap BASTA come ha detto giustamente qualcuno dischi ne ho fatti a sufficienza” ha spiegato in un commento Bassi su Instagram.
Vagliamo anche Noyz Narcos che, dopo anni di hardcore rediviva sussistenza su strada, ha decretato come ultimo il disco “Enemy” del 2018, il settimo in studio dallo sballo insonne mangia-morte e truculento di Non Dormire. “[…] Manco cor cappelletto così a cinquant’anni… Tante volte io penso nella vita pure annasse un pochetto co’ stile piuttosto che aspettà il momento che magari non va più bene qualcosa” ha riferito a Noisey (la trovate qui) riguardo al presunto crisantemo da poggiare sul versante album. Quell’NN sulla traccia ha però trovato fulgide reinterpretazioni nei progetti collaterali del Narcos Noyz, dal brand Propaganda che ha recentemente visto una nuova apertura a Barcellona all’inaugurazione dello studio di tatuaggi Propaganda Tattoo Temple a Milano, nuove frontiere in cui lo stile del rapper romano trova la ri-rappresentazione tutti i cazzo de giorni dell’unicità che egli ha creato partendo dalla musica (che pure continua, se avete sentito il feat in “Squame” di Ketama 126 in cui Noyz regala un rap-ibrido con trap flow).
È ancora possibile, nel limbo tra vecchio e nuovo decennio, trovare un rap genuino che rifletta il genere sulla scena odierna e cavalchi a briglie strette le contaminazioni saltando la paura dell’avvelenamento? Ce l’ha fatto chiaro Ensi, all’inizio dello scorso anno, quando nella prima traccia di Clash del 2019 egli stesso ha affermato: “Ho fatto il disco dell’anno bro ed è solo gennaio”; tra arte retorica introspettiva e feeling-dense rap ballad costruite su freschi suoni dancehall carichi e pieni, il conclamato king del freestyle si riserva ancora una volta, con un album tremendamente sottovaluto, il diritto di riaffermare la propria posizione.
Prendiamo inoltre Gionni Gioielli, condottiero purosangue del movimento Make Rap Great Again e promotore di quella “vecchia storia delle barre e i sample” che fa trasudare Rap da ogni rima: concept album che dissacrano l’odierno fatto di basi auto-prodotte e lirica atomica, che ingloba ancor più espressioni colorite e frecciate esplicite nello spregiudicato Pornostar dello scorso novembre.
Menzionando i one-theme album ci riserviamo un angolino anche per Murubutu che, pure essendo spesso accusato di prolissità ridondante, si riserva anche in “Tenebra È La Notte” (2019) il potere di far danzare liscio sulle rime un massiccio conscious rap da lezioni di greco e latino. Potremmo pure citare la riedizione di “Tree – Roots & Crown” di Mezzosangue, in cui il rapper torna con l’iracondo attacco al sistema iniziato nel disco precedente, sparando a zero su un hip hop svenduto al mercato, sventrato e privato degli organi che lo componevano. Mezzosangue è un supertramp con uno spiccato senso di lanterninosofia e si fa carico di quelle cose vere e sentite che ormai agli altri non bastano più: i rapper di prima sono molli, quelli dopo farisei. Ma da chi è composto, a conti fatti, questo dopo?
“La wave del momento non è il rap”
C’è questa tendenza generalizzata, più un sentore che un’affermazione esplicita, nel pensiero che i rapper nati a ridosso degli anni Novanta siano come una bolla di sapone generata da quei flaconi in cui soffiavamo da bambini: bella superficie iridescente ma pronta a scoppiare da un momento all’altro. Si percepisce un retrogusto di pensiero che incasella il vecchio nel rap e il giovane nella trap, lasciando sugli scalini d’entrata della West Beverly High School una fascia d’età né carne né pesce, una presenza non definita come il nome del gioco qui sopra descritto. Prendiamo due dischi usciti l’anno scorso: “Re Mida” di Lazza, ’93 d’annata, e “Aletheia” di Izi, nato nel ’95. Il primo orientato verso un nuovo foto-simbolismo dal trap sentore, il secondo mumbling storyteller di dissidi interiori, il tutto farcito da basi pochi sample-molto tech. Pulendo via tutte le ditate di genere attribuito, della capacità di rappare c’è, e forse, come il trucco migliore per un nature look, non si vede. Consideriamo Matteo Professione, ’93, che del rap ne ha fatto quest’ultima con il nome d’arte Ernia: l’autocelebratosi duca di Milano porta come fulcro di uno storytelling sapientemente rimato quei conflitti generazionali sopracitati, dal lavoro di cameriere a Londra per scappare dall’Italia, alle retrospettive biografiche dell’adolescenza scolastica, a frecciate esplicative alla scena dei “Rapper subumani con il look da emo” (La trap? Sì, la trap).
Guardiamo anche dalla parte di Rkomi, ’94, che nel 2019 ha pubblicato “Dove Gli Occhi Non Arrivano”, picco di confusione per chi vuole categorizzare il genere di appartenenza: infelice riuscita dal punto di vista Rap, il disco, che fa membri della stessa squadra Elisa e Sfera Ebbasta, Ghali e Jovanotti, è permeato da una lirica particolarmente fiacca, lascia la poliedricità in panchina e butta in campo un pop da calcio di rigore sulla scena commerciale italiana. Così si potrebbe parlare di Tedua, ’94, e del drill sound-alike che ha versato nel nostro humus culturale, ma così anche di Achille Lauro, ’90, nato nell’underground e ritrovatosi novello Mick Jagger alla guida di una Rolls Royce sul palco di Sanremo 2019; e ancora Carl Brave, ’89, e Franco126, ’92, importanti punti d’incontro tra trap e indie che, con istantanee autotunate di vita odierna, tanto danno all’una quanto all’altra.
Una bella messa alla prova di fusione tra stili diversi e vecchio&nuovo – virgolette assodate – è rappresentata da 64 Bars del Red Bull Music Studio, che porta MC e producer di matrice diversa – vedi Ketama126 e Don Joe – a collaborare ad un pezzo inedito composto da 64 barre di super rime e super flow: da bacio verso il cielo è l’ibrido indie Frah Quintale prodotto da Bassi Maestro, che sradica ogni certezza sul rap attuale e fa ricordare, non senza lacrimuccia, quel very rap “All You Can Eat + One Hundred” insieme a Merio (gli allora Fratelli Quintale, ascoltatelo se non l’avete ancora fatto).
La diapositiva del momento, che ingloba il prima, l’annata di mezzo esplicata qui sopra e il dopo, è il rap, ma non quello a cui si riferisce Gionni Gioielli nella citazione qui sopra: è invece un ibrido che interseca vari aspetti del Rap, altri aspetti della trap, altri ancora dal famigerato reggaeton che tanto fa portare gli occhi al cielo quanto twerkare; prendiamo un pizzico di it-pop, una foglia di rock e buttiamo tutto insieme nel calderone della musica italiana, che, salvo alcuni sprazzi di sana medicina, imbottiglia elisir omeopatici del successo e li vende alla massa.
[…] Ho scritto al creatore mi ha detto se cerchi
Risposte in questione c’è il link sulla bio […]
Se quello Sfera Ebbasta di Rockstar è stato additato come il Caronte designato a trasportare la tradizione di genere all’Inferno, è il Salmo di “Playlist” del 2018 che impersona il nostro Virgilio nella presa di coscienza del rap italiano odierno: la trasversalità del disco riesce ad abbracciare diverse cantiche e ad inglobare varie attitudini in un prodotto attuale, che non fa smacco né alla costruzione base del genere né alle nuove influenze. Quell’eterogeneità che nell’esordio datato 2011 “The Island Chainsaw Massacre” allacciava ruvido rap anni Novanta, drum’n’bass e metal non viene a mancare, seppure sotto altre spoglie, nemmeno nell’ultimo album, scelto qui per impersonare in modo allegorico-didascalico quel viaggio verso l’ibrido che ha bussato alla porta sul retro del rap di oggi. Non disdegnando l’impegno lirico del rapper sardo, capace anche qui di stendere rime sagaci e non ancora scontate, “Playlist” delinea nero su bianco tutti quegli elementi che costituiscono una commercializzazione di genere: partendo dal marketing new era-avvezzo per la sponsorizzazione del disco, leggasi il teaser su Pornhub e il video di “Sparare Alla Luna” con Coez su Netflix, e arrivando ai temi sviscerati nelle tredici tracce, vedasi l’invettiva al popolo italiano, l’autoreferenzialità pompata, la romance dura di facciata de Il Cielo Nella Stanza che ha fatto parlare di rap pure le pagine di Cosmopolitan.
Se da un lato “Playlist” può essere decretato come un surrogato di un disco Rap, dall’altro non c’è da biasimare una sorta di svecchiamento di un pensiero di genere da relegare nell’angolo, rappresentato così dalla produzione di Perdonami affidata al teenager Tha Supreme come dal featuring della sempre pecora nera Sfera Ebbasta in “Cabriolet”. È forse Salmo, lo stesso che ora si prepara al tour mondiale e che ha recentemente dichiarato il rifiuto di partecipare a Sanremo 2020, l’esegesi di un rap che più che tendere ai connotati di genere diventa esso stesso tendenza? Lebonwski non ha creato un precedente (ve la ricordate “Siamo come tori a Pamplona”?) ma ha lasciato orme su cui altri rapper, in maniera più parallela che consequenziale, stanno tracciando i propri passi.
Nel manifesto dell’hip hop 2018 (lo stesso riferito a Sfera di sopra, ma rieccolo qui) si è parlato di come il “Pezzi” del 2017 di Night Skinny sia stato magistrale a livello di forma, lirica e composizione ma abbia peccato a livello contenutistico: c’era uno schietto acknowledgement del trend di quel – e anche di questo – momento, nella fattispecie la droga, ma non quel passo in più atto volto a portare l’algida osservazione ad una descrizione di fatti e conseguenze più profonda. L’anno scorso è uscito “Mattoni”, secondo capitolo della saga che, in una minima variazioni di temi rimanda alla macro-percezione deducibile dal disco precedente. L’impresa edile costituita da ben ventisei nomi del rap del decennio incastra tasselli di rime in una costruzione fatta da basi solide e design moderno, seppur mantenendo inalterata quella sterilità data dalla neo-ristrutturazione del classico: i temi sviscerati tra le mura del focolare domestico composto da rami di un frastagliato albero genealogico rimangono pressoché inalterati e nemmeno qui si nota una vera e propria presa di posizione nei confronti dello status quo. “Mattoni” è un tema descrittivo in cui Night Skinny pone il titolo e lascia la classe a stilarne il corpo centrale, peccando di una correzione sintattica fatta con la penna blu. Ci sono gli alunni di eccellenza, di cui si presume già la buona riuscita (Noyz, Luchè, Marra, Jake La Furia), qualche ripetente (Fibra, Guè), qualcuno da primo banco (Ernia, Rkomi, Quentin 40, Izi) il doposcuola (Ketama, Side, Lauro) e perfino nuovi studenti (Madame, Chadia Rodriguez, Vale Lambo e pure Taxi B). Il compito ha in sé uno stile di scrittura figurativo che mette nero su bianco i connotati della musica hip hop attuale, fatta di contaminazione e (r)innovazione, ma che non lascia un quesito aperto alla fine dell’ultimo periodo.
Meno compagni di scuola e scrittura su un diario privato è invece “Persona”, ultima uscita di Marracash, grande ritorno dopo anni di ghosting alla scena, anche questo un disco dettagliato nello stile lirico-musicale, ma architettato sulla base di una retrospettiva personale che fa rimbalzare sull’artista soggetto-oggetto del discorso ogni quesito venuto a porsi. È una sfera più intimista quella ad essere messa alla mercé del pubblico qui: sotto l’occhio vigile di un Marra-regista bergmaniano i temi delineati sono consoni alla neo-tradizione contenutistica, ma vengono intrecciati alla (ri)presa di posizione del king del rap sul proprio trono dalle barre d’oro. Se Night Skinny infila bigliettini arrotolati nel muro del pianto di una generazione di ascoltatori, Marra fa un passo in più e, nonostante la scelta intimista di base, prende una posizione personale: si vede nella ripresa generazionale di Frankie HI-NRG MC “Quelli Che Non Pensano”, si vede nell’ironica-ma-non-troppo Greta Thunberg con Cosmo, tracce che, oltre a porre i tre puntini per il “niente da dire” sul flow che lascia a bocca aperta (diciamolo, a livello lirico Marra era e ha riconfermato essere un mostro), mette anche dei punti di domanda.
Se il potere di un disco di “mettere d’accordo tutti” che tanto si legge con accezione positiva nelle recensioni può essere rapportato al contenitore – prodotti svecchiati, suoni rinfrescati, scelte di featuring più aperte -, è il contenuto, nell’oggetto più che nella sua forma, che necessità di un’attenzione maggiore per far breccia non solo nelle orecchie e nel cuore, ma anche nelle scelte di chi ascolta.
[…] Parlo sempre di droga perché non facciamo altro
Non ho contenuti perché sono vuoto dentro […]
Più dell’autotune, più della mancanza di sentimento che la vera musica dovrebbe instillare: alla trap italiana hanno sempre biasimato, peccando di una misconoscenza di genere di matrice USA, una mera mancanza di contenuto testuale che ha portato ad una svalutazione a priori del genere fattosi largo in Italia. Scrostiamo le pepite d’oro dalle collane, nascondiamo i tattoo sulla faccia: quello che è invece da accreditare alla trap italiana è il potere di delineare la verità odierna che ingloba i twenty-something ascoltatori e artisti in un immaginario pieno delle pecche della società attuale; la trap è una metafora nuda e cruda dell’ossimoro socio-culturale in cui viviamo e mettere il paraocchi su genere e contesto può essere la via più logica e semplice per una vita felice da ambo le parti.
Quel ‘popolo di pecoroni’ di cui ci tacciano si alimenta ogni giorno di notizie gossippate, pensieri bluepillati e meme di Salvini caricati dall’urlo di ‘buongiornissimo kaffèè?!?’ e ha da tempo posto una crescita dell’individuo mirata all’arrivismo verso un niente aleatorio per mezzo di fama, sesso e soldi. Prendere posizione in un Paese sulla continua via della dissoluzione politica e culturale è molto più difficile che lamentarsi sui social nella propria cameretta. Allora si addita non al background italiano, non alla mancanza di attivismo e giustizia, non alla caducità di un presente che non vede futuro, bensì alla trap, la colpevolezza del disfacimento musicale. La trap italiana non è altro che un riflesso del film horror temporale in cui siamo inseriti e i caratteri che la definiscono sono pura conseguenza dell’attrito generazione-società; ma perdita di fiducia nei valori non vuol dire non conoscerli, esternare la facciata non vuol dire non avere niente dentro.
Prendiamo il Ketama126 della citazione qui sopra: definito (forse un eccesso, ma non del tutto fuori luogo) come il Kurt Cobain del nostro tempo, il trapper romano impersona il quadro nichilista sociale in cui egli stesso è inserito e con cui rapporta i propri dissidi interiori di vita, uno scontro reciproco 1:1 in cui entrambi si fanno al contempo vittime e carnefici. La visione spregiudicata è quella di un mondo vuoto, ostile e inutile, sempre pronto a pugnalarti alle spalle e l’annullamento del sé, che sia per mezzo di droghe o di troie – non dite sessismo, ma slang – è l’unica soluzione per l’evasione necessaria dal marcio, dai pensieri, dall’insensatezza sostanziale della corsa. In “Kety” del 2019, sequel di quel “Rehab” dell’anno prima, ogni soprammobile è al suo posto per una trap d’ordinanza: soldi, sesso, droga. Ma in Ketama c’è qualcosa che va oltre, un bisogno che infiamma ogni sindrome da crocerossina, un amore rattrappito per la vita che dovrebbe essere sincero e sentito ma invece messo nel congelatore per non sentire ancora più dolore (celebre il feat – che un tempo veniva chiamato sample – di Franco Califano nell’ultima traccia del disco “Cos’è l’Amore” insieme a Franco126).
Lo storytelling tradizionale del rap, che sembra nascondersi appena si parla di trap, viene, in Ketama, così con estensione alla Lovegang e più largamente alla scena romana di nomi come Gianni Bismark e Joe Scacchi – il cui disco “Marketing” di fine 2019 è una delle sorprese di categoria -, disossato in angoscianti frammenti di annientamento del sé in mancanza di una serenità d’animo impossibilitata dal substrato personale e sociale.
La stessa ricerca di leggerezza di una vita fatta di cose semplici, la cui netta mancanza fa indurire ancor più il muso, si ritrova nel “Voglio solo una vita decente” di 7 Miliardi, e in tutto “Scialla Semper” di Massimo Pericolo, in cui il rap diventa terapia per esternare il peso dentro, quello di Vanetti fatto di infanzia spezzata e ingiustizia sociale. La (t)rap-terapia diventa counselor nella fascia ‘college’ del genere: prendiamo Madame, La Promessa Dell’Anno o l’enfant prodige Tha Supreme, entrambi mettono in rima i temi tipici dell’adolescenza in cui si ritrovano, tra cui sentirsi diversi dai coetanei e la pressione a dover essere sempre di più.
Ma torniamo al lato oscuro: in un Fantamorto dell’animo che non ha ormai nulla da perdere la trap italiana si fa beffa degli stessi caratteri che definiscono lo sfondo su cui ha attecchito e li implementa all’ennesima potenza. Il rifiuto di essere membro di una società neo-vittoriana che bada al lustro di facciata ha generato una reazione uguale e contraria creando un ciclo di eterno ritorno. I soldi contano? “Ne voglio di più”. Il successo? “Guardami, sono arrivato fin qui”. E il sesso? “Devo dirti quante tipe ho ai miei piedi?”. Da qui l’affermazione di quei trapperz da concerti in discoteca, nominiamo un Mambolosco di “Guarda Come Flexo” tra gli altri, backstreet boi di marca vestiti che vengono pericolosamente osannati (milioni e milioni di followers) dalla fascia d’età più bassa che manca ancora di presa di coscienza del fenomeno e vede negli artisti che idolatra un modello di riferimento (si pensi per un istante alla glorificazione del termine ‘bitch’, implementato dal femminismo di dubbia valenza di Fishball e usato ormai come comune sinonimo all’‘amò’ con cui si chiamano tra di loro le ragazzine).
Su questo versante la trap è pericolosa, uno Scary B-movie che cavalca la wave del momento e non tiene conto né del potere educativo che potrebbe detenere né nella ripercussione effettiva sulla high-school audience.
Il mancato propositivismo della trap si viene a scontrare con la carenza di domande poste dal rap, corroborando quel mare di nebbia in cui è immerso il genere, sia nella forma che nel contenuto, ma anche nelle prospettive future verso cui lo stesso si sta orientando: quali saranno le sorti dell’hip hop, quindi? Quale sarà quella parte del genere che riuscirà a far fronte all’apatia che guarda il sole calante all’orizzonte e a far tramontare quella scottante mancanza di fiducia che si prospetta nel poi? Ci sarà qualcuno, e in quale branchia del genere, che riuscirà a far sorgere una coscienza a cui non basta più osservare il decadimento del tutto ma sente il bisogno intrinseco di cambiare la situazione? Forse è quell’ibrido in bilico nel mezzo che potrà essere l’effettivo equilibrio tra il bianco e il nero: a conoscenza del carattere formativo dell’hip hop, così come dei suoi tratti più limitanti, ha in sé il potere di essere l’eletto per ridestare l’attivismo assopito, per delineare un rapporto tra noi e il mondo, piuttosto che di un singolo contro il tutto. La domanda rimane aperta, ma la speranza è, anche qui, l’ultima a morire.