In tempi in cui siamo tutti, per forza, tappati quasi sempre in casa (a parte poche eccezioni: e complimenti a quelle eccezioni, perché vuol dire che stanno facendo qualcosa di fondamentale per far tenere ancora in piedi tutto), è cosa buona&bella che arrivi la release di un disco importante di un artista importante. L’importanza di Four Tet, è obiettiva: partito dalla sua “cameretta indie” a fare folktronica (ormai siamo arrivati al punto che molti dei suoi fan attuali, per motivi generazionali, questa fase iniziale della sua carriera proprio non la conoscono), illuminato dall’esperienza di dj a cottimo nei cessi del The End – pare una barzelletta, ma non lo è – ha scoperto la bellezza della club culture, della musica da dancefloor.
E’ lì che ha mostrato una combinazione, in dosi uguali, di umiltà e personalità: umiltà perché comunque si è messo a studiare per bene come funziona la musica da dancefloor, quali sono le sue regole implicite ed esplicite (in primis sulla struttura del pezzo e sulla “densità” di elementi in esso), partendo da zero; personalità perché una volta fatto suo questo alfabeto, c’ha messo dentro del suo. L’ha rispettato, l’alfabeto, eccome, ma non si è adeguato pedissequamente – come hanno fatto invece Sven Väth e Loco Dice, per citare due grandissimi che arrivavano da background “altri” – agli stilemi standard, bensì ci ha sempre messo un tocco particolare, un “E questo sono io” (…sì, immaginatevelo cantato da Morgan o da Bugo, bei tempi quando nelle nostre timeline sui social si parlava solo di quei due, vero?).
Contro ogni previsione – ma evidentemente ha fatto la cosa giusta al momento giusto – questa cosa ha pagato tantissimo, rendendolo un idolo per le masse. Ma un idolo di quelli che anche se non lo capisci, lo ami. Cosa che, non me lo toglierà dalla testa nessuno, ha contrassegnato in positivo la carriera di Ricardo Villalobos (che fa release notevolmente ostiche e mentali, nella loro ostinata essenzialità, e per quanto riguarda invece i dj set spesso ne fa di sinceramente noiosi per vari motivi): ovvero diventare il nome di cui non puoi parlare male, pena il fare brutta figura, pena l’essere visto come quello che non ne capisce un cazzo. Pensiero unico.
Four Tet grazie alla sua atipicità ha portato la musica dance e il suo spirito più autentico anche fra chi, fino a cinque minuti prima, la musica dance più da clubbing non se la filava
Oh, questo destino capita solo a quelli bravi veramente: Villalobos ha cambiato le regole del gioco con la sua genialità, Four Tet idem. Four Tet ha (ri)portato l’imprevedibilità e un minimo di sottile sense of humour nella musica dance, ha (ri)portato un uso creativo a livello di ingegneria del suono, andando contro le regole in un comparto musicale, quello techno ed house, che stava diventando un freddo clinic di come si mixa un pezzo pompando al massimo le frequenze, e pazienza se il pezzo è una merda o semplicemente non c’è. Ha anche (re)immesso una componente ipnotica, psichedelica, molto mentale – ben diversa dalla componente ipnotica e ripetitiva della tech-house tutta uguale che deve la sua forza proprio nella sua noia, nella sua piattezza, poiché diventa il background perfetto per ballare quando sei fatto di determinati tipi di sostanze, se fatta veicolare da impianti potenti. Con la musica di Four Tet puoi strippare anche se ti sei bevuto solo una Ferrarelle e sei seduto in casa, ascoltando la musica dal telefonino con delle cuffiette in ear da pochi soldi. Differenza mica da poco.
Ecco. Four Tet grazie alla sua atipicità ha veramente portato la musica dance e il suo spirito migliore “da club” anche fra chi, fino a cinque minuti prima, la musica dance più da clubbing non se la filava più di tanto, o pensava che di buono ci fossero solo i Daft Punk di “Discovery” o poco altro (e per il resto, pedalatori sotto cassa da gogna di Realh Clebbers o accigliati beccamorti techno fashionisti). Come dar loro torto, in fondo: “Discovery” è del 2001, quello che è arrivato dopo quell’album è stato il regno della minimal prima e del berghanismo poi, che sono stati la rivincita di chi aveva un background (o una predisposizione) molto più puramente techno, inevitabile che dalle uscite della Perlon e/o della Ostgut e/o della Kompakt scappassero come leprotti, con ampi cenni di disinteresse (a parte pochi curiosi&onnivori, ma quelli sono e resteranno un’eccezione), oppure si buttassero nella fidget, che poi dopo un po’ di contorsioni e potenziamenti paraculi e ricambi generazionali ha figliato l’EDM. Four Tet e, in misura minore e forse un po’ diversa, Caribou/Daphni hanno saldato questa cesura (…e i loro management sono passati all’incasso, facendo schizzare i loro cachet ad altezze siderali forti di questo appeal “traversale”). In altri momento storici, tipo se avesse iniziato a fare dance dieci, quindici anni prima, Four Tet sarebbe stato considerato il giusto, pur riconoscendone la freschezza d’idee; ma avendo fatto quello che ha fatto nel momento in cui l’ha fatto (e questo è un merito, non una mera botta di culo), è diventato uno dei giganti della contemporaneità da club. Per acclamazione.
Acclamazione eccessiva? Nì. Più no che sì. Nel senso: è un’acclamazione che per lo più si merita. Torniamo infatti al punto: ci vogliono infatti le palle – scusate la frase poco elegante e un po’ maschilista, ma è per capirci – per entrare diligentemente nelle regole e regolette della club culture di questi anni e, al tempo stesso, non perdere una propria unicità, un proprio tocco, maturato facendo indie-folk-jazz e stranezze da cameretta varie. Poi chiaro, con la vulgata “obbligatoria” di quanto Four Tet sia un genio e sia Dio spesso passa sotto traccia quanto non sempre possa essere rivoluzionario, quanto – esattamente come Villalobos – abbia iniziato ad essere ripetitivo e prevedibile nell’usare i suoi trucchi “strani” migliori, quanto certe produzioni da sei e mezzo, fatte allegramente in casa senza pensarci troppo, vengano spacciate dalle folle e dagli influencer per capolavori da nove che ommioddio, ommioddio. Ma quest’ultima cosa non è colpa sua; e nemmeno le cose precedenti, visto che non esistono o quasi artisti che ad ogni loro release rivoluzionano il mondo. Cioè raga, Aphex sono vent’anni e passa che non fa nulla di nuovo (e pure i Daft, tornando in pista, per trovare l’ispirazione hanno tirato fuori la disco e Moroder e un pizzico di retorica prog anni ’70). Quel poveraccio di Four Tet è normale che abbia, ormai, una sua routine nei dj set e in generale nelle idee musicali che sforna.
(Eccolo, il nuovo “Sixteen Oceans”; continua sotto)
Di routine, in “Sixteen Oceans”, ce n’è. Eppure è un bel disco. Molto intelligente nella costruzione della set list, che crea un vero e proprio “viaggio” con un suo climax nella parte centrale (“Love Salad” e “Insect Near Piha Beach”, di gran lunga le tracce migliori e più forti del disco) e un inizio che fa warm up e una fine che fa da progressivo “ammaraggio”, qualcosa giocato così bene che appunto, anche col solo famoso bicchiere di Ferrarelle di cui prima comunque ti sembra di aver vissuto un’esperienza con stati di coscienza leggermente alterati.
Devi abbandonarti, a questo album. Perché se non ti ci abbandoni, e lo studi come un entomologo può studiare gli insetti, vedi un sacco di limiti e di soluzioni facili, paracule: a partire dalle già sentite “Teenage Birdsong” (classico esempio di pezzo che fatto da Four Tet è tutto un “Oh wow”, fatto da un anonimo sarebbe “Ma che è ‘sta puttanata metà Michael Cretu metà Burial?”) e “Baby” (caruccia, eh, ma niente di che), continuando con “Romantics” che è una “Moments In Love” degli Art Of Noise venuta male e con poche idee oppure con “This Is For You” che pare Kitaro o “Harpsichord” che è un po’ meglio ma insomma, è pur sempre un po’ di ambient-chill anni ’90 già sentita e strasentita, per chi ha memoria. Ma appunto: sbagliato ascoltare (e giudicare) “Sixteen Oceans” così. Ha l’incredibile pregio di essere, nell’anno 2020, un album. Ovvero, un viaggio. Ovvero, qualcosa che ha bisogno di tempo, di ascolto, di abbandono. Qualcosa che ti spinge non a fissarti sui singoli elementi per un instant-giudizio buono per uno status su Facebook, ma a considerare invece l’insieme, e recuperare l’importanza del concetto di “armonia” (nel senso emotivo del termine, non in quello tecnico musicale).
Ascoltato così, funziona. Ascoltato così, perdoni la furbizia di fare un album che è perfetto per l’ascolto che si fa oggi della musica, con cuffiette in ear un po’ così, dove se metti troppi dettagli incasini l’ascoltatore e se mixi la parte ritmica in un certo modo (bello, rotondo, forte, pieno) non serve in realtà a un cazzo, perché comunque con le in ear tutta una serie di lavorìo di ingegneria sonora si perde (e, altra faccia della stessa medaglia, se lo pompi su un impianto da club comunque fa il suo figurone, visto che la gente ormai ha le orecchie tarate su un certo tipo di piattezza del suono, quindi tutt’apposht). Il Four Tet delle origini si comportava in altra maniera, dava un’incredibile attenzione alle miniature; quello di oggi butta a mare questa componente e si concentra a rendere essenziali, efficaci, limitate nel numero le idee, perché ha capito che questo la gente oggi vuole, questo la gente oggi è più in grado di recepire.
Lo fa bene, lo fa come pochi altri, lo fa a modo suo, lo fa con un tocco riconoscibilissimo anche quando “prende di peso” cose già sentite, già fatte, già suonate (perché lo fa, se gliene parli lui mica te lo nasconde). “Sixteen Oceans” è un bel disco. Di un artista giustamente considerato come molto, molto importante nella storia della musica da club dell’ultimo decennio.