Se le condizioni fossero diverse, ora vi staremmo parlando – fra le altre cose – dell’annuale appuntamento con Manifesto, il bel festival nato idealmente fra le mura di quel gioiello che è il Monk a Roma. La situazione invece è quella che è. Ma questo, non deve fiaccare lo spirito. E infatti: rispecchiando l’attitudine del festival, che se se da un lato non si è mai fatto mancare guest straniere di rilievo dall’altro è sempre stato un punto di riferimento fortissimo per un determinato tipo di scena nazionale. Quale scena? Beh, quella molto, molto preziosa di producer che hanno deciso di legarsi non solo alla cassa in quattro, ai propri esordi. Un tempo la chiamavamo Beats, e pencolava tra hip hop astratto e broken beat molto acrobatico. Poi, ad un certo punto, tutti hanno iniziato a crescere, o meglio, ad espandersi in varie direzioni. Ciascuno la sua.
Una cosa è certa. Questa scena è stata, ed è, un incredibile concentrato di talento. Il fatto che abbia perso compattezza ed univocità nelle scelte stilistiche – diventando così meno “scena” – non ha certo diminuito la qualità complessiva. C’è chi ha preso direzioni più “dritte” (Machweo, per fare un esempio fra tanti), chi più rarefatte, chi più etnicomusicologiche, chi più schiettamente danceflooriane, ma sono tutti rimasti fedeli a un principio: fare musica è un’avventura, un’esplorazione, e non un astuto lavoro dove devi imbroccare la traccia che più e meglio ti fa scalare Beatport, o ti fa prendere dalle più cazzute agenzie di booking che ti infilano nello scintillante circuito dei club da x000 euro a serata per dj set.
Il lockdown da pandemia, se ci ha tolto moltissime cose che non vediamo l’ora di rivedere e rivivere nella realtà, ha se non altro dato vita a molti progetti speciali imprevisti, dalle web radio estemporanee ai live facebookiani o instagrammatici a getto continuo. Alla fine anche la compilation di cui vi stiamo parlando qui, creata con l’aiuto ulteriore di Manifesto delle Visioni Parallele oltre che da Monk e Manifesto, nasce dalle circostanze particolari che stavamo vivendo: non doveva esserci, non era programmata, ma invece eccola. E con una caratteristica meravigliosa: tutti i proventi ricavati dalla sua commercializzazione (proventi sui cui oggi, 20 marzo, Bandcamp non prende nemmeno commissioni) saranno devoluti allo Spallanzani di Roma, l’Istituto Nazionale per Malattie Infettive che è un vero e proprio faro (e un faticoso avamposto di cura) in questi giorni funestati dalla presenza pervasiva del CoVid-19.
Allora, prima di tutto la musica, traccia per traccia:
Ribadito che anche solo per principio è decisamente il caso di andare sulla pagina Bandcamp della release ed acquistare, fateci dire due ulteriori parole. Chiaro: non ci sono tutti, c’è qualche ospite “fuori linea” (Delphi, ma è un lusso averlo in squadra), ma sono veramente in tanti. Ed è un piacere rivederli assieme, con tanto di qualche nuovo ingresso – e fare il punto su quanto tempo è passato e anche su come è passato, rispetto a quando parlavamo di scena Beats. Come sospettavamo, di tempo ne è passato tanto e pochissimo alla stessa maniera. Tanto, perché ora le direzioni stilistiche si sono fatte numerose, ciascuno ha affinato la propria voce nella sua maniera e con un preciso tocco, allontanandosi dall’iniziale matrice comune (quella che danzava sulla retta parallela tra Prefuse 73 e Flying Lotus).
Tracce interessanti ce ne sono parecchie, anzi, lo sono praticamente tutte. Dovendo trovare un filo comune (e un “passo in avanti”, rispetto a qualche anno fa), c’è davvero una grande attenzione a trovare il “senso di profondità”, non solo con scelte evidenti – i pad atmosferici a sostegno – ma soprattutto con la perizia tecnica nel mixare, nell’ingegneria dei suoi, piccoli particolari di malizia produttiva che fanno la differenza (ascoltatevi ad esempio obbligatoriamente con le cuffie la bellissima traccia che Indian Wells ha costruito con la collaborazione di Andrea Rizzo, ma anche quella di Ckrono). Segno di una definitiva maturità complessiva.
Chiaro, ora si fa più fatica a “marketizzare” questo talento, visto che non c’è “un” suono o “un” indirizzo artistico che fa da comune denominatore, e questo è un problema quando si tratta di vendere mediaticamente un plotone di artisti. E’ però l’ennesima dimostrazione che fra le mura del nostro paese ora c’è qualità abbastanza per costruire una scena musicale di “dancefloor intelligente” che non ha bisogno, per operare ad alto livello, obbligatoriamente delle ospitate straniere. Non è un discorso di sovranismo (i sovranisti, tendenzialmente, i club li vorrebbero chiudere e abbatterli col loro bepensare, cit. Frankie Hi Nrg, ricordiamocelo), è più che altro la consapevolezza che anche quando riprenderanno le cose, quando si tornerà piano piano alla vita normale, comunque la partenza sarà graduale e sarà su un terreno molto accidentato dopo le bastonate economiche prese per lo stop forzato. Per scelta o per necessità, sarà il momento giusto per riscoprire gli artisti che hai “in casa”: più disponibili come calendario, più abbordabili come costi, più “dedicati” all’idea di far ripartire il tutto nei propri territori.
E’ una cosa su cui qui a Soundwall stiamo spingendo da tempo (da quando ancora anni fa abbiamo dato il via alla serie Giant Steps, per dire…). Lo troviamo un riequilibrio necessario e salutare. La “sprovincializzazione” che ha portato all’avvento del modello inglese e berlinese di clubbing sui nostri territori infatti è stata fon-da-men-ta-le, non lo dimenticheremo mai, non ci fosse stato forse saremmo ancora qui ad arrancare coi “Dj Pullman” cugini del PR (o PR essi stessi) o a far suonare i grandi vecchi dell’house americana in contesti coca&champagne; o, peggio ancora, saremmo completamente scomparsi in favore del monocolore latino-reggaetoniano. Il clubbing all’anglosassone, alla berlinese o alla balearica è stato un avanzamento culturale enorme per la nostra vita notturna e, ora, è giustamente una realtà fortissima, che si è fatta industria e potere. Meriti acquisiti, frutti di un lavoro lungo, certosino, professionale. E la sua presenza ha avuto anche ricadute nel rendere più consapevoli, maturi, organizzati, consistenti gli artisti italiani.
Quello che ora dovremmo arrivare a capire è che tutti gli artisti inclusi in questo “Distance Will Not Divide Us” meritano o meriterebbero lo slot da headliner in una serata, ciascuno a modo suo e non (solo) come pacchetto pre-confezionato. Un passo a cui si arriva se i vari promoter hanno coraggio e forza nelle loro idee, ma anche se il pubblico capisce finalmente che fra le mura della propria casa c’è gente cazzutissima, artisticamente.
Manca solo una cosa, in tutto questo. Lo sappiamo che è diventato un argomento “di moda”, e tirarlo fuori ti fa fare bella figura e sentire chic, ma non per questo è meno vero: se fra cinque, sei anni esce un nuovo “Distance Will Not Divide Us” – speriamo non per motivi di pandemia – sarebbe bello che almeno un terzo dei producer in tracklist fosse donna. Non vediamo come negativo il fenomeno “kraviziano” delle donne dj dedite a techno ed affini: è uno degli sbocchi possibili, non è una roba da combattere ed avversare. Il problema è quando diventa l’unico, ecco. Il modello Kraviz ha figliato Amelie Lens ma anche, tanto per fare un nome, una Cera Khin o una VTSS: è cosa buona e giusta. E fa bene alla musica. Vediamo però quando ci saranno tante nuove Tokimonsta, magari pure molto più brave di lei. E ancora di più, vediamo quando ci saranno in Italia. Tante, riconosciute, apprezzate.
Fantascienza? Macché. Anche una raccolta come “Distance Will Not Divide Us” sarebbe stata fantascienza, qui, dieci o quindici anni fa. Avanti, e coraggio. E noi pubblico, noi ascoltatori, noi appassionati, facciamo sentire il nostro supporto e teniamo sempre aperte le nostre orecchie, invece di rifugiarci solo nelle messe cantate preconfezionate.