C’è un equivoco che si trascina tra me e Max Casacci da, mmmmmh, giusto sedici anni. Da quando cioè mi fece sentire “Mentale Strumentale”. Oggi lo potete sentire tutti questo album, inaspettato e bellissimo “Regalo da lockdown” dei Subsonica, ma nel 2004 – quando venne creato – la sua circolazione rimase confinata a chi ci suonava, a chi lo registrava, a chi doveva produrlo e poi metterlo in circolazione, a chi poi venne coinvolto in una (inevitabile) disputa legale creatasi attorno a tutto ciò. Più a qualche amico stretto – tra cui il sottoscritto. L’equivoco nasce dal fatto che la mia reazione fu “E’ bello, ma…”. Ora, se posso, piccola lezione per gli aspiranti giornalisti: qualsiasi artista, anche quello più amico e comprensivo e intelligente ed autocritico, non prenderà mai bene lì per lì una recensione negativa o comunque non completamente positiva, anche solo abbozzata. Mai. E quindi quel mio “E’ bello, ma…” alla fine, per sedici lunghi anni, sarà registrato nella testa di Max (amico reale e persona eccezionale, tra l’altro) più per il “Ma” successivo che per il “E’ bello” iniziale. L’ho scoperto dal messaggio con cui mi ha anticipato, qualche giorno fa, l’uscita del disco, armato di un inciso “battagliero”; e da altre amicizie in comune che mi dicevano giusto ieri “Oh, hai visto che alla fine ‘Mentale Strumentale’ è uscito? Che poi Max mi diceva che a te all’epoca non era piaciuto granché…”.
Falso. A me era piaciuto. Anche parecchio. Un po’ perché già la sola “Detriti nello spazio” avrebbe meritato l’acquisto dell’LP intero; un po’ perché apprezzavo la scelta coraggiosa (pur sapendo che era – in parte – un calcolato gesto di provocazione verso la loro allora etichetta discografica); un po’ perché in alcune parti, manco poche, era bello davvero. Il mio “Ma” aveva due motivazioni. Una più banale e puntuale, da recensore: lo trovavo ancora da affinare in alcune parti, in alcuni mixaggi; lo trovavo ancora ingenuo o comunque da migliorare in qualche suono, in qualche particolare, o poco aggraziato in alcuni micropassaggi ancora da limare (perché comunque avevo l’ottimo “allenamento” da glitch teutonico, da Shitkatapult o da Murcof), e su questa cosa va sottolineato che, visto in un certo modo, era il migliore dei complimenti che potessi fare a una band di cui avevo ed ho grande stima artistica – ovvero li ho sempre messi a fianco di termini di paragone alti, reali, internazionali, dei termini di paragone migliori e più difficili, non li ho mai confinati nel ghetto de “Bravi, bravissimi per essere italiani!”. A maggior ragione era da fare per “Mentale Strumentale”, che usciva completamente dagli alvei del pop e della melodia da cantare in coro nelle arene di quartiere per entrare invece nei corridoi della sperimentazione, della destrutturazione, dell’esplorazione, del post-tutto. Un contesto che trova la sua forza di essere e di esistere (anche) nel vivere ramificato in un network globale.
Ecco, con questa osservazione scivoliamo nel secondo punto di perplessità che ha figliato il “Ma” di sedici anni fa. Ero perfettamente consapevole e debitamente informato della lotta creatasi tra Subsonica e la Mescal, sapevo che “Mentale Strumentale” era un album creato anche per liberarsi dal contratto con la label di Valerio Soave (all’epoca una potenza del mondo indipendente, quando “indipendente” aveva ancora un senso reale a trecentosessanta gradi, non era solo una categoria di Spotify per canzonette filastroccose). Ecco. I Subsonica allora non erano quello che sono oggi, ma soprattutto la musica allora non era ciò che è oggi. Allora, era ancora pazzesco ed assurdo che un gruppo di un’etichetta indipendente riempisse i palasport, scalasse le classifiche, conquistasse le radio commerciali e tutto questo senza tradire se stesso in alcun modo. Originariamente, i Subsonica sono stati la bandiera che avrebbero dovuto essere (e non sono stati) pochi anni prima i Casino Royale di “Sempre più vicino” e ancora di più “CRX”: quel gruppo di artisti che mandava affanculo pregiudizi, paletti, schermature, dinamiche consolidate e con la sola forza della propria arte portava un messaggio “alternativo” nel mainstream. Anzi, pardon, non solo “alternativo”, ma “alternativo e contemporaneo”: i Subsonica erano quelli che nelle interviste ti citavano la Ninja Tune e la ~scape, la drum’n’bass e i Kyuss, e se oggi questo è normale per molte nuove stelle del pop (…a cui però vorresti chiedere: ma allora perché fai musica così sciatta e banale?) all’epoca era invece abbastanza sconvolgente. La band torinese portava avanti una battaglia culturale fondamentale ed inedita: rendere inclusive ed appassionanti le nicchie proprio così come erano; raccontarle, valorizzarle, trattarle con totale rispetto ed assoluta dignità come se fossero cose da grandi numeri, inserirle insomma nella narrazione quotidiana di molte persone. E, nel fare tutto questo, non rinunciare ad essere pop e, per certi versi, a fare pop. Con la speranza di migliorarlo, questo pop.
Oggi l’indie (così come l’hip hop) ha invece solo interesse ad entrare nel pop e basta, rinunciando senza batter ciglio a se stesso e al suo DNA fondante, riprendendo avido le modalità, le scelte e le dinamiche del mainstream più “piatto” pur di arrivare subito a numeri di cui vantarsi e piccoli stipendi con cui mantenersi. Parliamo sia degli artisti che degli ascoltatori, beninteso: è una critica a tutti. L’idea di “lotta culturale” è andata ad affievolirsi, per affluire invece quasi inerte in un mare magnum molto vario, anche molto interessante, sicuramente privo di steccati e di pregiudizi (bene!), ma un po’ indistinto e narcotizzante. Ma non divaghiamo. Stavamo parlando del 2004, non del 2020.
Nel 2004, ecco, i Subsonica erano una bandiera. “Mentale Strumentale” riusciva al tempo stesso ad alzare tantissimo questa bandiera (un album sperimentale!, difficile!, complesso!, senza compromessi!) e ad alzarla purtroppo troppo. Non sarebbe stato capito, quel disco. O sarebbe stato capito nel suo senso meno nobile: una “strattonata” bastarda per liberarsi della Mescal (e andare a bussare quattrini, da posizioni contrattuali di forza, ad una major, chiedendo comunque libertà espressiva). Nel 2004, i Subsonica polarizzavano attenzioni, emozioni ed ispirazioni come non mai in tutti coloro che credevano che “…un altro pop è possibile”: “Mentale Strumentale” li avrebbe traditi, li avrebbe fatti restare con la terra sotto i piedi. Era un abdicare alla lotta, era un riposizionarsi per proprie convenienze e vicende personali e non piuttosto per scelta strategica collettiva; era un’arma servita al “nemico”, perché l’inevitabile flop commerciale – per i parametri del pop – di un disco come “Mentale Strumentale” avrebbe servito su un piatto d’argento l’argomento “Ecco, vedi, in realtà questa musica per pochi fissati non va da nessuna parte, se non è ammorbidita, se non è melodia”, e non era il momento per offrire il fianco ad una osservazione del genere, giusta o sbagliata che fosse. Perché pensavamo ancora di poter “vincere”. Erano i tempi in cui tantissimi appassionati di musica in Italia erano (ancora) convinti che le cose potessero davvero cambiare, che la generazione dei pensosi cantautori o dei potenti rocker di provincia da stadio potessero finalmente essere pensionate per essere rimpiazzate da chi pensava europeo, pensava globale, ascoltava Bristol, i Kyuss, i Beastie Boys e i Radiohead, sapendoli in qualche maniera reinterpretare e far confluire nella propria musica senza essere calligraficamente ed infantilmente derivativo, senza perdere in appeal “comunitario” coi grandi numeri.
(“Mentale Strumentale”; continua sotto)
Oggi tutto questo non c’è più. I Subsonica non sono più un simbolo ma solo un’ottima band (probabilmente ad oggi la miglior band dal vivo in Italia, tra quelle capaci di riempire un palasport); dopo il 2004 hanno fatto dischi bellissimi, belli, così così, belli di nuovo, sono riusciti a restare uniti nonostante mille spinte centrifughe, hanno continuato ad avere un rapporto onesto coi loro fan, sono rimasti integri personalmente. Oh: hai detto nulla. E’ tantissimo, tutto questo, tantissimo. E’ più di quello che il 99% di chi inizia a fare musica ottiene e può sperare di ottenere. Però ecco: non sono più il simbolo che erano nel 2004, non sono più “bandiera”, e chi all’epoca aveva voglia di “bandiere” e di far battaglie oggi o vive la musica con meno enfasi, o ha smesso di sperare in una rivoluzione e in una palingenesi del pop ma si gode le cose belle (o remunerative) e stop.
Riascoltato così con meno pathos e meno investimento emotivo, “Mentale Strumentale” è “Bello” e basta probabilmente senza bisogno di aggiungere un “Ma”, anche perché nel frattempo anche tutto il mondo glitch ed elettronico in un quindicennio non ha alzato l’asticella, anzi, forse l’ha abbassata. E quindi i piccoli limiti e le piccole ingenuità “da esperto” di “Mentale Strumentale” sembrano oggi meno evidenti, saltano meno all’occhio e all’orecchio, o comunque sono più perdonabili.
Anzi. “Mentale Strumentale” oggi forse trova un valore che prima non aveva, o non era strategico: fa capire che anche nel mondo della sperimentazione e della destrutturazione bisogna (ri)prendere a pensare in maniera complessa, a lavorare su più registri insieme, a non limitarsi al solo digitale, a coinvolgere più menti alla creazione del “magma musica” e non essere invece solo tu-e-il-tuo-laptop. Questo ci è venuto in mente ascoltando il, peraltro bello, nuovo lavoro sulla lunga distanza di Lorenzo Senni: è un album interessante, calibrato e scolpito molto bene nei suoni, con un bel mood complessivo; ma ascoltato di fila dopo “Mentale Strumentale” se da un lato suona meglio e molto più contemporaneo, dall’altro sembra un po’ troppo solipsistico, troppo “fatto da una persona sola”, e con una voce univoca lì dove – saranno i tempi da lockdown? – inizia ad esserci la voglia di sentire invece progetti a più voci, a più mani, a più teste che si mettono lì e lavorano insieme… e raccontano le strade notturne e le loro anime, invece degli spazi mentali personali nelle proprie camere e nei propri home studio.