A pochi mesi dall’uscita di “Be Up A Hello” l’album del cosiddetto “ritorno alle origini” per Squarepusher, Thomas Jenkinson torna con un nuovo corto a titolo “Lamental”, perfetto sottofondo per isolamento e deriva di quiete dopo le frenesie dell’album. A pochi giorni dall’uscita abbiamo avuto l’insolita occasione di parlarne direttamente con lui, andando a sfatare quell’idea di uno Squarepusher analitico e spigoloso che non parla volentieri e scoprendo, invece, una persona benissimo disposta ed inaspettate sinonimie tra la sua musica e i Daft Punk.
E’ difficile dopo tanti anni “essere Squarepusher”?
No, non lo è affatto: perché è semplicemente essere se stessi. Per me “essere Squarepusher” consiste nel fare sempre esattamente quello che voglio. Ogni volta mi impegno in ciò che ritengo interessante, e lo faccio in maniera onesta. Non ci sono piani, non ci sono strategie, sono le cose che ho sempre fatto.
Mi sembra anche tu abbia mantenuto la stessa passione, in effetti…
Assolutamente sì! Sai, Squarepusher è un nome che uso, è in fondo solo il nome che metto sul disco, alla fine quello che senti sono io. Squarepusher è il nome che conoscono tutti, ma io non ho fatto altro che fare sempre la stessa cosa: lavorare a quello che mi interessa. E’ una cosa che faccio fin da bambino, da adolescente nel tempo libero ho registrato tantissima roba; quindi alla fine possiamo dire che si tratta di un hobby che ha preso il sopravvento fino a diventare la mia vita.
Senti mai il dovere o comunque l’obbligo di dover accontentare i tuoi fan?
No, mai! Non c’è mai un senso del dovere nel mio lavoro.
Cosa è cambiato nel tuo “essere Squarepusher” nel corso degli anni?
Questa è quel genere di domande a cui tu puoi rispondere sicuramente meglio di me (ride, NdI). Solo tu puoi giudicare questa cosa. Devo dire la verità: non mi interesso quasi per niente della cosiddetta public exposure, e non ci tengo ad indagare sugli effetti della mia musica nel mondo: mi limito ai feedback degli amici. Non c’è snobismo, è semplicemente perché per me sarebbe come cercare di dare un senso ad una cosa troppo grande. Credo poi sia anche un meccanismo di difesa, per salvaguardare l’indipendenza della mia mente. Se ci pensi, la risposta del pubblico è imprevedibile e variabile, ci sono dischi che vent’anni fa erano considerati spazzatura ed oggi sono celebrati come capolavori. Per questo, davvero, non faccio molta attenzione a ciò che pubblico o stampa possono pensare della mia musica.
Il tuo nuovo ep “Lamental” mi ha entusiasmato. Parlandone successivamente con un amico, mi ha detto che secondo lui il mio entusiasmo incontenibile, in particolare per una traccia come “The Paris Track”, è dovuto al fatto che ricorda i Daft Punk, di cui sono grande fan…
Questo è davvero interessante! Per me la musica è una forma di terapia. Una delle cose che la musica fa per me, è aiutarmi a stare meglio quando sto male. Quella traccia si chiama “The Paris Track” perché l’ho scritta nel periodo subito successivo agli attentati di Parigi, nel 2015. Scrivere questo pezzo è stato il mio modo di affrontare il trauma; allo stesso tempo, stavo anche cercando di articolare il mio profondo affetto per l’house music francese. Certamente, penso sia chiaro a tutti che la mia musica non è che proprio somigli a quella dei Daft Punk; però sì, in qualche modo esiste un riferimento ai Daft Punk per quella traccia.
Se uno ascolta in ordine cronologico gli ultimi tuoi due lavori partendo da “Be Up A Hello” per arrivare a “Lamental” si ha proprio la sensazione di una descrizione temporale del periodo pre e post pandemico. Che ne pensi? E’ una sensazione in qualche maniera sensata?
Questo è uno di quei casi interessanti in cui la musica assorbe significati sempre nuovi in base al contesto in cui viene ascoltata o percepita, “Lamental” è un lavoro che risale alla fine del 2019, ben prima che si sapesse qualcosa del Covid-19, quindi non posso certamente dire che sia connesso a questa situazione che stiamo vivendo. Tuttavia, credo anche io che questo EP sia la sonorità adatta per questo preciso momento. Il video di “Detroit People Mover” riflette proprio questo approccio.
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“Be Up A Hello” invece sembra descrivere la frenesia con cui il mondo si è presentato a questo periodo. Tra le altre cose, in un momento in cui tutti sembrano cercare il suono del futuro tu sei andato a rispolverare delle sonorità molto vicine a quelle dei tuoi esordi. E’ un atto di ribellione, il tuo? Magari contro l’uso delle tecnologie e di una società sempre più tecnologica? Magari anche contro i robot…
Questo disco non è una pura rappresentazione dei miei vecchi set up e dei suoni di allora, perché ci sono diverse novità. Secondo me è più giusto parlare di un ibrido, in cui quello che risalta è il modo in cui vengono processati dei vecchi strumenti per dargli però nuova voce. Però è anche vero che il suono viene da quegli stessi vecchi strumenti dei primi anni novanta. Il punto sta nel fatto che per me la musica, come ti dicevo, è una terapia. Nel momento in cui è venuto a mancare un mio carissimo amico (Chris Marshall, NdI), ho deciso di dedicargli della musica: quindi mi sono ritrovato a fare musica per lui e non per fare un disco, capisci che intendo? Ho deciso di usare gli stessi strumenti che io e lui eravamo abituati ad utilizzare quando eravamo ragazzini. Abbiamo proprio imparato ad usarli insieme, lui aveva una mente molto tecnica. Non avevo nessuna intenzione di farci un album, devo essere sincero, ma quando poi ho realizzato quaranta/cinquanta idee di tracce, ho pensato di selezionarne alcune e pubblicarle.
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Non posso dimenticare che tu sei anche molto legato al jazz. Posso chiederti cosa pensi di questa nuova ondata jazz, soprattuto della nuova scena londinese, e se c’è qualcuno che ha attirato la tua attenzione?
Non penso di poter dire nulla a riguardo perché non ho prestato adeguata attenzione per poter esprimere un qualsiasi parere. Sarò sincero: non c’è nulla che mi abbia attratto tanto da doverci spendere del tempo per ascoltarlo.
Quindi sei l’unica persona in tutta la Gran Bretagna a cui non piace Shabaka?
Oh stai parlando di quello dei The Comet Is Coming vero? Oh no be’, lui è fantastico.
a questo punto però mi chiedo cosa può impressionare uno come te?
(ride, NdI) Non lo so. Io provo particolare gioia nei suoni ambientali e in quelli casuali, quelli cioè che non hanno il proposito di diventare musica. Trovo che una delle cose più belle dell’essere umani è che si viene trasportati da sensazioni che non sempre trovano una ragione logica; semplicemente, quando ti arriva la gioia la segui.
Il tuo rapporto con la dimensione live e con il fare musica live è cambiato, o meglio, è migliorato?
E’ in continua evoluzione, quindi non del tutto. Per me fare musica dl vivo implica sempre la necessità di scendere a compromessi. “Be Up A Hello” è stato realizzato utilizzando un intero studio pieno di strumenti molto fragili, a volte piuttosto vecchi, e non c’è nessuna possibilità di portare tutto quello su un palco. In realtà il compromesso c’è sempre: la musica che porti sul palco è sempre ripensata e riadattata rispetto a quella sul disco. In pratica devi ricominciare da capo ogni volta e cambiare tutti gli strumenti. E’ per questo che il mio rapporto è in continuo cambiamento, perché le condizioni a cui devo adattarmi sono sempre diverse: ogni venue poi funziona in maniera molto diversa. Ho diversi progetti per la musica live, dalla band, alla musica per organo, e per ognuno di questi c’è un approccio diverso. In realtà il palco non è mai stato il mio sogno ed è, in effetti, un parte della mia vita da musicista che a volte trovo molto frustrante, sopratutto perché non posso soddisfare la mia attitudine perfezionista
Ti faccio un’ultima domanda: chi è il prossimo Squarepusher?
A questa domanda forse dovresti rispondere tu… Dal mio punto di vista, le cose appaiono molto diversamente rispetto a quello che si può vedere da fuori (ride, ma è quasi un sogghigno NdI).