Questa intervista non doveva esserci. Questa intervista non doveva esserci, perché – paradossale – “W” ovvero il nuovo lavoro dell’intervistato qui in questione è, massì, un disco bellissimo. Anzi: a parere di chi scrive, il più bello che abbia mai fatto. Ora: di solito questo è un motivo in più per metterla in cantiere, l’intervista. Quanto volte è capitato di dire parlando con un ufficio stampa “Ok, l’intervista ve la facciamo ma solo se il disco ci piace?”. Oh: eccome se ci è piaciuto, “W”. Ed è pure piaciuto tanto, tantissimo in giro: mai come ora, infatti, lì fuori nel mondo si è parlato e si sta parlando così tanto di Populous, anche al di là della cerchia degli appassionati (quella per cui è da oltre quindici anni, dai suoi sofisticati e bellissimi esordi con la Morr Music, che Andrea Mangia è un talento cristallino). Il problema però c’è, ed è che un po’ tutti quanti ne stanno parlando ricalcando le linee guida indicate nel comunicato stampa fatto girare: recensioni ed interviste che ruotano tutte attorno a dei concetti ben definiti e molto ricorrenti. “W” che sta per “Women” quindi disco dedicato alla figura femminile/queer, il disco più vicino al dancefloor perché frutto (anche) dell’attività da dj sempre più frequente, il disco insomma della liberazione, anche fisica, come indicato dalla copertina… eccetera eccetera eccetera. Tutto vero, per carità, tutto giusto. E Populous per primo spinge su questi argomenti, parlando coi media. Ci tiene, evidentemente. Ma tutto questo rischia di mettere in ombra quanto il suo lavoro attorno a “W” sia stato affilato e calibrato come non mai, quanto la scrittura si sia fatta preziosa, quanto non sia un disco solo ed esclusivamente da festa o da orgoglio&liberazione, anzi, sotto questa patina superficiale si nasconde in realtà molto, molto altro. Cose che ci tenevamo moltissimo a scrivere, ecco; e per farlo l’idea era proprio di concentrare tutta l’attenzione possibile sul disco e non sulle parole attorno ad esso, nemmeno sulle parole dell’artista. Invece, è andata in altro modo. Ma ne è valsa la pena. Delle varie chiacchierate fatte con Andrea Mangia, comprese quelle a registratore chiuso, questa è stata una delle più belle ed illuminanti, per quanto ci riguarda.
Quindi insomma, come ti dicevo io non volevo manco intervistarti… perché volevo fare giustizia a “W”, nel mio piccolo, concentrando l’attenzione su di esso.
Sì, capisco il tuo discorso: quando ti rendi conto che tutta una serie di discorsi rischiano di oscurare la musica di per sé, il lavoro che c’è dietro. Effettivamente di “W” non si parla della cura per i singoli suoni…
…che è enorme, con delle raffinatezze davvero notevoli.
Abbiamo lavorato un sacco per farlo suonar bene, questo disco. Vero. Però ecco, sai come funziona il mercato della musica: la gente è più attaccata alle cose che stanno più in superficie. Che poi questo non significa che ciò che sta in superficie sia per forza una puttanata senza importanza, tutt’altro. “W” è fondamentale, per me, anche perché è il primo disco che faccio con un preciso significato, con una precisione visione sociale – quasi politica – da trasmettere. Non è insomma solo un mio “gioco” personale, con delle regole e degli obiettivi che posso capire solo io e altre tre persone, come posso aver fatto in passato: stavolta molte delle motivazioni che stanno dietro a un mio album sono davvero serie, a livello collettivo, politico quasi, di vita proprio. Però sono stato attento a non traslare tutto questo in un disco pesante, retorico. Sì, le motivazioni del concept che sta dietro a “W” per me sono molto, molto importanti. E al tempo stesso sì, è vero che le persone sembrano concentrarsi quasi solo su di esse, perdendo magari di vista altre caratteristiche importanti di questo lavoro. Ma non riesco a dispiacermene troppo: perché scegliere di puntare così tanto su un’idea, un messaggio, un principio è qualcosa che comunque era un rischio, che sono orgoglioso di aver voluto correre. Nella mia piccola cerchia di amici mi hanno molto appoggiato su questo, ma al tempo stesso mi hanno giustamente subito messo in guardia. Protopapa, ad esempio: lui è molto dentro alla comunità queer, mi ha immediatamente avvertito “Se decidi di fare questa cosa – e fai più che bene – devi comunque stare molto attento a questo, questo e questo”.
Ha detto bene sì.
Non so, anche l’altro giorno per dire leggevo un post di Arci Lesbica dove si continuavano a fare distinguo, ad ergere steccati, una cosa tipo “Non sentiamo parte della nostra comunità gli uomini che si sentono donne”, rivolto implicitamente anche ai transessuali. E’ un terreno molto accidentato e complesso, ecco. Ma tornando a quello che dicevi tu, ovvero che attorno a questo disco stanno passando un po’ sotto silenzio altri aspetti più tecnici e prettamente “musicali”: è vero. Ma è anche vero che da tutte le persone che conosco che sono anche produttori, miei colleghi insomma, ho avuto feedback davvero entusiastici: loro ovviamente sono parecchio attenti a come è fatto un disco, alle difficoltà nel costruirlo bene, nel farlo suonare bene. Ed è una soddisfazione, sentire i loro complimenti. Per quanto riguarda invece i media, che dirti… soprattutto quelli mainstream, vero, si sono concentrati sulla faccenda del concept. Ma è ok così. Vuol dire che è un disco che funziona e “cattura” a più livelli. Cattura chi ascolta musica in maniera più attenta e tecnica, come te, e chi invece ne ha una fruizione più superficiale – superficiale tra virgolette, naturalmente – e si fa più colpire dal messaggio principale.
Messaggio comunque per cui tu ti senti molto coinvolto. Leggendo le altre interviste che hai rilasciato finora, mi sembra infatti che non ti sforzi mai di riequilibrare, di portare un po’ la chiacchiera anche su questioni più prettamente musicali. Indulgi molto volentieri tu per primo nel ragionare su come “W” sia il tuo album femminile, queer, su come sia una “liberazione” in primis fisica…
Sai cosa? Questo è davvero il primo disco che faccio in maniera cento per cento onesta. Perché mi sono detto: “Basta farsi le pippe sui software che uso, sulle cose da nerd, sulle scelte stilistiche, sul fare un disco di cumbia digitale o che so”…
Eh sì, la cosa dei riferimenti colti e ricercati da dichiarare…
Esatto! Basta, basta con questa cosa. Volevo arrivare a fare musica con totale libertà, fare insomma quel cazzo che mi pareva. Per dire, ad un certo punto mi è venuto proprio in mente “Dig Your Own Hole” dei Chemical Brothers. Tu dirai: e che cazzo c’entra con “W”?! In realtà, quello è il disco in cui i Chemical erano arrivati a fare esattamente il cazzo che gli pareva, senza porsi il minimo problema di coerenza di genere. E’ il disco in cui, me li vedo, sono lì in studio e si dicono “E qua, mettiamo una chitarrina psichedelica… sì dai, ci sta”. Sono proprio arrivato ad impormi, molto esplicitamente, un “Basta farsi mille seghe sullo stile, basta dirmi ‘Eh questo suono lo devo fare così e quella traccia cosà, così può essere suonato da… così può essere suonato dalla scena di…’. Basta”. Volevo finalmente arrivare a raccontare alle persone chi è Andrea Mangia, non chi è Populous: voglio fare una cosa lavorando con gli amici, voglio espormi in maniera forte all’interno della comunità queer, a cui grazie anche a Myss Keta e Protopapa mi sono sentito molto legato. L’anno scorso ho fatto il Pride, a Milano, ed è stata una esperienza bellissima, alla fine della quale mi sono proprio detto “Ehi, io voglio andare in questa direzione”. Chi mi conosce sa bene che io sono uno che ride, che scherza molto, che va alle feste; e mi sono reso conto che se uno invece pensa a Populous, al modo in cui viene rappresentato e percepito di solito, non lo collega ad una persona di questo tipo. C’era insomma un cambiamento da fare, un adeguamento, e questo cambiamento è passato ad esempio anche dalla veste grafica, molto d’impatto, molto esplicita e chiara anche nel messaggio. Quasi didascalica. Ma serviva a far capire subito quali erano i contenuti che volevo finalmente associare alla mia musica, per renderla davvero coincidente con la mia persona. Zero filtri, zero pippe mentali.
(Ed eccolo, “W”; continua sotto)
Il paradosso è che alla fine trovo che “W” sia il tuo disco più colto, raffinato ed intelligente proprio nel momento in cui smette di sforzarsi di essere colto, raffinato ed intelligente… Ti faccio un esempio concreto: “Flores No Mar”: la citano tutti per la collaborazione con Emmanuelle, perché ha un giro che ti rapisce subito, è un singolo perfetto, ma nessuno sottolinea quanto sia incredibile e bellissima la sua coda ambient nella versione che c’è nell’album…
Eh ma appunto: io sono fissato per l’ambient.
Lo so!
Un disco ambient l’ho già fatto, è pronto, devo solo mixarlo. Amo questo contesto musicale. Lo ascolto tantissimo. E appunto: in un altro, disco, in un’altra situazione, non avrei mai messo quella coda lì a “Flores No Mar” perché… che c’entra? Che senso aveva, razionalmente? E invece stavolta ho avuto il coraggio di dirmi “Ma sai che c’è, se la voglio mettere e se a me sembra che ci stia bene, io ce la metto”. Poi chiaro, in versione singolo è la Radio Edit dove la coda non c’è, ma nel disco doveva starci assolutamente… In molti appena saputo della decisione mi hanno guardato “Maaaa… sei proprio sicuro? Non è un azzardo? E poi dai, mettila allora per ultima questa traccia”. Invece è la terza, tie’! Anche perché avevo già deciso che la chiusura del disco dovesse essere “Roma” – altra traccia lunghissima, tra l’altro. Insomma: finalmente ho fatto un disco senza pormi problemi di nessun genere. Il paradosso poi è che molti mi stanno dicendo “Ah, il tuo disco più commerciale, più accessibile”… beh, non era questa l’intenzione!
Anche perché, altra visione distorta sul disco secondo me, mi sembra che tutti si soffermino appunto sull’immediatezza del singolo con Emmanuelle e sul fatto, come del resto scritto anche nei comunicati stampa, che sia il tuo album “più dancefloor” e che risente del tuo lavoro da dj. Vedo dire un po’ tutti ‘sta cosa qui e mah, sono d’accordo fino ad un certo punto. Io da dj ti ho sentito un sacco di volte: meni. Alzi i bpm. “W” invece non è come i tuoi dj set. C’è la cassa, sì, ma non è un disco prettamente dancefloor e soprattutto fa tutto tranne che menare, che puntare ad un sicuro “incasso da pista“.
In effetti no, non lo fa. E’ sicuramente un album influenzato dal mio lavoro come dj, ma questa influenza è declinata in maniera strana, non così dritta e diretta. L’idea precisa era di provare a fare un disco che funzionasse sia come ascolto casalingo, che in un club. Il pezzo con Emmanuelle appunto, prendiamo quello: su un dancefloor può funzionare (la Radio Edit, non quella con quattro minuti di ambient!). Quello con Keta non ne parliamo. Ma anche “Roma” se te la ascolti in un club alle cinque del mattino magari strafatto di LSD può avere un suo perché… (ride, NdI). Ok. Eppure sono tracce che reggono benissimo anche un ascolto casalingo. In genere, quello che suono nei dj set io a casa non potrei mai ascoltarlo. Mai. Sono proprio due canali separati. Con “W”, ho provato a trovare un punto d’incontro.
Hai fatto pace invece con “Night Safari”? Un disco che amiamo in molti, ma ti ho sempre sentito descriverlo un po’ in maniera critica da quando è uscito il suo successore, “Azulejos”… che invece è un disco che personalmente ho sempre stimato ma, a essere sincero, non amato.
Eh, lo so. “Azulejos” era un disco dal genere ben definito, completamente proiettato verso un’unica direzione stilistica. Ci sta non ti sia piaciuto davvero.
Perché o anche tu sei al cento per cento proiettato su quella direzione lì, o…
Già. Stilisticamente, è il disco più coeso abbia mai fatto, assieme alle mie primissime cose di quindici anni fa: lavori che come iniziano, finiscono – sempre sulla stessa onda. “Night Safari” invece, che dirti… non è che non mi piaccia, non è che lo disconosca, ma non mi piace come suona. Ci sono delle idee che trovo ancora adesso interessanti, ma non è uno dei miei album che se lo riascolto mi esalto. Un merito però ce l’ha: m’ha fatto capire che devo smetterla di mixare io i miei lavori.
Ah!
Eh. L’ho mixato io, quel disco, esattamente come avevo mixato io i miei primissimi lavori, quelli di dieci e passa anni fa: ma se nel loro caso c’era un senso preciso, volevo farli suonare in un certo modo, un po’ sporco, lo-fi (facendo anche cose strane, tipo far passare tutto prima su bobina, su pre-amp valvolari), e il punto non era la qualità ma l’”idea” del suono, con “Night Safari” la situazione era diversa: quel disco doveva suonare bene e stop, e invece non suona abbastanza bene. “Azulejos” invece suona da dio e “W”, credo, pure. Ho imparato la lezione, mi sono molto impegnato per farlo venire fuori con un bel suono.
Dove sei andato a farlo mixare?
Un po’ l’ho inciso dalle mie parti, “W”, al Sudestudio; un po’ a Milano; un po’ a Bassano del Grappa, allo studio di Maurizio “Icio” Baggio, collaboratore dei Ninos Du Brasil, e lui è bravissimo come mix. Poi altre parti di mixaggio le abbiamo fatte da Jo Ferliga, al suo Tapewave. Il mastering, infine, da Giovanni Versari…
Aspetta, il nome mi dice qualcosa…
E ci credo: è una leggenda. Una leggenda della musica italiana, chiamiamola così, indie. E per “indie” ti parlo di quello storico: Afterhours, Verdena, Casino Royale… era lui a mixare tutti.
Al Nautilus!
Esatto!
La storia degli anni ’90, e non solo. Però sono dischi che non associo al tuo mondo sonoro.
Beh, sono un grandissimo fan di molte cose che ha fatto. I suoi mastering suonano benissimo. Guarda, lo stesso Jo, che al Tapewave fa anche mastering, mi ha detto “Se ti devi far masterizzare qualcosa, fattelo masterizzare da Giovanni”. Sono andato da lui, gli ho chiesto una prova, mi è piaciuta parecchio, ho deciso di affidare tutto il mastering a lui. Gli ho chiesto di non “schiacciare” troppo il suono, ecco: non volevo saltassero fuori ‘sti salsiccioni giganti tutti schiacciati, come nelle robe EDM. Non mi interessava quella cosa. Sì, suona bene, soprattutto in radio, ma si perde completamente la sensualità. Volevo un suono morbido.
Che “respirasse”, come deve fare un buon vino.
Proprio così. Ma poi davvero, basta con questi dischi tutti “schiacciati”: cos’è, fidget house, i Bloody Beetroots? Basta!
Che poi è sfociato tutto appunto nel suono EDM, che per qualche anno l’ha fatto proprio da padrone e, per certi versi, ancora adesso.
Io sto in fissa coi Red Axes come suono, vedi tu. Figurati quanto posso essere vicino all’EDM.
(Foto di Ilenia Tesoro, come anche quella in apertura articolo; continua sotto)
Quale è stata la traccia più difficile da completare?
Mmmmh… banalmente, perché c’erano coinvolte veramente tante persone, ti direi “HOUSE OF KETA”. C’era tutta la carovana dietro, a farlo! (ride, NdI) Non che sia stato un problema farlo, di per sé; anzi, direi che è stato senz’altro il pezzo più divertente da incidere perché figurati, quando stai con loro ridi tutto il tempo, sono persone fantastiche, sono dei matti. L’abbiamo fatto tra l’altro a Milano, proprio il giorno dopo il Pride: io ho fatto i beat, poi Riva ha aggiunto delle cose, poi c’ho lavorato di nuovo sopra io… e poi c’era la cosa del sample, ma non so se raccontartela.
Invece ora la racconti, perché mi sono incastrato proprio lì: in “HOUSE OF KETA” c’è un sample che so che conosco benissimo, ma non riesco a farmi venire in mente di che si tratta.
Eh lo sapevo che tu lo beccavi.
E’ la coda di un pezzo…
In realtà è l’intro, ma tu lo conosci perché sì, effettivamente è diventato la coda di una traccia…
Ho capito! Ora ho capito!
Non dirlo!
Non lo dirò.
Un campione che conoscevo perché appunto quel disco, dove fa da coda di una traccia, lo amo… Poi in realtà è successo che, in maniera completamente casuale, mio padre mi ha dato l’album da cui è estratto quel sample e… “Eccolo! E’ lui!”. Quindi l’ho usato, nel pezzo con Keta. Ma subito dopo averlo fatto, ho iniziato a dirmi “Porca troia, questa cosa col licensing mi metterà nella merda…”. Allora ho chiamato il mio amico Machweo (ecco, a proposito di come noi si sia o non si sia una scena…) e gli ho detto: “Giorgio, mi devi troppo aiutare! Puoi per favore risuonare quel campione lì, modificandolo leggermente in modo che nessuno possa rompermi i coglioni?”. Ci siamo messi insieme a farlo e sì, ci siamo riusciti. Modificandolo leggermente. Sembra lui, ma non è lui.
Ecco perché non riuscivo a beccarlo subito, mi sa.
Se qualcuno dovesse malauguratamente beccarmi, “Eh, hai usato quel campione, fermi tutti”, io posso rispondere “No no no, guarda qua, riapro il progetto… Vedi che è tutto suonato?”. Sono stato colpito tantissimo da una intervista a Danny Brown – il tipo che è uscito su Warp prodotto da Q-Tip, hai presente?, a me piace tantissimo – in cui ha raccontato che col disco precedente, a disco già uscito, si era dovuto indebitare mortalmente per pagare tutto il licensing, perdendoci un mare di soldi. Poi oh, in qualsiasi pezzo hip hop ci sono spesso e volentieri almeno due, tre campionamenti, a fare il licensing a regola d’arte manco potresti uscire, quindi insomma vai avanti, poi se nella migliore – o peggiore – delle ipotesi il tuo pezzo diventa una megahit stile “Harlem Shake” allora sì, paghi, dai un bella fetta…
“M’hai beccato, ok, mo’ ti pago”…
Eh, è un casino.
Stai ancora facendo musica per la pubblicità?
Or ora sto lavorando ad una colonna sonora per una sit com.
Davvero?
Non posso fare nomi. Diciamo che è coinvolto un tipo del giro Zelig… Comunque non ci sono ancora date precise, nulla.
Ma ti piace fare lavori di questo tipo?
Io sono sempre molto chiaro. Se arrivano da me e mi dicono “Senti, ci piacerebbe una cosa alla Thomas Brinkmann…” io per quanto possa anche amare Brinkmann dico subito no. Figuriamoci se poi mi dicono “Ecco, ci vorrebbe qualcosa di trap”: la mia risposta è subito “Non sono la persona giusta”. Se mi chiamano, deve essere perché cercano qualcosa di attinente alle cose che faccio.
Tornando a “W”, un altro brano che mi ha colpito molto è “Banda”. Il suo nome deriva dalla musica bandistica?
Sì.
Quello della musica bandistica è un argomento che ho affrontato di recente intervistando Enrico Rava, lui diceva che è una musica ricchissima, che tra le altre cose è entrata in qualche modo anche nel jazz… Tra l’altro in Salento, dove stai tu, la tradizione in tal senso è eccezionale.
Io sono sempre stato affascinato dalle casse armoniche nelle piazze centrali dei paesi del sud. Quelle dove si mette l’orchestra quando ci sono le feste di paese. Io tra l’altro ho fatto tutta l’infanzia a Sogliano Cavour, il paese dei miei genitori, e avevamo la casa in pieno centro, coi balconi che si affacciavano proprio sopra la cassa armonica. Siamo cresciuti aspettando l’esecuzione del “Bolero” di Ravel, che arrivava immancabile… Quando Barda, con cui ho creato “Banda”, mi ha mandato dei campionamenti da valutare le ho subito detto “Ma hai campionato una banda? E’ perfetto, usiamolo subito”. Quella è musica che ti porti dentro anche se non lo sai.
(Una cassa armonica; continua sotto)
Ma quanto è possibile trovare un filo comune tra le musiche mediterranee e quelle latinoamericane?
Diciamo che sono entrambe musiche che arrivano dal sud del mondo: c’è un certo calore che le unisce. Poi chiaro, ci sono mille sfaccettature, stili, generi, sottogeneri. Pensa che quando sono stato recentemente in Perù e in Messico ho sentito davvero delle cose che manco sapevo esistessero: lì davvero ho capito che noi qui in Europa abbiamo un’idea molto, molto vaga di quello che succede realmente nel mondo, a livello musicale. Lì, poi, stanno accadendo davvero delle cose incredibilmente interessanti. Io magari avrò superato lo stadio più forte e maniacale dell’infatuazione per le sonorità di quelle zone, ma ancora oggi ti posso assicurare che loro hanno, mediamente, oggi come oggi una marcia in più.
Uno sguardo forse più ampio, più globale?
No, è più che… hanno uno swing diverso, un groove diverso. E questo cosa non smetterò mai di invidiargliela. Poi sì, parte di quello che fanno è spaventosamente tamarro, ma anche ‘sti cazzi (ride, NdI). Prendi Bad Bunny: impazzisco per lui! Musicalmente parlando non tutto quello che fa mi piace, ma che personaggio incredibile è? Quando si è presentato da Jimmy Fallon con la t-shirt che denunciava l’omicidio di una trans, o quando si è unito a Ricky Martin per una marcia di protesta contro il governatore omofobo di Porto Rico. Non sono cose per nulla scontate. Noi siamo ancora vittime di mille pregiudizi, pensiamo che in America Latina siano ancora quasi tutti col sombrero e la chitarrina, quando invece…
Ma ti è venuta mai voglia di volgere lo sguardo musicale anche verso est? I Balcani, il Medio Oriente? Stando tu in Salento, che è la “porta” verso l’oriente…
Beh, qui da noi sono in molti ad ascoltare la musica balcanica, anzi, proprio a farla.
Sotto certi versi è diventata pure un luogo comune, una roba da Concertone del Primo Maggio…
Sì, poi però trovi cose come i Noze – te li ricordi? – che mettono insieme house e musica balcanica: quando li ho visti dal vivo sono impazzito! Però c’è un posto che vorrei scoprire più di tutti: il Marocco. Anche se ammetto che la prima cosa che farò, quando si potrà davvero tornare a viaggiare, sarà andare di nuovo in Messico.
Ti ha rapito il cuore.
L’ultima volta che ci sono stato, era febbraio, avevo già preso dei mezzi accordi: “Arrivo a novembre, resto qua quattro mesi, faccio il resident…”. E’ un posto troppo pazzo. Lo amo!
Ma che ci vai a fare. Stai qui: “W” sta andando più che bene, è il momento di battere il ferro finché è caldo. Do’ cazzo vai.
Vediamo come si evolvono le cose. Magari non ci vado ora a novembre, in Messico, magari non ci sto quattro mesi… ma almeno due mesi di fila lì voglio farli. Mi sono davvero innamorato di quel posto. Si mangia divinamente. Si spende nulla. A me poi sembra pure un posto relativamente sicuro, almeno dove mi muovo io…
Per un musicista della tua dimensione, non sono superfamoso quindi ma comunque con una figura consolidata, che tipo di rapporto si ha con la questione del “fare carriera”?
Questa è una domanda da lettino dello psicanalista! Guarda, spesso mi sono ritrovato a dire “Ma cosa devo fare, quanto posso andare avanti così”. L’età che passa, le certezze economiche che ci sono e non ci sono. Io però credo che se non stai davvero morendo di fame – e non sto morendo di fame, non sono ricco ma comunque riesco ad arrivare a fine mese – e finché hai il supporto di persone che ti vogliono bene, è giusto che tu vada avanti. Sì, mi è capitato più di una volta di dire “Basta, mollo tutto”…
…lo so, credo anche di aver intercettato un paio di questi momenti.
Ma se è proprio dai tuoi amici più stretti che arriva la spinta ad andare avanti – e sono le persone che per prime ti verrebbero in aiuto, se gli eventi prendessero una piega non più positiva – penso sia giusto continuare. Paradossalmente, io la vita che faccio ora, la vita proprio da musicista che va in giro a suonare che siano live o dj set, avrei potuto e dovuto farla molto prima: ma ero supersociopatico, timido, spavantato… avevo paura di tutto e in questa maniera, all’epoca, avevo proprio perso l’attimo. Carpe diem ‘sto cazzo, proprio (ride, NdI). Ad un certo punto avevo mollato tutto, avevo pensato a laurearmi, mi sono messo a cercare lavoro, l’ho trovato: da cameriere, da commesso da Zara, di tutto un po’. Poi però è tornata la cosa della musica, e lì mi sono detto: “Se devo farlo, devo farlo seriamente”. L’idea era: magari se inizio a considerarlo davvero come un lavoro serio, metti che cambia anche il modo in cui riesco ad approcciarmici e i risultati che ne possono derivare? E così è stato. Sei diverso tu. E’ diverso il modo in cui ti vedono gli altri. Da “Night Safari” in poi, senza che avessi in realtà delle aspettative precise, è stato tutto un continuo crescendo, passo dopo passo. E tutto questo senza scendere mai a compromessi con nessuno. Anche quando mi chiamavano le major, per dire, per chiedermi magari qualche produzione o la supervisione artistica di qualche progetto, la mia risposta molto tranquillamente era “No, grazie, questo non mi interessa”. Insomma: oggi, quando mi guardo allo specchio, sono di un sereno ma di un sereno… proprio tanto, credimi. Tanto che ora potrebbe succedere qualsiasi cosa, potrebbero dire che non sono capace, che il mio disco fa schifo: beh, non mi toccherebbe, zero. E anche con ‘sto periodo maledetto del Coronavirus, con tutte le date saltate, tutti i soldi persi, il disco che esce quando non puoi portarlo in giro dal vivo: che senso avrebbe prendersela troppo? Non sono solo io in questa situazione, ci siamo tutti. E io al momento ho il culo parato, ho una casa mia, non devo pagare un affitto, ho abbastanza da parte per poter fare la spesa: quale diritto avrei di lamentarmi?
Poi appunto ormai la tua identità artistica ha raggiunto un certo tipo di prestigio e di visibilità. Vedi appunto il fatto che ti cercano gli altri. Magari fosse anche solo per fare colonne sonore.
Questo è molto importante, inutile nasconderlo. E’ una delle possibili strategie di sopravvivenza per il futuro, questa cosa delle committenze. Soprattutto quando inizierà a capitare troppo spesso che resti in giro, fai le quattro del mattino, sei attorniato regolarmente da gente strafatta, tu sei l’unico lucido e inizi a dirti: “Ma io che ci faccio qui…?”.