La miccia l’aveva accesa ufficialmente Selvaggia Lucarelli, con una storia su Instagram: immagini della Praja di Gallipoli (vedi sotto), accompagnate dal testo: “Ieri sera, Gallipoli. Però i concerti no, i tavoli distanziati, il disinfettante nei negozi, la scuola boh, che poi torna il Covid”.
Già così la polemica è montata parecchio. Eppure, anche se il gusto dell’instant indignazione è sempre molto comodo, a questa uscita mancano parecchie considerazioni che magari era il caso di fare. Ad esempio, capire se e quanto la Praja era in contatto con le autorità locali (risposta: sì, tanto, fin da prima della riapertura e anche poi nei giorni e settimane successive). Capire se certe situazioni erano state un caso unico (no, lei ed anche altre località pugliesi avevano avuto il via libera e già nei giorni e settimane passati circolavano altre immagini, meno lasciate alla mercé della rabbia e del gusto dell’indignazione). Osservare i dati epidemiologici, soprattutto. E i dati epidemiologici, in Puglia, ad oggi sono sotto controllo. Nonostante le riaperture. Nonostante l’afflusso di gente da tutta Italia, quindi anche dal “pericoloso” nord. Poi chiaro: è ovvio che una immagine di quel tipo pone dubbi ed interrogativi. Leciti. Doverosi. Li abbiamo messi nero su bianco i dubbi anche in queste pagine, raccontando come un’apertura prematura ed indiscriminata in Serbia abbia creato un’emergenza significativa (una media di 400 nuovi contagi al giorno in una nazione grande un ottavo dell’Italia, posti in terapia intensiva al limite nella capitale Belgrado). Ma né Facebook né Instagram sono un tribunale: è già spiacevole quando ci sono i processi, diventa inaccettabile quando vengono emesse delle condanne. Rabbiose. Sulla base di un post, una foto, un video.
In questo clima surriscaldato, è arrivato poi Marco Carola al Muretto, apertura di stagione dello storico club di Jesolo. Anche qui, video sui social e deflagra la polemica. Girano anche voci incontrollate, alcuni giornali parlano di “4000 persone presenti” a fronte di una capienza di 2970 ma soprattutto autolimitata dal Muretto stesso a 2000 persone, con ingressi solo in prevendita, casse chiuse in serata (il tutto ovviamente andato sold out giorni prima). Lo diciamo subito: non eravamo lì. Quindi sinceramente non sappiamo se le persone fossero realmente 4000 o cosa. Anche se, a rigor di logica e con ogni evidenza, il locale ha adottato le misure necessarie e corrette (e in caso ci saranno i moduli C1 della Siae, quelli che rendicontano i biglietti venduti, a parlare nero su bianco; poi uno può sempre dire che si è fatta entrare gente senza biglietto, ma pare difficile credere che centinaia se non migliaia di persone siano entrate di sgamo… è abbastanza implausibile). Sia come sia, la reazione del Muretto alla polemica è stata dura senza mezzi termini. Qui il post:
Cosa succederà adesso? Calerà la scure su Puglia e Veneto, in quanto a clubbing? E magari pure sulla Romagna, visto che immagini della Villa Delle Rose, di Musica e del Samsara affollati si stanno facendo largo tra le maglie del web, titillando tribunali del popolo assetati di sangue, virus e panico? E ancora: risorgerà forte come prima, anzi, più forte di prima il luogo comune per cui i club e i posti dove si balla sono in ultima analisi dei posti ingestibili, dove regna l’illegalità, il degrado, la disonestà? Eh: questi discorsi ci sono già, circolano virali. E ci sono tra l’altro pure in arrivo da altri settori dello spettacolo e della musica, che si sentono penalizzati perché sottoposti in molte parti a mille limitazioni draconiane mentre in club e discoteche la gente e i gestori apparentemente se ne fottono, e “…si sa come va in Italia, la cultura è sempre l’ultima ruota del carro” (sottointeso: le discoteche demmerda e la musica unz unz non sono cultura, sono deboscia e malavita. Sempre. Immancabilmente).
Non solo. Il dibattito è forte anche all’interno del clubbing, occhio. Molto forte. E un input veramente deciso e significativo l’ha lanciato Joseph Capriati, uno dei nomi oggi più forti, popolari e carismatici, con questo post:
Letto tutto? Bene. E’ importante lo facciate. Perché è importante approcciarsi a tutta questa situazione considerando sempre il quadro generale, ovvero più argomentazioni e punti di vista possibili. Soppesando i pro e i contro. Ad esempio anche quanto scritto dal resident del Sound Department – torniamo così in Puglia – Luciano Esse:
Ok. Ora tocca a noi dire la nostra. La domanda classica è: da che parte stare?
…il punto è che no, non funziona così. Non siamo allo stadio. Non ci sentiamo pronti per emettere sentenze, e nemmeno per ululare insulti verso la curva (l’opinione) avversaria. Soprattutto quello. Siamo qui – su Soundwall, sui social, al bar con gli amici, in piazza con i conoscenti, a casa con i famigliari – a ragionare piuttosto su delle ipotesi e raccogliere aneddoti concreti, impressioni e conoscenze. Ma anche, se possibile, a ragionare a largo raggio, capendo che la tecnica del capro espiatorio (“Tutta colpa dei club, focolaio di irresponsabilità ed illegalità: chiuderli subito”) è monca, così come però è monca pure la difesa “Eh, ma fanno così anche nelle spiagge, nei festeggiamenti calcistici, nei cortei, però lì mica ce la si prende così tanto”. Sono due mezze verità. Messe insieme, non ne fanno una intera – né da una parte né dall’altra.
Allora. L’ideale sarebbe che il discorso pubblico diventasse sempre più somigliante a Pillole Di Ottimismo, il think tank fondato dal professor Guido Silvestri, ovvero la cosa migliore che possiate trovare su internet oggi in italiano riguardo all’argomento Coronavirus. Questo il post fissato in alto nella pagina, il suo “manifesto”:
Fateci però dire un paio di cose, per fissare bene l’obiettivo sul nostro contesto di riferimento, il clubbing. Prima cosa: il clubbing e il ballo sono una realtà difficile, molto difficile. Una delle più difficili a livello di gestione del distanziamento sociale. Vero. Verissimo. Questo però non significa che, nel dubbio, tanto vale chiudere tutto e buttare la chiave, fino all’arrivo di un vaccino. Perché un contesto critico in quanto a distanziamento sociale sono anche molti normalissimi luoghi di lavoro e sedi di vita quotidiana (e in Val Seriana, purtroppo, l’hanno imparato drammaticamente sulla loro pelle), però a quasi nessuno oggi come oggi viene in mente di gridare di nuovo al lockdown completo e draconiano, “Fermate tutto, bloccate tutto“. Praticamente a nessuno. E questo per un motivo ben preciso quasi inconscio: oggi, siamo più preparati. Sì. Più preparati perché abbiamo più conoscenze su come si riconosce e cura il virus, più preparati perché in questo momenti il numero di persone in terapia intensiva è più o meno l’1% (sì: l’uno per cento) rispetto al picco di inizio aprile, più preparati perché le nostre unità sanitarie di base sono meglio organizzate nel tracciamento (anche perché hanno a che fare con numeri decisamente bassi). Più preparati anche nel sapere che sì, una seconda ondata pandemica può arrivare.
Per mille motivi, piaccia o non piaccia, non possiamo permetterci di “fermare il mondo” fino al rischio-zero CoVid (rischio zero che non esiste: si muore quotidianamente di cancro, alcolismo, incidenti stradali, liti famigliari, ma a nessuno viene in mente di abolire l’elettricità, l’alcol, le macchine, le famiglie…). Per motivi correlati, di conseguenza, un nostro dovere ed obbligo è quello di tentare di avvicinarci il più possibile alla vita “normale”: perché solo quella può ristabilire un ecosistema economico-sociale sostenibile, e la sua assenza potrebbe e può provocare dei fenomeni di povertà e rabbia potenzialmente devastanti (…ci sarà da ridere, amaramente, quando verrà tolto il blocco dei licenziamenti e finirà il metadone della cassa integrazione in deroga e non). Alla vita “normale” ti avvicini per tentativi, non è un punto oggi chiaro ed identificabile. Ripetiamo: alla vita “normale” ti avvicini per tentativi, non è un punto oggi chiaro ed identificabile. E ci sono tante vite “normali” dietro al clubbing, agli eventi, ai concerti, agli spettacoli, non solo promoter senza scupoli o artisti ricchi sfondati: facchini, operai, personale di sala, baristi, driver, dj che guadagnano poche centinaia di euro a serata, piccoli negozianti attorno alle aree dell’evento (oltre ovviamente a promoter con scrupoli e professionalità, e artisti ricchi sfondati ma con una coscienza e un’etica); così come queste vite “normali” a loro volta sono intrecciate in maniera inestricabile nell’economia globale ed iperconnessa con tutti e tutto, se economicamente vanno in grave sofferenza loro poi il contagio si diffonde.
E quindi: bisogna, davvero bisogna capire quanto ci si può avvicinare ad una vita “normale”, che sia senza limitazioni, andando a tentativi. Fino a dove cioè il rischio è accettabile, nel provarci. E qui entra in campo la politica. Ovvero il suo potere legislativo – e il suo poter attingere da scienza, economia, luminari vari per mettere insieme tutto quanto e produrre una sintesi che figli infine delle leggi, dei decreti attuativi (non è che un governatore regionale si sveglia e decide che fare, se chiudere o aprire, a seconda di come gli gira: si consulta costantemente con gli esperti, a partire da quelli sanitari, possibilmente scelti fra personalità valide e con esperienza). I confini li setta lei. La politica fa schifo, spesso? Certo. La Lombardia ne è un perfetto esempio: il duo Fontana & Gallera ha dimostrato più volte impreparazione, per non dire di peggio. Ok. Ma è anche vero che la politica, solo la politica!, è in grado di elaborare con gli elementi possibilmente migliori la sintesi necessaria, attingendo da opinioni qualificate, strutture organizzate. Noi non ne siamo capaci: non abbiamo competenze specifiche, possiamo al massimo avere delle opinioni (che ci creiamo fidandoci degli esperti che più fiducia ci ispirano), stop. Non ne sono capaci nemmeno i soli scienziati specializzati, che essendo appunto specializzati tendono a privilegiare solo il loro campo valoriale, il loro campo decisionale e il loro campo d’indagine (un epidemiologo e similari rischia sì di pensare a non far morire una persona di CoVid, ma nel farlo può non considerare se le sue soluzioni creano collassi economici, insostenibili paranoie sociali; lui è concentrato sul rischio medico del virus, stop). Tocca fidarsi della politica, insomma. Delle leggi promulgate. Per quanto contraddittorie ed imperfette esse siano (e spesso, spessissimo lo sono). Saranno contraddittorie ed imperfette, vero, ma nascono da un processo decisionale che è comunque più curato e profondo di quello che possiamo mettere noi scrivendo un post indignato su Facebook o su Instagram. Ha anche una validazione finale stringente, la politica: il voto. La politica, in ultima analisi, siamo noi, i nostri gruppi di pressione e il voto che diamo quando siamo chiamati alle urne (o le manifestazioni dure e/o violente che portiamo avanti, quando sentiamo che ne valga la pena e non si ha più nulla da perdere). Insomma: in tempi di crisi ed incertezze pandemiche, usiamo come bussola i decreti attuativi su cosa si può e non si può fare – sono la bussola meno peggio possibile. Sì: la meno peggio. La politica prende cantonate? Certo. Tante. Grosse. Causate da cialtroneria e, in qualche caso, criminale disonestà. Vero. Però cosa abbiamo di meglio? Noi stessi? Le nostre conoscenze? O magari il nostro epidemiologo preferito, dimenticando che dall’arrivo del CoVid ad oggi non c’è praticamente nessuno che c’abbia azzeccato al 100%, ma proprio nessuno, a partire da Burioni al più ottimista o al più catastrofista?
C’è a questo punto un’altra cosa da dire, e qui torniamo alla questione discoteche sì / discoteche no, clubbing merda / clubbing cultura, al “nostro” punto di vista: noi stessi dobbiamo imparare ad essere più “politici”. Nel senso più alto del termine. Ovvero: più consapevoli; più capaci di mediare; più pronti a capire che bisogna armonizzare rischi ed interessi contrapposti per costruire una casa comune che sia asilo in tempi duri – e non pensare solo ai cazzi propri.
Troppo spesso giudichiamo, invece di costruire
Perché non approfittare di questa fase di transizione per pensare ad un clubbing momentaneamente più sostenibile? Perché non minimizzare i rischi tenendo al momento una linea di basso profilo, senza per forza le superstar della console (che possono tranquillamente resistere uno o più anni senza lavorare) ma con scelte invece più ricercate e meno crea-assembramento? Perché non cogliere questo momento per liberarsi della dittatura dei “soliti nomi” e proporre qualcosa di nuovo, o riproporre il (tanto!) talento che negli anni è stato un po’ dimenticato? Perché non usare i “soliti nomi” attira-folle ed attira-assembramenti in contesti atipici, a capienza forzatamente ridotta, magari in una chiave musicale più sofisticata e ricercata, più sincronizzata coi tempi difficili che stiamo vivendo? E perché non sono i “soliti nomi” attira-folle ed attira-assembramenti a proporre ed incoraggiare quest’ultima soluzione, offrendo la propria presenza a un decimo o almeno un quinto del cachet abituale, ed imponendo delle limitazioni ai promoter che li ospitano?
Tante domande, una sola risposta: perché non siamo abbastanza “politici”. Perché non riusciamo a pensare con un quadro più generale in testa. Perché ci facciamo i cazzi nostri. Perché non abbiamo idee rivolte a un benessere globale del nostro eco-sistema, ma abbiamo invece una visione miope in cui A) vogliamo salvare il salvabile ancorati però alle stesse dinamiche di sempre, un po’ per paura un po’ per mancanza di idee B) stiamo lì a puntare sempre il dito, se ci sentiamo esclusi dalla torta, invece di provare noi a offrire qualcosa di nuovo, qualcosa di alternativo, qualcosa di diverso, costruendolo dando ciascuno un proprio contributo (da clubber, da appassionato, da promoter, da osservatore, da persona con delle opinioni).
Giudichiamo, invece di costruire. Giudichiamo il promoter che torna in pista in locali vecchi e nuovi coi soliti nomi, ma magari senza sapere che è “obbligato” a farlo da vecchi vincoli e clausole contrattuali. Lo giudichiamo, vogliamo la sua morte lavorativa & il dileggio sociale ed attribuiamo a lui tutti i mali del clubbing, quando in realtà non è certo lui ad impedirci di fare qualcosa di nuovo, qualcosa di più armonico – no, non lo è per nulla. Lui fa il suo (rischiando soldi suoi, a differenza di noi che parliamo e critichiamo…), gli altri possono fare il loro (dedicandosi a trovare un pubblico “nuovo” e più ricettivo). Giudichiamo. Continuiamo a giudicare. Giudichiamo, giudichiamo. Puntiamo il dito. Pretendiamo che tutti si schierino dalla “nostra” parte, artisticamente o epidemiologicamente: quando invece dovrebbe essere chiaro che ogni scelta è, comunque, un navigare a vista. Ogni maledetta scelta, in questi maledetti tempi pandemici, è un navigare a vista. E’ nobile la decisione di chi dice “Finché il clubbing non torna senza limitazioni, io sto fermo”; ma per quanto nobile e prudenziale, è comunque una decisione che ha dei costi e che non è per forza detto sia più giusta rispetto a “Nei limiti della legge, provo a fare quanto posso… cerco di capire fino a dove mi posso spingere”.
Giudichiamo. Giudichiamo dicendo “Il comportamento di questo o quell’altro farà ripartire il contagio, criminali, fermiamoli, gogna subito”, dimenticandoci che questa frase è oggi semplicemente una ipotesi, per quanto rispettabile, ma non una certezza. E che ogni passo verso la “normalità” è una boccata di ossigeno drammaticamente urgente – morale o proprio in solido – per un numero enorme di persone. Quindi, non è proprio follia irragionevole provarci, provare a farli, gli eventi. Anche quelli di clubbing, pur nella loro complessità gestionale.
Insomma: rispettiamo le leggi, atteniamoci ad esse, questo il punto numero uno grosso come una casa. Il punto principale. Punto numero due: pensiamo a costruire qualcosa di “nostro”, e non a distruggere ciò che gli altri fanno (perché oggi nessuno sa dove stia la ragione e la giusta strategia). Sanitariamente parlando, tracciamo, monitoriamo, curiamo, isoliamo con tempestività. Culturalmente parlando, invece, lottiamo per ottenere il più possibile per le “nostre” cause, facendo sentire le nostre istanze lì dove si decide: il mondo della musica live invece di infamare club e discoteche (magari in qualche caso pure per motivi giusti) le usi invece per dire a chi di dovere, in modo posato e dati alla mano, “Loro lo stanno facendo e la situazione epidemiologica pare sotto controllo: chiediamo allora di poterlo fare anche noi, non c’è motivo per discriminarci con regole diverse”.
La guerra dei poveri, la cagnara sui social dove si additano e cercano colpevoli, piace forse alle Selvagge Lucarelli e a tutti coloro che si nutrono di like e flame, l’anabolizzante della comunicazione contemporanea. Non facciamo il loro gioco, su. Che poi, che la Lucarelli o chi per essa posti delle immagini di ipotetici assembramenti chiedendo “Ma questo? Ma è giusto? Ma è lecito? Ma è pericoloso?” non sarebbe sbagliato di per sé, attenzione, sarebbe anzi un utile esercizio di controllo civico; la questione è che deve saper diventare un punto di partenza per un confronto corretto, demandando l’applicazione delle leggi, delle condanne e delle sanzioni a chi di dovere, senza invece essere un compiaciuto incoraggiamento alla rissa, alla rabbia, allo scambio di accuse e recriminazioni, alla ricerca di capri espiatori.
Grazie: stiamo già di merda. Il PIL nel 2020 crollerà. La disoccupazione nel 2021 avrà un pesante balzo in avanti. Il nostro debito pubblico nel prossimo triennio arriverà ai limiti dell’insostenibile. Dobbiamo venirne fuori tutti assieme. Se si può, anche ballando e godendosi una serata di musica in quattro quarti – perché no. Abbiamo tutti i mezzi per immaginare come farlo bene, in modo responsabile: lì dove è possibile, nei modi in cui è possibile. Adeguandoci alle leggi, adeguandoci ad una evoluzione pandemica costantemente monitorata.
E chi non ce li ha, questi mezzi d’ideazione ed immaginazione, se li farà venire, se li farà suggerire. O a breve, cambierà mestiere.