Mentre l’(ex) socio Achille Lauro rispolvera i tormentoni dance anni ’90 in una operazione in qualche modo “piana”, per non dire “telefonata”, Boss Doms ha scelto una via diversa: siamo rimasti abbastanza colpiti dall’ascolto di “I Want More”, la traccia che lancia la fase-due della sua carriera, quella da giocare in prima persona. Coglie un po’ lo spirito del tempo più evoluto: prendere suoni e modalità techno “versandoci” sopra della melodia. Troviamo nel DNA di questa traccia più Drumcode che Tv Sorrisi E Canzoni, per intenderci, ma soprattutto fa intravedere una via ancora poco, pochissimo battuta nella musica italiana che non pensa solo a stare nella nicchia e nella propria, nobilissima comfort zone. Ecco perché abbiamo assolutamente voluto scambiare una chiacchiera piuttosto approfondita con lui. Se da un lato abbiamo saputo poco (o nulla) di quali saranno veramente le sue prossime mosse, dall’altro ciò che è emerso troviamo sia molto interessante, in anni in cui troppo spesso regna l’omologazione. Sia nel mainstream, che nelle nicchie. Boss Doms vola di sbieco, e a modo suo, e con arroganza sua, su queste coordinate pre-determinate. Persone e personaggi così fanno bene, nel 2020. Gran bene.
Senti, stai facendo un passo piuttosto importante: non solo perché adesso hai deciso di giocare in prima persona, ma anche perché hai proprio cambiato suono. E lo sottolinei tu per primo, un po’ in tutte le interviste che hai fatto finora. Come è nata questa scelta?
Il suono che senti in “I Want More” mi appartiene in realtà da sempre. Ho sempre frequentato questo tipo di sonorità, è sempre stato parte del mio mondo. Ora però, dopo anni di sodalizio con Lauro, dopo tutto il nostro percorso fatto assieme, mi sentivo quasi in dovere di dare finalmente voce alla mia attitudine, alla mia reale attitudine.
In effetti, seguendoti già da prima, so che la tua identità musicale non era certo solo quella vista con Achille Lauro. Ecco, non ti ha dato mai fastidio essere infilato nella categoria “produttore pop / hip hop al servizio di un altro artista”? Perché questo eri.
Assolutamente no, nessun fastidio, anzi. E’ stato bellissimo, credimi. Abbiamo imparato tantissimo l’uno dall’altro, io e Lauro; il percorso fatto assieme ci ha permesso davvero di conoscere tante cose, tra di noi e per noi stessi. Ci siamo stimolati a vicenda. Poi guarda, eravamo in qualche modo complementari: io più ferrato sulle questioni musicali, Lauro su quelle di business, discografia, eccetera, ma la cosa buona è che alla fine ci siamo anche contaminati un po’ a vicenda, ognuno ha trasmesso all’altro le sue conoscenze e le sue sensibilità. In cinque anni abbiamo fatto un percorso incredibile: siamo partiti da una cantina a Fidene e siamo finiti due volte sul palco del Festival di Sanremo. E tutto questo è stato una scuola sia di musica – e di strategie nel campo dell’industria musicale – che di vita. Ho mai provato del fastidio per il ruolo che avevo? No. La vedo come se fosse stato un viaggio in macchina, in cui siamo sempre stati assieme: Lauro era il pilota, io il passeggero seduto davanti, lì accanto a lui.
Forse eri anche più di un passeggero: magari eri un co-pilota con le mappe in mano che suggeriva quando erano in arrivo delle curve ad angolo pericolose…
Esatto. Ora invece sono io che guido la mia macchina – e avrò dei passeggeri, sì, ma tanti passeggeri diversi. “I Want More” è solo il primo episodio di un progetto più esteso. Non chiedermi di dirti di più, non posso spoilerare…
Va bene. Però allora fammi terminare la metafora “automobilistica” e dimmi quali sono le buche più pericolose che tu e Achille Lauro avete evitato, durante il vostro viaggio assieme.
Ogni volta che abbiamo ottenuto qualcosa di grande, è perché siamo comunque anche stati poco prima sul ciglio di un burrone. Ci sono stati ostacoli da superare, eccome. Che ne so, le critiche sul primo Sanremo. O più banalmente, prendi il video di “Amore mio”: l’abbiamo rifatto due volte, col risultato che a dieci giorni dalla release schedulata mi sono ritrovato io a dover scaricare Final Cut e a farmi il montaggio tutto da solo…
Eh? Ma sul serio?
Sì, ci sono stati problemi, ritardi… Colpa della sfortuna: Mina, mia figlia, aveva appena fatto il vaccino per le cinque malattie avendo però subito dopo una reazione allergica, ovviamente sono dovuto fuggire via dal set. Poi, una volta tutto a posto, sono tornato sul set ma il videomaker che doveva fare il montaggio non era più disponibile, sarebbe tornato solo a deadline già scaduta, e allora mi è stato detto “Dai, fallo tu…”. Ho scaricato Final Cut, mi sono montato il video. Per fortuna mio padre era un montatore: evidentemente qualcosa nel DNA mi deve essere entrato, anche se non mi ci ero mai cimentato in vita mia.
Facciamo però un passo indietro: prima fra le difficoltà e i rischi hai anche citato il primo Sanremo. Non so, a me sembra sia stato più una magnifica opportunità per farsi conoscere, tutto il casino stupido che si è creato attorno a “Rolls Royce”, piuttosto che un problema.
Hai ragione per certi versi ma ti assicuro che lì per lì, quando ti scoppia un casino del genere davanti, resti spiazzato. Non sai bene come reagire. Quando la critica diventa così generica, “di massa”, difficile cioè da affrontare con argomenti razionali e in modo sensato, devi proprio capire bene il modo con cui affrontarla e questo richiede uno sforzo non da poco. Devi attivare molto bene il cervello, per restare illeso. E soprattutto, devi tenerlo sempre acceso. Non puoi fare passi falsi.
Peraltro, ora ti pioveranno addosso critiche un po’ diverse: perché ti potrebbero arrivare quelle da tutte le falanghi di “veri” appassionati di techno e house perché con “I Want More” vuoi portare un certo tipo di sonorità e di cassa in quattro nel pop.
Oh, sta già succedendo! “Per te solo lame”, mi hanno scritto su Instagram… ma ci sta, dai. E’ quasi giusto. Un po’ perché la critica fa parte del gioco, un po’ perché quando fai uno statement musicalmente forte, beh, è giusto che le reazioni siano forti, in bene o in male: non stai accontentando tutti, né vuoi farlo. Ma tutto ciò mi piace. Crea soprattutto una delle sfide che preferisco: far cambiare idea alle persone. Guarda, gli artisti di cui mi sono innamorato di più sono quelli che all’inizio mi facevano letteralmente schifo. Prendi i Radiohead: inizialmente li disprezzavo. Poi, quando sono riuscito veramente a capirli, non sono più tornato indietro. Se ci pensi è sempre così, no? Quando su un argomento sei partito con una convinzione mai poi ne hai maturato una più opposta, il legame diventa più forte, non torni indietro. Questa è la mia challenge. E lo è perché io per primo ho subito tutto ciò, ci sono passato più volte. C’è gente che mi contesta, che non mi sopporta, che ritiene stia facendo una “invasione di campo” discutibile? Bene: il mio successo migliore sarò far cambiare idea a loro, proprio a loro.
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Ma stai lavorando quindi per costruirti un nuovo tipo di credibilità in una scena ben specifica come quella della cassa in quattro, o semplicemente stai andando per la tua strada e certe questioni sono solo effetti collaterali?
Io vado per la mia strada, e non mi importa niente di nulla. Tanto se uno fa le cose bene, mettendoci il 100% di se stesso, tutto il cuore e la passione, non ha e non avrà nulla da rimproverarsi. Lo so che “I Want More” è un po’ una svolta inaspettata, in primis per i miei stessi follower; e in generale so che ci vorrà un po’ di tempo prima che si capisce questo mio nuovo percorso di cui, lo ripeto, “I Want More” è solo un tassello. Ho tante cose già pronte in canna, e sono abbastanza sicuro del loro potenziale.
Che poi, parlando di scena più strettamente techno e house, noi due abbiamo un grande amore musicale in comune: KiNK.
Hai detto nulla.
Però lui per il pubblico pop è “E questo chi sarebbe…?”, mentre per il clubbing del clubbing è “Come osi citarlo, tu che fino a cinque minuti fa facevi le canzonette per Achille Lauro”.
Io sfido chiunque del pubblico pop a vedere anche solo cinque minuti di un live di KiNK e non venirne subito conquistati.
Ma ci sarà mai modo di portare KiNK nel mainstream? Cioè, io so che lui è grandioso, tu pure, bella lì, entrambi siamo convinti che il suo sia un talento che è più forte di barriere tra underground e mainstream, però…
…però probabilmente KiNK non deve diventare mainstream nella maniera in cui lo è diventato David Guetta, vero. Ma sarebbe molto bello che il pubblico tutto conoscesse o fosse un minimo incuriosito anche da questi lati “altri” della musica. E’ questione di avere voglia di approfondire. Anche perché poi, alla fine della fiera, quasi tutti i generi e i suoni diventati mainstream sono in realtà partiti dall’underground. Poi boh, se prendi nomi come Solomun, Black Coffee: il mainstream italiano non li conosce manco per sbaglio, no? Poi però se vai a guardare i numeri che fanno…
…sono più mainstream di Biagio Antonacci.
Esattamente. Di lui. O di Tiziano Ferro. E attenzione, eh, io amo Tiziano Ferro. Ma il punto è che ci sono oggi un sacco di act nominalmente “underground”, e che soprattutto in Italia vengono percepiti – anzi, ignorati – come tali, che invece fatturano come dei pazzi.
Un’altra delle difficoltà, al di là della diatriba e dei confini mainstream/underground, sarà tradurre dal vivo, e intendo proprio in versione concerto per certi versi “tradizionale”, la cassa in quattro. Mi sembra che ad oggi in Italia ci sia riuscito solo Cosmo.
Grandissimo Cosmo! Che poi, è pure un amico… Lui è una delle poche persone che in Italia è riuscito a fare quello che all’estero è, invece, molto più comune e già sperimentato: portare l’elettronica in maniera credibile nel contesto dei concerti. Del resto il chitarrista suona la Stratocaster, o la Les Paul, il tastierista suona il piano, le tastiere; perché non si possono “suonare” anche le macchine, su un palco? Perché non dovrebbe essere possibile?
Io sfido chiunque del pubblico pop a vedere anche solo cinque minuti di un live di KiNK e non venirne subito conquistati
Ma tu sul palco sarai da solo o…?
No, no, non farmi dire nulla, anzi, questa è una delle chiavi principali e quindi starò zitto. Ma ti giuro, eh, non è che non voglio dirti le cose o voglio fare il misterioso. E’ che quando poi le cose accadranno davvero, voglio un minimo sorprenderti.
Quindi insomma stai lavorando su un concetto forte, particolare.
Assolutamente sì. E’ già tutto studiato nei minimi dettagli. E sarà qualcosa di eclatante.
Che aspettative hai, su questa tua nuova vita da solista? Rafforzare ad affermare definitivamente la tua figura? O non ti poni più di tanto il problema?
Io è da quando ho iniziato a fare musica che ho ambizioni enormi. Non esistono “aspettative”: esistono invece degli obiettivi che voglio e devo raggiungere. Sono imposizioni. Imposizioni che do a me stesso. Quello che voglio ottenere o lo ottengo, o ci lavoro il doppio e lo ottengo lo stesso. Non c’è un’alternativa.
Ah però.
Non esista che io non riesca ad ottenere quello che mi sono prefissato.
Ma hai avuto dei momenti di dubbio, periodi in cui hai pensato “Non ce la sto facendo, non ce la faccio”?
Credo venti volte al giorno. Ma ventuno volte al giorno, mi ritrovo a pensare “No, col cazzo, sì che ci riesco, eccome si ci riesco”. Se quest’ultima cosa me la ritrovassi a pensare diciannove volte al giorno, avrei già smesso di fare musica, avrei chiuso. E tutto questo giro è un continuo, quotidiano, perché l’artista deve sempre combattere contro se stesso, contro le proprie insicurezze. A maggior ragione se provi a portare qualcosa di nuovo, di diverso, di atipico, è chiaro che ad un certo punto ti dici “Ma faccio bene? Non era meglio se sganciavo dei pezzi reggaeton e passavo all’incasso, bello tranquillo?”. Per fortuna però c’è una parte di me, ed è la parte a cui do sempre ascolto, che dice che io inizierò a fare reggaeton solo ed unicamente quando tutti avranno smesso di farlo.
Abbiamo un problema di omologazione, a proposito? Soprattutto fra la nuova generazione di producer? Bravi, eh, tecnicamente spesso anche molto preparati e di sicuro molto svegli – molto più che in passato – a “sincronizzarsi” con quello che succede nel mondo, a livello di pop; mi pare però che siano veramente tutti molto omologati. Io boh, accendo la radio e sente davvero delle copie-carbone dei pezzi, è diventato talmente tanto un esercizio di stile banale e prevedibile che mo’ pure Valeria Marini e la Tatangelo fanno il pezzo trap-reggaeton suonando quasi credibili, sullo stesso livello di quello che si sente in giro.
Sì. E’ così. E io sono decisamente stufo ed annoiato da tutto questo. Il suono sempre uguale. L’innovazione e l’originalità sempre più difficili da trovare. Sono veramente in pochi, quelli che osano. Boh. Sarà l’era in cui viviamo… saranno i social… la paura di uscire dal coro. Per certi versi se ci pensi Lauro è uno dei pochi che ha saputo rompere gli schemi, che la sua roba ti piaccia o meno. Regna l’omologazione, regna il fatto che vedi e senti sempre le stesse cose e più le vedi e le senti, più ti convinci che siano le uniche che possono funzionare. Nessuno che crei una “rottura”. Io invece la musica l’ho sempre fatta per “spaccare”, non per diventare famoso e ricco a tutti i costi. Il mio obiettivo, da musicista, è fare qualcosa di memorabile – non qualcosa che faccia vendere i dischi e creare dei numeri potenti di stream. Non devi essere molto bravo e molto influente; devi essere unico.
Che poi a parole tutti dicono così, ma nella realtà dei fatti sento appunto tantissima musica scientificamente studiata per rispettare un certo tipo di parametri sul suono-del-momento… alla fine prevale il calcolo, per “suggerimenti” superiori o per paura. Forse davvero ci vorrebbe più arroganza ed ambizione, fra i producer.
Per essere ambizioso devi avere le palle. Devi essere l’unico scemo che va contromano. Devi essere convinto, per farlo; o se non sei convinto del tutto, al diavolo!, devi essere abbastanza irresponsabile da andare contromano lo stesso. Perché sì, magari a volte manco sei così convinto, ma devi avere quel piglio stupido per cui ti dici “Cazzo, ho avuto un’idea, non devo avere paura di esserle maniacalmente fedele”. E’ questione di orgoglio personale, capisci? Io non mi piegherò mai alle regole di mercato, a quello che altri mi dimostrano essere giusto, essere funzionale e soprattutto essere funzionante. Sono gli altri che devono piegarsi a quello che dico io. Non vi piace quello che voglio fare? Chi se ne frega, io lo faccio lo stesso.
Nel 2020, quanto conta l’immagine nella musica? Più di prima? Meno di prima? Sembra contare, ma in realtà non conta? Quale di queste?
Dipende. Dipende da cosa vuoi fare. Esiste la bella musica; e la bella musica vince anche se non c’è un cazzo di immagine. Prendi Avicii, tanto per stare tranquillamente sui nomi grossi: è diventato famoso per quello che ha fatto uscire, non per la faccia che ha, per i post o per quanto è apparso in giro. Era super commerciale? Era pop? Era quel che era, ma intanto lui è uno che ce l’aveva fatta con la sola forza della sua musica e non della sua immagine. La domanda in realtà è: qual è il tuo intento? Rispondo per me: io, oltre alla musica, voglio proprio dare una visione artistica a trecentosessanta gradi: voglio che quello che faccio sia un’esperienza multisensoriale. Facci caso: quando vedi un film, se una scena struggente è commentata da una parte musicale molto intensa beh, quella scena ti resta ancora più impressa. Chiaro: la colonna sonora deve essere fatta bene, per funzionare. Quello che voglio fare io, con la musica, è fare da colonna sonora al mio immaginario. La musica in certi casi può essere e restare puramente astratta, “Shine On You Crazy Diamond” in quattro note ti riassume un mondo intero e ti smuove un mare di emozioni, senza bisogno di altro, ma ci sono pure casi in cui senti che c’è il bisogno di fare un discorso più complesso, generale, per spiegare completamente quello che vuoi dire e trasmettere. Il modo in cui uso l’immagine è assolutamente legato alla mia musica; non è semplice swag, non è mera ostentazione la mia immagine – che mi curo io, mi scelgo io – è invece un prolungamento di quello che faccio quando creo musica. Lo integra, lo completa.
Per concludere: ti vedi lanciato ed operante su un contesto internazionale, o vuoi intanto concentrarti a spaccare il mercato in Italia?
Io non mi sono mai visto come “italiano”, musicalmente. Manco quando facevo le cose con Lauro (…e infatti in tanti ci hanno detto “Ehi, non sembrate italiani, come suono, come immagine”). No, non sono mai stato “italiano”. E non lo dico con polemica, occhio, ma solo come un semplice dato di fatto. Ho un sound internazionale, e a quello ho sempre puntato fin da quando ho iniziato a fare musica. Ultra, Coachella, Tomorrowland, Sziget: questi sono i miei obiettivi. Non Sanremo. Poi è successo, facendo le cose con Lauro, che intanto sono finito a Sanremo, ma questo è solo perché c’era lui, perché è andata così – non ci fosse stato lui, la mia carriera avrebbe già seguito traiettorie molto diverse, molto internazionali. Anzi: credo che non ci fosse stata questa avventura con lui mi sarei già trasferito all’estero da tempo.