“Anche rispondere ad una intervista può essere entusiasmante”: di Paolo Fresu bisognerebbe descrivere l’incredibile curriculum musicale – uno dei jazzisti più celebrati in Europa – o il meraviglioso senso melodico ed armonico, che lo porta ad avere un lirismo più unico che raro e, tra l’altro, capace di andare al di là delle lezioni più canoniche del jazz, portando avanti uno stile personalissimo, ammaliante. Basterebbe questo. Ma in realtà Paolo Fresu è molto di più. E’ una persona di una intensità irreale, dove determinazione e pacatezza si incontrano con una forza strana, seducente, educatissima. Davvero: spendere del tempo con lui, anche solo per un’intervista, è un’esperienza. Esperienza che lui rende unica e straordinaria, donandoti tutto del suo tempo e della sua attenzione. Eppure avrebbe tutti i motivi per essere sbrigativo: i mille impegni, e non solo quelli come musicista. C’è l’essere a capo di una etichetta discografica molto particolare come la Tūk, c’è soprattutto Time In Jazz, la sua “creatura”, un festival più unico che raro ormai più che ventennale, dove partendo dal piccolo paese di Berchidda – il suo luogo di nascita – ad agosto si irradiano vibrazioni jazz di altissimo livello su tutto il territorio della Sardegna settentrionale per un’intera settimana. Una piccola, grande magia. Una magia che nemmeno il CoVid ha fermato: quando tutta Italia annullava concerti e rimandava al 2021, lui è stato il primissimo ad annunciare che “…la musica non si ferma”, spiegando che Time In Jazz ci sarebbe stato anche quest’anno (qui il programma: si inizia il 9 agosto), costi quel che costi, limando magari su alcuni particolari, seguendo sempre il rispetto delle leggi e dei provvedimenti necessari, ma senza perdere nulla del suo spirito, della sua forza, della sua particolarità. Siamo partiti da qui, per fare una chiacchierata meravigliosa dove abbiamo coperto davvero tantissimi argomenti, persone, luoghi, pratiche, prospettive. Davvero: musica o non musica: una delle persone più incredibili ed emozionanti con cui possiate scambiare idee e parole oggi. Poi, incidentalmente, è anche un musicista di classe meravigliosa. Strappato alla pastorizia, come racconta lui stesso.
Questa cosa di aver annunciato prima di tutti che “Time in Jazz si farà anche quest’anno”, in una fase in cui nessuno si pronunciava e anzi fioccavano gli annullamenti e i rinvii, mi è sembrata una discreta manifestazione di cocciutaggine tipicamente sarda…
Siamo sardi al cento per cento! (ride, NdI) Guarda, il festival era già pronto. Ed è un festival complicato – tu lo sai, lo hai visto, sai quanto è complesso – e devo dire che ogni anno diventa sempre più sofisticato dal punto di vista organizzativo: va preparato mesi e mesi in anticipo. Non è il festival che è solo una serie di concerti; non è il festival che alzi il telefono e chiedi alle agenzie “Vabbé, cosa passa in Europa ad agosto, chi è che c’è di disponibile, quanto costa?”. Time In Jazz è come un pentagramma vuoto: devi mettere le note, ma queste note non le puoi mettere a caso. Devi invece far uscire fuori la melodia precisa che hai in testa. Per farti capire meglio i tempi, nel momento in cui chiudo un’edizione del festival sto in realtà già pensando a quella dell’anno successivo. A novembre inizio a contattare concretamente gli artisti e per gennaio, più o meno, il cartellone è pronto. Poi inizi a lavorare seriamente sulla logistica. Inizialmente volevamo fare la conferenza stampa di presentazione dell’edizione 2020 il 18 aprile, e avevamo in mente un’idea straordinaria: portare per la prima volta i giornalisti direttamente a Berchidda, cosa mai fatta prima. Poi chiaramente abbiamo dovuto abbandonare l’idea, rimandando pure la conferenza stampa di per sé. Il termine successivo scelto era il 14 maggio, ma anche lì c’è stata necessità di fermare tutto un attimo, perché volevamo parlare bene coi vari Comuni che avrebbero ospitato il festival: erano preoccupati. C’era il bisogno di spiegare bene cosa facevamo e perché lo facevamo. Alla fine la conferenza è stata fatta il 26 maggio. Una cosa è sempre stata certa, però, al di là di tutti questi rinvii: volevamo annunciare il festival prima ancora che ci fosse effettivamente la ripartenza ufficiale, i primi via libera delle autorità. Questo perché volevamo lanciare un segnale di positività, di speranza. Un segnale per cui sì, noi riapriamo, e le cose possono ripartire, naturalmente nel pieno ed assoluto rispetto delle regole. Prova a ripensare a cosa stava accadendo in quei giorni: giganti come Umbria Jazz e Montreux annunciavano che ci si vedeva direttamente nel 2021, gli eventi più piccoli cadevano come birilli. Desolante, ma comprensibile. Le regole prospettate erano davvero stringenti, e lo sono ancora adesso. Ma noi abbiamo sempre detto che saremmo andati avanti. Problemi ne abbiamo sempre avuti tanti nella nostra storia e siamo sempre riusciti a superarli – “Supereremo anche questi”, ci siamo detti. Anzi, guarda, ti dirò di più: i problemi sono sempre stati un momento-chiave nella storia se ci pensi bene, a partire da quella del nostro festival, ti aiutano a capire meglio il presente e ad immaginare meglio il futuro. Più problemi esistono, più soluzioni si possono trovare. Del resto, tornando a Time In Jazz, come appunto sai il nostro è un festival davvero atipico, concerti in piccole chiese o isolati nella natura, oltre a quelli nei paesi: vari idee folli che abbiamo aggiunto anno per anno, quando dimostravano di essere efficaci (…perché tante sono nate e poi sono state scartate, non tutte le ciambelle escono col buco). Quando crediamo in una cosa, cerchiamo di farla crescere. C’è bisogno di senso della sfida, nel fare le cose. Soprattutto oggi. Se non c’è senso della sfida, che significa anche la forza di sognare, non può esserci futuro. Sai, il sindaco di Berchidda quest’anno era molto preoccupato, riguardo a come poteva essere preso il contributo che tradizionalmente il Comune elargisce al festival, e che appunto è stato elargito anche quest’anno…
Immagino.
La domanda era ovvia: ma questi soldi, non sarebbe meglio spenderli per persone in difficoltà, visto il momento di crisi? Soldi che, nella loro quantità, per un Comune piccolo come quello di Berchidda sono anche tanti, ne sono consapevole. Io ho provato a rispondere così: posto che le persone in difficoltà urgente è ovvio che vadano aiutate, i soldi investiti nel festival sono un investimento per il futuro. L’errore che non dobbiamo fare, oggi, è pensare solo al presente, all’immediato. Oltre a tamponare le criticità urgenti – e quelle purtroppo non mancano – dobbiamo però anche investire in prospettiva. Se oggi diamo 1000 euro ad una famiglia in difficoltà, quella famiglia vivrà per un mese e mezzo, sì, ma dopo tornerà a morire di fame. Ma faccio proprio degli esempi concreti, parliamo pure delle cifre: per Time in Jazz, il Comune di Berchidda mette da sempre lo stesso contributo, cinquanta milioni delle vecchie lire (anche col passaggio all’euro, l’importo non è mai più cambiato). Il festival, come indotto diretto (case, pasti…), nella sola Berchidda porta però circa 125.000 euro, più o meno. Se noi destiniamo i “soliti” 25.000 euro di Time In Jazz non più al festival ma alle persone in difficoltà, al paese Berchidda verranno poi a mancare in un secondo momento gli altri 100.000 che il festival garantiva. E in ogni caso noi già ad aprile avevamo anticipato 20.000 euro, per regolare i conti con le case che avrebbero offerto ospitalità alle persone dello staff ed agli artisti… e di questo ci hanno ringraziato in tanti, tantissimi. Non eravamo tenuti a farlo; ma abbiamo pensato che in un momento come questo era doveroso anche per noi fare uno sforzo. Insomma, se decidiamo di non fare il festival per “risparmiare” quei 25.000 euro e destinarli ad emergenze immediato, il punto è che poi viene a scomparire ogni progettualità ed investimento per il futuro. Ma un futuro noi dobbiamo essere capaci di costruirlo: sennò si muore. Quindi insomma, capisci che quest’anno pur tra le maggiori difficoltà eravamo e siamo ancora più motivati nel portare avanti Time In Jazz.
Cocciutaggine sarda e non solo quindi, anche una idea molto precisa. Che poi, a proposito di tratti distintivi della Sardegna e luoghi comuni più o meno veri, si tratta di una terra ovviamente bellissima, questo è evidente subito, ma nei mesi che c’ho speso tre anni fa mi è sembrata anche molto litigiosa. Prendo proprio il caso di Time In Jazz, festival che io, “dal Continente”, ho sempre ammirato da morire e mi è sempre sembrato così “positivo” – in primis nell’attenzione maniacale al rapporto col territorio – da poter essere un patrimonio comune, condiviso, di cui andare fieri tutti nella zona: quando invece ho passato un po’ di tempo in Sardegna settentrionale e parlato con le persone, ho sentito invece più di una critica, più di uno scetticismo, più di una voglia di prenderne velenosamente le distanze dal vostro operato. Ne sono rimasto molto sorpreso. L’ho trovato veramente un controsenso. Ma sono io che ho incontrato poche persone “sbagliate” o…?
No, no, è così. In Sardegna c’è un detto: “Cento teste, cento cappelli”. O ancora: molto tempo fa si usava dire, reminiscenza della dominazione spagnola, “Pocos, e male unidos”. Quindi sì, quello che tu hai riscontrato esiste, è un po’ una caratteristica nostra. Poi figurati, ora che ci sono internet e i social a contribuire alla critica ad alzo zero, e a rendere ancora più invogliante il gettare la croce addosso alle persone e alle cose più in vista, la cosa è ancora aumentata. Ma del resto, se sei in vista vuol dire che qualcosa di un minimo importante lo hai fatto. E ogni volta che fai qualcosa, è naturale che quanto tu abbia fatto sia soggetto ad interpretazione, a dubbi, a giudizi. Non ci sarebbe nulla di male. Purtroppo non sempre queste valutazioni sono ponderate, e alcune anzi non sono proprio motivate; ciononostante, noi continuiamo imperterriti ad andare avanti per la nostra strada. Una strada che è stata tra l’altro copiata da altri festival, e di questo andiamo molto fieri. Anche perché sono davvero convinto che al giorno d’oggi sia quasi inutile organizzare un concerto “tanto-per”, soprattutto se si tratta di occupare la piazza di un paese. Sì, la musica resta la motivazione più alta, certo, ma dietro deve esserci anche altro: un progetto, un racconto, una motivazione. Il rischio sennò è di fare su un palco, diciamo appunto nella “mia” Berchidda, qualcosa che potrebbe essere fatto tale e quale su un palco di qualsiasi altra città: così diventa una occasione persa. Anche perché in questo modo lo spettatore arriva, ascolta, se ne va. Finisce lì. Mentre invece dobbiamo mettere insieme ospitalità, prodotto locale, turismo a trecentosessanta gradi. Ma tornando a quanto dicevi prima: l’unica cosa che posso dire che è che non mi permetto mai, nella vita, di dare dei giudizi su quello che fanno gli altri. Mai scritto e detto nulla su Sant’Anna Arresi, sul Festival delle Bocche, su Calagonone Jazz, tanto per citare alcune importanti manifestazioni della mia regione legate al jazz. Ritengo che ognuno debba fare quello in cui crede. Se poi mi chiedono dei pareri, magari negativi, di rado mi tolgono di bocca qualcosa. Se penso non bene di qualcosa o di qualcuno, lascio che le cose procedano da sole affinché chi mi ha fatto la domanda poi arrivi da solo alla risposta. Questo per un motivo ben preciso: per il rispetto verso il lavoro degli altri; del lavoro, e anche degli errori. Pure noi facciamo errori, assolutamente. E’ che sono profondamente convinto che il mondo non debba essere un posto in cui chiunque un mattino possa alzarsi parlando male di qualcun altro che ha il torto, o il merito, di essere in qualche modo visibile, esposto. Chi lavora merito rispetto; e nel rispetto è incluso il concedere il diritto d’errore. Una volta un po’ me la prendevo, lo ammetto, oggi sinceramente non più. Ogni tanto qualcuno mi inoltra qualche messaggio trovato in giro sui social, qualche discussione, qualche parere velenoso, e la mia risposta è sempre ed immancabilmente ormai una: “Mah…”. Non aggiungo altro. Per me si chiude lì. Io poi non sono uno che va in giro a leggere quello che si dice di me, e di ciò in cui in vari gradi sono coinvolto: perché ritengo che il tempo vada usato per costruire, non per distruggere.
(continua sotto)
Ah, a proposito: ti invidio anche una cosa, per quanto riguarda la sfera del jazz. Voi siete riusciti a dare vita ad una Federazione che vi rappresenti e dialoghi ufficialmente con le istituzioni, mettendo insieme diverse anime. Noi nel clubbing figuriamoci se ad oggi ci siamo riusciti, è ancora tutto molto frastagliato, anche perché nel settore sono davvero difficili da addomesticare gli ego.
Eh… (sorride, NdI)
Come ci siete riusciti voi del jazz?
Ci siamo riusciti partendo da un’urgenza, che è diventata visibile a tutti qualche anno fa. L’urgenza nasceva dal fatto che finalmente si era riuscito a portare la parola “jazz” nei meandri del Ministero, intavolando un primo dialogo – dialogo che è nato da un contatto assolutamente fortuito, che mi riguarda in prima persona. E’ successo che il l’allora ministro Franceschini (che io personalmente non conoscevo!) all’improvviso mi facesse una telefonata. Ero abbastanza incredulo… “Guardi, signor ministro… Non pensavo sarebbe mai successo che un ministro mi telefonasse. Men che meno così senza preavviso, mentre sono in treno tra Roma e Bologna, con tutte le gallerie di mezzo…”. In breve siamo passati dal lei al tu. Lui aveva letto una mia intervista uscita su La Stampa, fatta da Marinella Venegoni, in cui ad un certo punto mi veniva chiesto “Allora, come sta il jazz italiano?” e la mia risposta era stata più o meno “Eh, la solita solfa…”. Franceschini, che si era appena insediato alla carica, l’aveva letta e aveva deciso di telefonarmi: “Venga a trovarmi, parliamone”. Ci sono andato, a trovarlo. Sì. Ma non da solo. Sono andato da lui chiedendo di venire con me alle figure che, a mio parere, in quel momento più stavano cercando di costruire qualcosa davvero per il settore, a livello di rappresentanza. C’erano già due associazioni legati al jazz in Italia: quella dei festival e quella dei musicisti. Più alcune persone sparse, comunque autorevoli e che si facevano sentire nelle discussioni. Ho radunato tutti, e abbiamo dato così vita ad una estemporanea task force del jazz italiano. Quella è stata la prima scintilla. Tre anni più tardi, quando abbiamo capito che quel governo stava giungendo al capolinea, abbiamo sentito l’urgenza di creare una rappresentanza stabile, solida, strutturata e che soprattutto non si basasse solo ed unicamente su un “rapporto personale” con un ministro appassionato di jazz. Non puoi costruire nulla di serio e duraturo, se ti basi solo su questo.
La musica crea segmentazione, è un universo fatto di molti cani sciolti in cui troppe persone pensano di essere o i migliori o – altra faccia della stessa medaglia – i più sfigati e più discriminati
Mmmmh. Magari non potrai costruire nulla, ma il “rapporto personale” è la chiave di tutto, in Italia. Spesso anzi l’unica chiave possibile.
Vero, purtroppo. Ma a noi questa cosa non andava. Diventava così necessario creare una realtà che rappresentasse la galassia del jazz italiano nel suo complesso: la Federazione Nazionale del Jazz. Qualcosa che potesse andare a bussare alla porta di un Ministero con legittima e piena rappresentanza, a prescindere di chi ci fosse a guidarla, a prescindere di chi ci fosse dall’altro lato della porta. Abbiamo ritenuto che il modello della federazione fosse l’unico realistico e possibile. Sarebbe però stato ridicolo fare una federazione composta solo da due associazioni, no? Abbiamo quindi incoraggiato la nascita di diverse altre associazioni, di modo da rappresentare più parti possibile della filiera: l’associazione dei jazz club, degli agenti, dei fotografi, della etichette discografiche… Mettendo tutti insieme, abbiamo costituito la Federazione, che una volta nata ha potuto firmare protocolli d’intesa col Ministero. E’ iniziato tutto così.
Resta il problema degli ego.
Sì, siamo ancora divisi, c’è ancora molto egocentrismo, ma la nascita di una realtà che rappresenti in qualche maniera tutte le sfaccettature del mondo del jazz è un fatto molto, molto, molto importante. Una rivoluzione copernicana. Per il mondo del jazz, di sicuro lo è… ma vedo che anche altri settori, come il vostro, non sono messi molto meglio, in quanto a difficoltà nell’unirsi. La musica crea segmentazione: è un universo fatto di molti cani sciolti in cui troppe persone pensano di essere i migliori o – altra faccia della stessa medaglia – i più sfigati e più discriminati. Riconoscersi tutti insieme in qualcosa, in un’entità, mi pare un punto di partenza molto significativo. Ora poi, col Coronavirus di mezzo, ci si è resi davvero conto di quanto unirsi possa davvero fare la differenza. Però tu notavi bene prima: in Italia troppe cose funzionano solo ed unicamente sulla base del “rapporto personale”. Ecco, creando la Federazione noi volevamo superare proprio questa trappola. Il punto non è Fresu e Franceschini: perché se un domani Fresu o Franceschini non ci fossero più, i problemi resterebbero comunque sul piatto. Mica andrebbero via.
Spostiamoci sulla musica. Domanda generale, volendo anche difficile e rischiosa: quanto è difficile “perimetrare” il jazz? Chi o cosa può decidere cosa è jazz, e cosa invece non lo è? Il “jazz” è, musicalmente parlando, un’entità liquida come forse nessun altro genere musicale. Tu che parametri usi, di solito?
Io uso il criterio del cuore. Essendo un onnivoro, come ascoltatore, mi piacciono davvero tante cose diverse. Detto in altro modo: non sono per le limitazioni. Né tantomeno mi pongo il problema di cosa sia jazz e cosa invece non lo sia. So piuttosto cosa è la cattiva musica – quella la riconosco.
C’è chi sostiene che il “vero” jazz sia morto negli anni ’60, con Coltrane. Chi addirittura dice che invece arrivi solo fino agli anni ’50. Ecco: a queste persone rispondo che i “morti” sono loro, non il jazz
Come?
La cattiva musica è come una cattiva casa: la vedi, te ne accorgi. Parte tutto dal progetto di base. Se la prima pietra è stata posata male, se i materiali usati sono scadenti, se non si considera in minima parte il fattore estetico, se non c’è una visione funzionale dei vari elementi, se è tutto così, allora vuole dire che la casa non è stata pensata bene, non ha dietro di sé un progetto architettonico, non ci si è posti il problema di come quella casa sarà poi realmente abitata, con che tipo di qualità della vita. Per la musica, è uguale. Lo capisci, quando una musica è stata costruita con intelligenza, con un progetto dietro. Lo capisci eccome. C’è la ricerca, c’è l’equilibrio tra gli elementi, c’è l’interplay tra i vari musicisti coinvolti. Lo diceva Duke Ellington: “Ci sono due tipi di musica: quella buona, e poi quell’altra”. E’ così. Ne sono profondamente convinto. Poi quale di questa musica “buona” sia jazz e quale non lo sia, non è per me il punto. E’ ovvio che fra musica classica e jazz ci siano delle evidenti differenze di base a prima vista, chi lo nega, poi però succede che Charlie Parker o Chet Baker usino delle orchestre di archi: e lì? Cosa dici? C’è chi sostiene che il “vero” jazz sia morto negli anni ’60, con Coltrane; chi addirittura dice che invece arrivi solo fino agli anni ’50. Ecco: a queste persone rispondo che i “morti” sono loro. Non il jazz. Ma “morti” davvero, eh. Bisogna prenderli con sé e fargli un simbolico funerale, subito, così magari iniziano a rendersene conto. Perché queste sono le persone che non accettano di pensare che il mondo possa andare avanti anche senza di loro, senza i loro gusti, senza i loro punti di riferimento. Questo è il punto. Sono un po’ come i nostri politici che sono ancora fermi alla lirica, all’Opera, alla tradizione italiana. Sì, la tradizione, va bene, ma c’è anche un presente tutto da vivere – un presente che non sta certo ad aspettare loro, né di loro si cura. Anche perché è il presente a darci il futuro, è lui più di chiunque altro: e questo ce lo dimentichiamo troppo spesso. Nella società contemporanea non ci sono forse dei nuovi Mozart, dei nuovi Charlie Parker, dei nuovi Jimi Hendrix, dei nuovi Brian Eno? Beh, io sono convinto ci siano. Perché se non ci fossero, la nostra società e la nostra creatività sarebbero già completamente implose. Visto che sarebbero unicamente in grado di stabilire il valore delle cose parametrandolo ad un passato che, però, non esiste più. Ecco, proprio per questo bisogna investire sul presente, in questo paese, e lo si fa invece troppo poco. Bisogna prendere un ragazzo di vent’anni, dargli in mano 5.000 euro e dirgli “Ecco, ora però facci vedere cosa sai fare”. Se noi non siamo capaci di cercare e riconoscere il talento e la genialità, nel presente che stiamo vivendo qui & ora, vuol dire che non abbiamo fiducia prima di tutto verso noi stessi, più ancora che verso la musica e la creatività. E se non c’è fiducia, non c’è futuro. Questo è il punto. Tornando a noi: io non mi pongo il problema di cosa sia jazz e cosa invece non lo sia. So quello che mi piace ascoltare; e quello che mi piace ascoltare, lo porto inevitabilmente in seno a quello che faccio nel mio festival che sì, è un festival jazz. Non vedo problemi.
Però appunto: è un “festival jazz”. Una connotazione ce l’ha.
Quest’anno è stata molto discussa la scelta di portare Daniele Silvestri, per giunta all’Agnata, quella che è stata la storica residenza di De André in Sardegna. Che uno potrebbe chiedersi: cosa c’entra De André col jazz? Poi però pensi a Danilo (Rea, NdI): il cui profilo e spessore di jazzista è al di là di ogni sospetto, e che ha suonato per la prima volta a Time In Jazz proprio presentando anni fa un progetto su De André. Dove sta quindi il problema? Perché dà fastidio l’idea di Silvestri all’Agnata? Vedi, non si può pensare ad un festival come ad una serie di concerti, e punto. Un festival come il nostro è pensato in relazione a degli spazi, a delle storie – come ti dicevo prima. Ma se ci pensi, anche ragionando su un singolo concerto un suo successo è determinato da vari fattori: la qualità della musica, certo, perché quello è un fattore ineludibile, ma poi anche la qualità del pubblico, dello spazio che accoglie il tutto. E’ un dialogo continuo che molte volte lascia proprio un “marchio” decisivo, che fa la differenza e arricchisce la musica di per sé. Perché in fondo, se uno ci pensa bene, la musica non esiste senza i luoghi in cui è pensata, suonata, eseguita. Gli stessi strumenti nascono originariamente “con” i luoghi, e “dai” luoghi: sono fatti di alberi, di metalli. Ovvio: se io dico che un festival è “jazz” e poi però ci faccio solo del pop c’è un problema, ma se nel mio festival jazz porto anche Fabio Concato, o Daniele Silvestri, o le musiche del Marocco o del Madagascar, dove sta l’errore? Anzi: non è che forse sia invece proprio questo il senso più puro del jazz? Il jazz è una musica di attraversamenti, è una musica che ha attraversato il mondo. Qui ci si fissa su Bird, Dizzy e Coltrane, ma se ascolti certa musica africana contemporanea con attenzione ti rendi conto che è molto più jazz nelle strutture e nelle intenzioni di certo jazz teoricamente “doc”. Un festival jazz deve ricostruire un racconto dinamico, non limitarsi a fissare ciò che sono stati, e sono, Bird o Chet – che io peraltro amo alla follia. Bisogna ricordarsi che grandissimi al di sopra di ogni sospetto come Coltrane, come Archie Shepp, come Albert Ayler, come Ahmad Jamal sono tutti musicisti che, ad un certo punto, hanno sentito l’esigenza di tornare indietro alle loro origini o di esplorare il mondo. Il jazz non muore se torna ad indagare il suo passato africano, o se inizia a percorrere le suggestioni orientali. Anzi. Perché il jazz è, prima di tutto, la musica del mondo. E’ una musica che, se cerca di fermare i propri confini, muore. E non ha quindi futuro. Un discorso peraltro che mi sentirei di ritenere valido ed estendere un po’ per tutta la musica, per tutti i generi: se non hanno il coraggio di aprire i propri confini, muoiono e non hanno più futuro. Così come la nostra società, e di questo ne sono profondamente convinto, può avere un futuro solo se torna a riaprire i propri confini, sia fisici che mentali. Altrimenti non arriveremo da nessuna parte. Ecco, queste sono le riflessioni che mi portano a creare Time In Jazz così com’è.
Il jazz nell’arco di soli cent’anni ha avuto un’evoluzione pazzesca – e tra l’altro sono stati pure i cento anni più complessi, rivoluzionari e veloci nella storia dell’umanità. Insomma, è una faccenda complessa parlare di “jazz”, oggi
Sono motivazioni forti.
Avere un’idea, trovare dei fili, dei nessi: la dinamica è questa. Il tema del festival quest’anno è “Anima”: questo significa che devi comunque creare un discorso attorno a questo perno centrale. Non è che puoi mettere lì quello che vuoi, metterci delle cose affastellate un po’ a caso, a seconda delle disponibilità del momento del mercato. E quello che ci metti dentro, deve avere un’armonia. E se ha armonia, se ha un senso, vuol dire che può diventare jazz. E’ facile fare un festival jazz chiamando musicisti che suonano bop, che suonano cool, magari anche che suonano free, mettere insieme dei loro concerti; ma è difficile fare un festival che sia “jazz” veramente, ovvero che metta dentro gli elementi più disparati portandoli però a nuova vita, creando una nuova armonia, un discorso. Il jazz non è solo i soliti nomi degli anni ’50 e ’60, con declinazioni già sfruttate migliaia di volte.
Sai cosa, mi sembra che questo approccio sia patrimonio più di chi lo suona, il jazz, piuttosto che di che lo ascolta. Sto generalizzando, chiaro, ma sento sempre più apertura mentale nei musicisti che nei fruitori più tradizionali e consolidati del genere.
Sono d’accordo. Certo, anche i musicisti jazz ogni tanto… Mi ricordo dopo che il povero Ezio Bosso era andato a Sanremo, ho visto anche tanti musicisti jazz venirsene fuori con dei “Ma chi è questo, ma chi si crede, ma imparasse a suonare…”. Terribile. Però devo dire che sì, mediamente i musicisti jazz, soprattutto quelli della nuova generazione, sono mentalmente molto liberi ed aperti. Più di chi li ascolta, sì. Il problema è che abbiamo ancora addosso un pesantissimo fardello storico… Il jazz è arrivato realmente in Italia solo nel dopoguerra: e in quel frangente storico, gli unici che avevano i mezzi per poterlo fruire erano gli strati della borghesia più abbiente. Avvocati, medici. E quindi, anche i musicisti arrivano da quel ceto sociale. Per avere i primi veri musicisti provenienti da strati sociali più bassi abbiamo dovuto aspettare Massimo Urbani, che arrivava da una famiglia di borgatari, e volendo anche il sottoscritto, che arriva da una famiglia di pastori. Il jazz si è consolidato in Italia artisticamente e socialmente in un certo modo, nella prima fase della sua esistenza: un modo che, per evidenti motivi, era incline a mantenere lo status quo. Infatti già il free, che è arrivato dopo, è stato visto con sospetto. Questo retaggio si sta tramandando fino ad oggi ma, per fortuna, nei musicisti è ormai praticamente inesistente. Se poi fra gli spettatori sono in tanti ancora convinti che il jazz sia morto con Bird e Coltrane, che dire? Bontà loro.
Concordo: bontà loro. Si perdono quanto può essere più emozionante il jazz in luoghi atipici, non istituzionali, non ingessati. Io ad esempio ho un ricordo vivissimo di quando negli anni ‘90 ti ho visto suonare a Bologna al TPO, un centro sociale, con Nguyen Lê in formazione, ma anche altre volte, ad esempio con Furio Di Castri ed Antonello Salis. Ascoltarvi lì per me era molto più “jazz” che ascoltarvi al Blue Note in un modello di fruizione che ha anche i suoi pregi, ok, ma ha poco dell’idea di libertà, di atipicità, di creatività.
Quella è sempre stata la mia idea. La musica è per tutti. E, nella mia testa, il jazz accorcia le distanze. Non vedevo quindi nessun motivo per cui il jazz non dovesse andare anche in un centro sociale occupato. Tra l’altro, parliamo di una musica che ha solo cento anni di vita o giù di lì, che a loro volta si sono districati all’interno di un secolo che si è sviluppato con una velocità mostruosa, davvero inedita nella storia dell’umanità. Io credo che il jazz sia la musica più ricca del secolo appena passato. Non la migliore o peggiore, attenzione, ma quella che più ha preso e rubato dappertutto. Ha accompagnato l’evoluzione di un secolo che, di suo, è proprio “esploso” in quanto a velocità. Quindi guarda, quando qualcuno mi dice “A me il jazz non piace” non posso fare a meno di rispondere: “Scusa però, tu sai cos’è il jazz?”. “Eh, ho sentito una volta uno ma no, proprio non mi è piaciuto”. Ma che significa… C’è Armstrong, c’è Woody Herman, i boppers, il free (che anche lì: Ornette, Ayler e Cherry non sono la stessa cosa…); c’è Pat Metheny; c’è Keith Jarrett; ci sono i norvegesi, i newyorkesi, e poi ci sono pure gli italiani, i francesi… potrei continuare parecchio. E’ davvero una musica troppo vasta per essere definita in maniera netta, “inscatolata”. Chiaro, anche la musica classica ormai è una entità molto vasta e multiforme, ma lei se ci pensi ha secoli e secoli di vita. Il jazz nell’arco di soli cent’anni ha avuto un’evoluzione pazzesca – e tra l’altro sono stati pure i cento anni più complessi, rivoluzionari e veloci nella storia dell’umanità. Insomma, è una faccenda complessa parlare di “jazz”, oggi. Però se mi chiedono “Quindi, da cosa dovrei partire?” la prima risposta di solito è “Parti dall’inizio”; in realtà però si potrebbe anche fare il contrario, partire dalle ultimissime cose poi andare a ritroso fino a quando non si trova qualcosa che ti rapisce il cuore. Che il viaggio sia fatto in avanti o all’indietro, è affascinante vedere la consequenzialità che lega stili, suoni e scelte all’apparenza molto differenti.
Non possiamo vivere in un presente di sicurezze. Io non mi pongo mai il problema se quello che c’era prima era meglio o peggio di quello che c’è adesso; io mi pongo il problema di fare qualcosa di nuovo, che sia diverso da quello che c’era prima
Un’altra cosa affascinante del jazz è come possa rendere giovani. Ho fatto un po’ di tempo una chiacchierata con Enrico Rava e trovare una persona di quell’età – ha superato gli ottant’anni – con quella freschezza mentale e culturale è incredibile. Ma mi viene in mente anche Franco D’Andrea…
Franco è uno dei musicisti più geniali in assoluto.
Trovo che sia incredibilmente sottovalutato.
Lo dico senza girarci attorno: Franco è uno dei musicisti – e non mi riferisco solo ai pianisti, parlo proprio di musicisti in generale – più geniali ed innovativi in assoluto. E riesce sempre a mettere una forte impronta personale in tutto quello che fa, facendolo peraltro con discrezione… e forse è per questa discrezione che è così sottovalutato perché sì, sono assolutamente d’accordo, dovrebbe essere molto più celebrato. Da qualche anno poi ha avuto questo flirt con l’elettronica, ha inserito un dj in organico, e la sua musica è oggi più interessante e visionaria che mai.
E certo, conosco benissimo il dj di cui parli: Dj Rocca.
Franco dimostra di essere uno in grado di “scartare” ed alzare il livello nei modi più interessanti e quando meno te l’aspetti, ma questo restando sempre se stesso. E’ molto più moderno lui, oggi, di tanti giovani. E a proposito di giovani: lui è uno che in loro ci crede, investe tanto su di loro, ha sempre costruito progetti molto ben pensati e precisi dove sì c’è la sua leadership ma dove tutti gli elementi sono valorizzati. E’ davvero un grande. Sì, è sottovalutato, soprattutto all’estero, ma lì entrano in campo così tanti fattori: l’editoria, i mercati, le etichette…
…e anche la fortuna.
Assolutamente sì. E’ anche questione di fortuna. Però pure un po’ di indole. Ecco, questo credo non abbia giocato a favore suo; ma questo lo stiamo dicendo noi, perché in realtà credo che lui sia assolutamente rilassato e soddisfatto di quanto ha ottenuto e sta ottenendo. E’ una persona di grande serietà, molto riservata, discreta, non è uno che va in giro a proporsi di qua e di là.
Ho una domanda più tecnica, invece: qual è il tuo rapporto con la batteria, da trombettista e filicornista quale sei? Te lo chiedo perché ti ho visto spesso suonare in organici senza batteria, quasi cameristici. Più che altri jazzisti alle prese coi tuoi strumenti.
Partiamo col dire che le percussioni mi piacciono moltissimo. Mi piacciono così tanto che, per dire, quando mi siedo a tavola inizio sovrappensiero a percuotere tutto quello che mi ritrovo sottomano, tant’è che devono arrivare a dirmi “Ora basta, smettila”. Forse sono proprio un percussionista mancato… Tra l’altro, adoro molto la cultura poliritmica africana, ho collaborato ad esempio con l’ensemble percussivo Farafina del Burkina Faso, per dire, ed è stato esaltante. Oggi poi suono molto spesso con un grande delle percussioni come Trilok Gurtu. Insomma, amo le percussioni. In generale, però, una cosa interessante è che non ho collaborato in fondo con tantissimi batteristi in vita mia, sono sempre rimasto piuttosto “fedele”: prima di tutto Aldo Romano, ovviamente, lì ancora ai primi passi della mia carriera, poi Ettore Fioravanti, Roberto Gatto, oggi Stefano Bagnoli (nel Devil Quartet). Suonare con la batteria in realtà mi piace molto, perché è la batteria – responsabile del groove – il “termometro” fondamentale per misurare l’energia di un gruppo. Io prediligo i batteristi stabili, costanti, quelli che suonano sempre ad un certo livello e da cui sai sempre cosa aspettarti; se il tuo batterista è discontinuo, discontinui saranno anche i concerti della tua band, e questo può diventare un problema. Se io alla tromba o al filicorno imposto una frase, e il batterista non la riprende, mi sento solo. In generale, il batterista è colui che prima di tutti deve cogliere ed impostare l’umore del gruppo nel suo complesso, muovendolo in precise direzioni; o decidendo, perché si può fare anche questo, di portarlo piuttosto con forza ed energia da qualche parte “altra” ed inaspettata. Ho sempre cercato batteristi che fossero consci di essere il vero e proprio motore – sì, “motore” è la parola giusta – della band. E non è una cosa facile, credimi. Perché tanti batteristi soffrono invece un po’ di culto della personalità, e il culto della personalità non fa mai bene alla musica. E’ un problema di cui soffrono anche altri strumentisti, ma quando succede con la batteria credimi che il guaio è più profondo. Tuttavia sì, suono anche in molti progetti “cameristici”, vero. Ti faccio notare una cosa: quando sono in un organico con batteria suono in piedi; se invece manca, sto molto spesso seduto. Il problema dello stare seduti qualora ci sia una batteria in organico è che il suono ti arriva direttamente “addosso”, sei posto sulla stessa altezza, e questo “mangia” anche un po’ quello che stai facendo, quello che vorresti fare. Quando suono in un organico senza percussioni, mi sembra in qualche modo ci sia più “spazio” per la musica, vero. Sì, suonare in assetti più “cameristici” mi esalta, non solo mi sento più fluido ma posso anche far pesare molto di più i silenzi, riesco a concentrarmi poi meglio sulla melodia, su una idea di “poesia” sonora, che è qualcosa che in questo periodo mi interessa davvero tanto. Nel momento in cui suoni con una batteria in organico privilegi altri aspetti: l’interplay, prima di tutto. Un interplay fatto di sguardi, sorrisi, e questa è una lezione imparata studiando attentamente i quintetti di Miles Davis negli anni ’50 e ’60. Se suono senza batteria in organico, posso suonare ad occhi chiusi; se la batteria invece c’è, guardarsi in faccia è fondamentale. Quando suono in duo con Uri Caine, o Ralph Towner, o Daniele Di Bonaventura sono sempre ad occhi chiusi. Ascolto i silenzi. Il rapporto di comunicazione è più intimo e sottile.
Questo mi fa pensare che nella tua curiosità onnivora non sia comunque molto attratto dalla techno, da un certo tipo di elettronica.
In realtà mi interessa anche lei. Verrà pubblicato su Denovali, etichetta che probabillmente conosci, un lavoro con questo ragazzo sardo di nome SaffronKeira. Me l’ha introdotto il mio collaboratore, Luca Devito; l’idea era di provare a fare un pezzo insieme, poi dopo aver sentito il suo materiale gli ho subito detto “Senti, ti secca se provo a suonare un po’ anche sulle altre tracce?”. In generale, ti assicuro che l’elettronica mi ha sempre affascinato. Con Gianluca Petrella suono molto volentieri. Con Omar Sosa, abbiamo inserito l’elettronica nelle nostre collaborazioni. L’anno scorso Nils Petter Molvaer a Berchidda, soprattutto nel suo set da solo, ha fatto cose che mi hanno stregato. Con Jon Hassell ho fatto addirittura un disco assieme. Amo molto l’elettronica. Però, ammetto che non la amo tanto nei live. Questo perché, lo ammetto, quando c’è lei di mezzo sento che in qualche maniera rischio di ripetermi – anche perché io la uso in maniera molto basica, entro a cascata nei multieffetti, non utilizzo midi, nulla di nulla, il mio campionario di possibilità non è amplissimo rispetto a quanto fa invece un Nils Petter Molvaer, tanto per fare un esempio. Fare un intero concerto su uno schelettro elettronico, non so… Mi è capitato di farlo ad esempio con Dj Bonnot degli Assalti Frontali, ma dopo un po’ rischio di ripetermi, di annoiarmi… Anzi aspetta, non di annoiarmi io, perché io in realtà non mi annoio, ma di annoiare il pubblico. Però se parliamo di lavoro in studio, l’elettronica è qualcosa che mi intriga e diverte parecchia. Con Petrella abbiamo proprio in programma di fare un disco, in duo, e sarà soprattutto elettronica. In generale poi proprio nel periodo del lockdown, quando sono stato costretto a rimanere a casa isolato, è stata di grande aiuto, ho attinto parecchio dalle mie library di suoni, frasi di pianoforte di Uri Caine, di Omar Sosa, lavorandoci sopra.
Ecco, Gianluca Petrella: lui ha una visione molto iconoclasta del jazz. Anzi, da un po’ di tempo sta proprio dicendo “Basta, non chiamatemi jazzista, col jazz non c’entro più praticamente nulla”: drastico.
Lo so, lo so. Tra l’altro giusto ieri ci siamo sentiti con lui…
Ecco, perfetto.
…perché mi stava per mandare delle cose, visto che io gli avevo detto “Manda prima tu, poi io ci lavoro sopra”. E me ne ha mandato di materiale, ovviamente qualcosa di folle (e bellissimo). Lui è un musicista che apprezzo enormemente. Si è costruito un percorso ben preciso, fatto di maturità e personalità. Anche questa cosa di aver deciso di allontanarsi dal jazz, perché è un contesto in cui ci si ritrova più, è indicativo: è un segno di idee precise, di sincerità. Me lo ricordo ancora quando ci siamo incontrati per la prima volta durante un seminario jazz a Siena, lui da allievo, era il 1986: portava un mio pezzo inciso con Dave Liebman uscito due anni prima, “Trunca E Peltunta”, un pezzo piuttosto complicato da eseguire, non solo per il tema ma anche per i cambi armonici. Insomma, arriva lì questo spilungone giovanissimo, col suo strumento, e si mette ad eseguirlo come se lo avesse suonato ogni singolo giorno prima del nostro incontro. Mi era rimasta molto impressa, questa cosa: già allora dimostrava di avere una musicalità incredibile. Ora tra l’altro ha registrato un disco in duo con Pasquale Mirra per la mia etichetta, la Tūk. Ne sono felicissimo. Non ho ancora sentito il master, perché ancora non me l’hanno fatto sentire, ma uscirà nel 2021 e già m’immagino che sarà un lavoro bellissimo. Sono veramente felice di avere due artisti così sulla mia etichetta.
Dai, con Gianluca hai provato almeno un po’ a fare da “avvocato” per il jazz?
Con lui non si parla molto di musica. Ma non solo con lui, un po’ con tutti gli altri musicisti. Al massimo parliamo dei nostri ascolti, ci diamo dei suggerimenti su cose da sentire, ma sono abbastanza convinto che quando fra musicisti si parla troppo di musica, allora c’è un problema. Io ho la fortuna di collaborare con delle persone con cui, dal punto di vista musicale, c’è proprio una condivisione istintiva, naturale. Tutte le parole che potremmo dire su cosa ci piace e non ci piace nel jazz o nella musica in generale, le traduciamo semplicemente in note, mentre siamo sul palco o mentre stiamo incidendo.
La musica mi ha aiutato a capire che esistono mille altre aspetti importanti nella vita, oltre alla musica stessa
Hai citato prima la Tūk. Qual è il senso di avere una label, nel 2020? Semplice volontariato culturale?
Volontariato culturale: definizione perfetta. Fin dalle nostre prime uscite, i nostri dischi hanno sempre avuto una forte attenzione al packaging, all’aspetto visivo, non erano semplici dischi. Il perché abbia deciso di aprire un’etichetta, nasce dal fatto che visto il mio ruolo di direttore artistico a Time In Jazz, e poi anche a Nuoro, erano in molti a mandarmi dei dischi per chiedere di essere chiamati a suonare (…o qualcuno in realtà mi mandava i propri lavori anche solo per chiedere delle semplici note di copertina). O ancora qualcun altro ancora mi chiedeva “Senti, ho questa cosa, a chi posso mandarla secondo te?”: all’inizio smistavo, davo consigli, giravo a Marco Valente, a Sergio Cossu, e se usciva alla fine qualcosa ne ero felicissimo. Però un giorno mi sono detto: “Ma perché non la faccio io un’etichetta?”. Passione per la musica ne ho, per i giovani tantissima, per i musicisti italiani non ne parliamo. Perché non mettere su una specie di “vetrina”? E così è fatto. Ma non doveva essere una “vetrina” sterile, piatta. Se le cose si fanno, vanno fatte bene. Packaging curato, come si diceva; ma anche per dire un ufficio stampa serio, di alto livello. In questo modo spero di aver contributo a “portare per mano” verso il mondo della professione un po’ di giovani talenti. Anche in maniera estemporanea, inaspettata: ad esempio un giorno mi chiama Manu Katché, “Paolo, aiutami, ho bisogno di un trombettista, doveva esserci Nils Petter Molvaer ma mi ha dato buca, non è disponibile”, io gli ho proposto Luca Aquino e di lì a poco Luca è entrato proprio nel gruppo di Manu. O parliamo anche di quando ho fatto collaborare Raffaele Casarano con Lars Danielsson, o quando gli ho fatto conoscere Dhafer Youssef, oggi girano assieme. Oppure ancora Dino Rubino. Insomma, tante piccole cose. Tante piccole vittorie. Tra l’altro organizziamo anche ogni tanto dei piccoli Tour Tūk: minifestival di due, tre giorni in giro per alcune città italiane (oppure a Parigi, sempre molto ricettiva). Eventi in cui si creano collaborazioni e sinergie tra diversi artisti. Così come l’etichetta mi serve pure ad evidenziare la bellezza di certa arte contemporanea, penso alle collaborazioni per la grafica e il packaging con grandi artisti come Mimmo Palladino, Carla Accardi, Paola Pezzi. O con fotografi come Mario Dondero, Marco Delogu. I dischi sono di loro più grandi del normale, il packaging appunto è particolare in ogni aspetto. Non ci siamo mai posti problemi di soldi: nel senso che l’obiettivo è andare in pari, e se per caso si guadagna qualcosa lo si reinveste subito. Come vinili, ne abbiamo fatti solo quattro ma sono veramente curatissimi nella confezione, una cosa fuori da ogni standard. Insomma: l’attività di Tūk è qualcosa che va al di là delle regole di mercato. Ma nonostante questo – o forse proprio per questo – funziona. Un po’ riusciamo a vendere. E con la rete il rapporto è molto buono, non siamo nemici dello stream: “Tempo di Chet” credo abbia qualcosa come otto milioni di streaming. Ad ogni modo, l’etichetta è in sé il prosieguo di un percorso creativo, come lo è del resto il festival. Non vedo la differenza tra stare su un palco, o dirigere un’etichetta, o fare un festival: in tutte queste cose metto creatività, energia, passione, idee. Poi, fammi aggiungere che quando scelgo un artista è perché mi piace la sua testa, non la sua musica: quindi a un artista nella mia etichetta do carta bianca, sempre. Se mi chiede consigli, glie ne do; al massimo provo a decidere io la confezione grafica, ecco, quello magari sì (…però se non piacciono le mie idee, sono pronto ad accogliere tutti i suggerimenti possibili). Tūk deve essere una famiglia creativa. Una famiglia dove se un artista vuole sbattere la prota ed uscire, può farlo in qualsiasi momento. Non c’è nessun contratto di esclusiva. Insomma, gestisco l’etichetta da artista – conoscendo diritti e doveri di un artista. I diritti sono tanti, pochi i doveri, direi giusto quello della correttezza. Vediamo ora cosa succederà col Coronavirus: abbiamo già molti progetti in cantiere pure per il 2021, ma speriamo di farcela economicamente, perché comunque non nascondo che l’etichetta basa la sua vita in primis su quello che io guadagno durante i concerti, e ora col lockdown e la musica bloccata dovremo valutare tutto con attenzione. Ma, come credo tu abbia capito, io sono un inguaribile ottimista.
(continua sotto)
Ottimista sì, ma a parte questo: sono veramente meravigliato dalla quantità di cose che porti avanti, e anche l’intensità con cui lo fai. Guarda, anche solo il tempo che stai dedicando a questa chiacchierata. E poi trasmetti sempre questa serenità, una grande calma… quasi irreale. Hai mai avuto dei momenti in cui ti sei stufato e volevi mandare tutto al diavolo?
Ovviamente io sono come tutti, con pregi e brutti difetti, e anzi sono uno che quando si incazza non ce n’è per nessuno – chi mi è al fianco conosce le mie reazioni. Però devo dire anche che sono uno che in generale affronta le cose con determinazione – faccio di tutto per raggiungere un obiettivo, di modo da non avere rimpianti: e questo è un consiglio prezioso che posso dare ai giovani – ma in effetti è vero che se non affronti le cose con calma, con tranquillità, diventa tutto più difficile da gestire, considerando la quantità di attività in cui sono coinvolto: i problemi ci sono quotidianamente, e si moltiplicano fra di loro quando sei in mezzo a più fronti in contemporanea. L’unica quindi è affrontare tutto con serenità. Questa è la mia filosofia. Poi io sono così pure di natura, non è che faccia chissà quale sforzo. Anche perché alla base di tutto c’è un bisogno bruciante, impellente: sentirmi vivo. Sembra una banalità, ma non lo è. Perché si può essere morti anche da vivi. Io vedo il mio “essere vivo” come un qualcosa in cui la musica è l’epicentro, ma da questo epicentro sono partito per andare ad inseguire le mie curiosità, le mie scoperte, per andare “fuori”, andare a trovare il mondo. Cercare le cose brutte, quelle belle; conoscere, viaggiare, incontrare luoghi, persone. Uscire anche da una certa ritrosia, poi: ormai ho imparato a parlare tanto e volentieri, lo stai sperimentando pure tu, ma io di mio sarei una persona molto riservata. Però ecco, diciamo che in generale la musica mi ha aiutato a capire che esistono mille altri aspetti importanti oltre alla musica stessa. Per me, vivere solo di musica e solo per la musica sarebbe una grande sconfitta. La musica è bella quando genera bellezza. Anche rispondere ad una intervista, per dire, può essere entusiasmante: mentre lo fai rifletti su te stesso, su quello che ti circonda, su quello che potrebbe arrivare, sulle tue certezze. Qui però fammi dire una cosa importante: non possiamo vivere in un presente di sicurezze. Io non mi pongo mai il problema se quello che c’era prima era meglio o peggio di quello che c’è adesso; io piuttosto mi pongo il problema di fare qualcosa di nuovo, che sia diverso da quello che c’era prima. Quello che viene fuori da tutto ciò, non spetta a me giudicarlo; a me interessa appagare il mio bisogno interiore. Dopodiché, so che questo mio bisogno è ciò che condividerò con gli altri. La conseguenza di questo approccio e queste attitudini, capisci, è che tutto ciò che faccio di non-strettamente-musicale è qualcosa di cui, semplicemente, non potrei fare a meno. E se ne facessi a meno, vorrebbe anche dire che sarebbe finito il mio rapporto con la musica: non riuscirei a pensare alla musica in sé come l’unica e sola cosa viva ed importante nella mia vita, mai. Tutto questo però ben sapendo che resta la più importante, quello sì. Perché non ci fosse stata la musica, probabilmente sarei rimasto in campagna a mungere le pecore, come faceva mio padre. Lavoro tra l’altro straordinariamente bello. Ma mio padre fin da piccolo mi ha sempre detto: “Fai nella vita quello che vuoi, ma non fare il pastore”. Evidentemente parlava a ragion veduta.
Ti lancio una sfida finale: riassumere te stesso con un disco non tuo, con musica non tua.
“Fascinoma”, di Jon Hassell. Un lavoro che mette magnificamente insieme la sua ricerca sulla tecnologia da un lato, sul lato tribale della musica dall’altro. Un approccio che ho sempre amato: del resto anche io uso l’elettronica non per andare avanti, ma per tornare indietro. In questo modo si crea una tensione positiva tra due direzioni contrapposte: guardare verso il futuro, mantenere la purezza del suono.
Foto di Paolo Fresu di Tamara Casula