Già la strada l’aveva aperta Timeless, il progetto di Nameless Music Festival a cui avevamo accennato in questa lunga (e importante, se ci possiamo permettere) disamina che prendeva ad esempio il set di Claudio Coccoluto nella tappa romana del progetto. Ora si rilancia, mettendo tra l’altro in campo un colpo importante: non uno sponsor privato (come Molinari, nel caso di Timeless e di molto altro), ma addirittura un partner istituzionale come il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. Lo abbiamo già detto altre volte: più le istituzioni si accorgono di noi – e più noi sappiamo parlare meglio con le istituzioni – più è importante. C’è un tutto un cortocircuito da provocare per arrivare finalmente a capire che la bellezza e la creatività nel campo della musica “nuova” (“avanzata”, come direbbero quelli del Sónar) può creare una sinergia spettacolare e benefica per tutti. Nuovi stimoli, nuove idee, nuove suggestioni. Nuove eccellenze (ri)messe in campo.
Di eccellenza, in Place To Be, ce n’è parecchia. La prima, non ce ne vogliano i musicisti coinvolti, è quella del territorio italiano: un messaggio importantissimo da far passare questo, perché i nostri asset di storia e bellezza sono strepitosi. Sono strepitosi, sì, e non devono però stare in una teca, o essere solo vittima di visioni “da cartolina” talora ormai logore o parecchio prevedibili: Civita di Bagnoregio (pazzesca: visitatela!), gli Scavi di Egnazia in Puglia e il Monferrato sono uno scrigno di fascino che poche altre nazioni al mondo possono vantare. Un effetto “wow” che si sposa bene con una musica che sia coraggiosa, che sfidi, che sappia indagare in maniera veramente accurata cosa succede quando c’è un “clash” tra radici e futuro, tra folk ed elettronica, tra richiami black ed artigianalità molto italiana. Il trittico Clap! Clap! (a cui si aggiunge Kety Fusco, nella data di Civita), Calibro 35 e Nu Guinea incarna alla perfezione tutto ciò. Scelta accurata, scelta oculata.
L’idea, in una fase storica in cui per ben noti motivi le forme tradizionali di performance musicale sono a rischio, è quella di indagare una nuova modalità di fruizione: chiaro, lo stream per quanto ci riguarda non sostituirà mai e poi mai e poi mai la bellezza di un club, di un festival, di un concerto dal vivo, ma nulla vieta – e anzi, sarebbe d’obbligo – indagare anche su come portare avanti al meglio pratiche e concetti alternativi di fruizione, immergendosi nel “bello”, nei progetti ben pensati e ben congegnati. Italian Music Festivals (associazione che include una decina di festival italiani dalla simile attitudine, tra essi anche Jazz:Re:Found, FAT FAT FAT, Manifesto, MusicalZoo per citare quelli che sempre volentieri ospitiamo e supportiamo su queste pagine) l’ha pensata bene. C’è la partnership istituazionale, come dicevamo all’inizio; c’è la media partnership di nuova generazione, con Dice Tv che trasmetterà in diretta streaming i tre appuntamenti (poi disponibili on demand sulle piattaforme di IMF); c’è il supporto di una bella realtà come Butik, agenzia che vuole incoraggiare una cosa sacrosanta, il turismo su base musicale in Italia, con un sacco piccole, belle, brillanti idee.
Fuori le date, e i luoghi: 9 settembre Clap! Clap! e l’arpista Kety Fusco a Civita di Bagnoregio; 16 settembre Calibro 35 agli Scavi di Egnazia a Fasano, non lontano da Bari; 23 settembre Nu Guinea (dj set + live keys) nel Monferrato. Sintonizzatevi. Godetevi il tutto. Godetevelo due volte, perché la direzione è quella giusta.
…e ora più che mai è importante intraprendere direzioni giuste. A margine, riferiamo infatti quanto fatto da Nameless in questi giorni (sì, torniamo a loro: se lo meritano). Assieme ad un aumento di capitale, cosa di per sé già significativa in una fase difficile come questa, hanno voluto varare un ben preciso codice etico. Lo potete trovare qui, vi consigliamo di studiarlo. E’ una prima forma di quello che un po’ tutti dovremmo iniziare a fare (e capire): iniziare a mettere nero su bianco dei paletti che portino a sottolineare come chi organizza eventi di musica di un certo tipo e di una certa qualità dovrebbe iniziare non solo a “chiedere” alle istituzioni (doveroso) ma anche a “dare”. “Dare” in termini di innovazione, ambiente, rapporti con la comunità locale, politiche sociali. Questo lo si può fare in molti modi. E non solo a parole. C’è l’impegno, per la prossima edizione, di dare una percentuale degli incassi agli enti locali, per finanziare progetti o finanziare enti benefici scelti congiuntamente agli enti in questione; c’è l’impegno di destinare una percentuale – ancora da stabilire – del budget artistico complessivo per far suonare artisti emergenti di casa nostra.
Poi, chiaro: Nameless è una cosa, altri festival sono altro, i club e le serate sono un’altra cosa ancora. Ma iniziare a far circolare il concetto di “responsabilità sociale” e mettere a terra delle iniziative che possano dirottare una piccola parte di risorse anche verso l’innovazione: è la direzione verso quella “cultura” (termine spesso ambiguo, sviante o strumentalizzato) che vorremmo diventasse (anche) la “nostra” musica, la “nostra” scena, questo perché sentiamo di avere qualcosa in più da dare rispetto alla lobotomizzazione da televisione o da social più superficiale ed ottusa.
I luoghi belli li abbiamo. I musicisti bravi li abbiamo. Le idee concrete iniziano finalmente ad arrivare. Dei promoter che non pensano solo a sganciare l’assegno più grosso, a sfruttare i lavoratori, a fare del nero ormai ce ne sono un po’, anche altamente professionalizzati. Non stiamo lì a lamentarci se nel locale X o nel festival Y non hanno fatto la scelta artistica che ci aspettavamo, che pensavamo fosse “giusta”: iniziamo a far partire delle dinamiche di “bellezza” – nell’accezione che ne dà un grandissimo come Paolo Fresu, uno da cui tutti dovrebbero imparare – e vediamo l’effetto che fa.