Davide Bassi, noto anche come Bassi Maestro fin dalla metà degli anni ’90, è semplicemente una delle figure più importanti di tutti i tempi dell’hip hop italiano. Punto. Lo è per il suo output artistico, per la sua profonda conoscenza da producer, per il suo essere snodo nevralgico col suo studio di registrazione e con la sua knowledge; ma anche perché quando nel passaggio tra gli anni ’90 e l’inizio del nuovo millennio, quando passata la prima ondata dei Sottotono e degli Articolo 31 e prima dell’esplosione di Fibra pareva che del rap in Italia importasse solo a quattro sfigati, lui ha tenuto alta la bandiera come nessun altro, con qualità ed orgoglio. Certo: ne ha anche interpretato in qualche caso i lati più rigidi e dogmatici, in quegli anni (…ed è il motivo per cui, permettete la nota autoreferenziale, tra lui e chi vi scrive non ci si è parlati per anni), ma c’erano pure i motivi per farlo. Ora che quindici anni dopo l’hip hop è incredibilmente il nuovo pop, nel nostro paese, lui invece di cavalcare l’onda e raccogliere i (meritatissimi) galloni di “padre nobile” lucrandone di conseguenza ha deciso, invece, di reinventarsi completamente, facendo emergere una nuova identità artistica: North Of Loreto. In due anni due album, release sparse, e una sempre più forte efficacia e fiducia nei propri mezzi. Con la scusa dell’uscita recente di “M”, lavoro davvero valido, ci siamo concessi una lunga chiacchierata che tocca tanti temi importanti: passati, presenti, futuri, affrontati tutti con invidiabile pacatezza, buon senso e lucidità. E i tempi in cui non ci si capiva e non ci si parlava (dove peraltro la stima non era mai intaccata, sui fondamentali: sì, può essere anche così) sembrano davvero lontani.
In questa tua nuova avventura a nome Nort Of Loreto ti sposti decisamente verso direzioni electro, o comunque più legate al dancefloor. Niente hip hop. Per molti, un colpo di scena improvviso. La mia impressione è che con questo album da poco uscito, il secondo di questa avventura nell’arco di pochissimo tempo, tu ti senta sempre più a tuo agio in questa formula: più sciolto, più convinto, più sicuro nella scrittura.
Come ho già detto altre volte, ciò che esce come Nort Of Loreto è materiale che in realtà sta nella mia testa – e pure negli hard disk dei miei computer – già da almeno quindici anni. Sì, anche da prima del “periodo Crookers”: perché sì, cito sempre il “Crookers Mixtape” come il momento in cui, per un attimo, avevo sperato che tornasse in auge il rapporto tra hip hop e house. Però di fatto quello che realmente si è generato è stato in più casi, più che altro, un pasticcio sonoro. Qualcosa di non molto chiaro, diciamo. Io questa cosa di unore hip hop ed house l’ho sempre avuto come sogno nel cassetto: ma era un sogno, purtroppo, decisamente incompatibile col mio percorso dell’epoca. Tant’è che quello che feci a nome Mr. Cocky la stessa collaborazione con Crookers non furono molto capite. Sai, era ancora un periodo in cui dire “Ok, rifaccio qualcosa di house, di electro, scelgo un approccio intenzionalmente vintage” non era ben visto, era difficile da spiegare e giustificare. C’era meno attenzione storica.
Ora la sensibilità verso il “recupero”, verso i corsi e ricorsi storici, verso i ricicli delle mode è molto più forte. E più benevolente.
Esattamente. Pensa solo a ‘sta cosa degli anniversari: ormai ogni giorno si celebra l’anniversario di qualcosa. Quando è uscito questo nuovo LP di Nort Of Loreto era lo stesso giorno del ventitreesimo anniversario di “Foto di gruppo”: manco lo sapevo, manco me ne ero accorto! Che poi, ventitré… manco venti, o venticinque: ventitré. Davvero una ricorrenza così decisiva? (sorride, NdI) E’ che ormai è davvero tutto un ricordare, un celebrare qualcosa del passato… e lo capisco, ci sta. Io poi ora sono molto più a mio agio con me stesso e con la mia storia: mi focalizzo a fare quello che mi piace senza pormi il problema di avvicinarmi o distanziarmi rispetto a quello che ho fatto per anni. North Of Loreto è stato per me un passaggio molto naturale e spontaneo, ma capisco che per molti sia stato difficile da comprendere. Nel primo disco ho cercato in qualche modo di mediare: c’era molto funk, c’era del soul, anche molta roba “californiana”, qualcosa insomma che potesse creare un ponte fra elettronica ed hip hop – e lo facesse in maniera elegante. Era però chiaramente un disco ancora immaturo: il mio primo passo in un ambiente, quello dell’elettronica e dei dancefloor, che non era mai stato il mio ambiente di riferimento. Quest’anno però ci ho lavorato sopra tanto e, come dici tu, mi sono effettivamente sentito molto più a mio agio, anche perché ho smesso di pensare anche a voci e scrittura ma mi sono proprio concentrato sulla musica. La mia idea, infatti, è quella di “nascondermi” sempre più: concentrarmi progressivamente sempre più sulla produzione musicale, e fare pure in modo che essa si avvicini a quelli che da anni sono i miei dj set. Dj set che sono davvero eterogenei.
(eccolo il primo disco, l’esordio di North Of Loreto; continua sotto)
Ah, ma io posso testimoniare che già da tempi immemori, assolutamente non sospetti, parliamo infatti ancora di metà anni ’90, tu avevi un vero amore verso un certo tipo di dance. Lo sapevano in pochi, ma era assolutamente così. Quindi ogni accusa di “svolta puramente opportunistica”, nel tuo caso, trovo che sia semplicemente fuori luogo e falsa. Una cazzata. Però sì, come dicevi tu stesso North Of Loreto è stata una cesura piuttosto forte e pure traumatica rispetto a Bassi Maestro: alla fine, come sono state le reazioni? Tu per primo sapevi che era una mossa drastica. E’ andata meglio o peggio del previsto, come reazioni del tuo pubblico storico, quello che ti segue da sempre?
Ho avuto reazioni molto belle soprattutto da chi è arrivato ai miei concerti senza sapere bene cosa aspettarsi. Alla fine, venivano da me dicendo “Guarda, non riuscivamo ad immaginare cosa avresti fatto davvero sul palco ma – abbiamo ballato, ci siamo divertiti, ci è piaciuto parecchio”. Ecco, questa per me è una grande soddisfazione. Del resto eravamo comunque convinti: col fatto che avevo radunato attorno a me per i live una band di ottimi musicisti (di Verona, tra l’altro), ero in qualche modo “spavaldo”, ero sicuro che i nostri concerti sarebbero stati di livello. Il primo disco a nome North Of Loreto ha sofferto del fatto che nessuno è riuscito a catalogare bene il genere. Cosa era? Rap, no. House, no. Elettronica, mah, boh, non si sa. Quindi per esclusione è finito coll’essere un disco “indie”… anche perché c’era un pezzo con Ghemon, che ormai è percepito come appartenente più a quel mondo, e in generale c’erano delle tracce cantate: e quindi eccomi nel filone indie. Alla fine è anche quello dove siamo finiti più spesso quando ci hanno chiamato per un live. Un po’ un nonsenso, lo so. Paradossalmente questo disco nuovo, che ritengo molto più “chiuso”, diretto, ostico se non sei esperto di determinati generi, è stato invece capito molto di più (e accolto molto meglio un po’ da tutti). Chissà, forse perché c’è molta cassa in quattro – e quella in Italia aiuta sempre a farsi capire! (risate, NdI) Sono peraltro molto contento che, comunque, ci siano state parecchie persone che mi abbiano supportato semplicemente sulla fiducia, fidandosi di me. Anche ragazzini di tredici, quattordici anni, figli del “mio” pubblico originario. E’ successo anche questo, sì. Sono soddisfazioni. Su Twitch, mi capita di interagire col tredicenne infottato così come col cinquantenne superesperto, ed è molto bella questa combinazione, anche perché entrambi si dimostrano molto curiosi ed appassionati, non lesinano le domande. Io, da parte mia, sono molto aperto e rilassato. Arrivo nel mondo dei dancefloor con molta umiltà: tanto quanto nel mondo dell’hip hop ero spocchioso, qui mi trovo con uno spirito opposto, “Ehi, insegnatemi quello che non so”. E’ che sono perfettamente consapevole che molte cose me le sono perse, negli anni in cui mi sono concentrato sul rap. I miei riferimenti più legati al dancefloor si fermavano in qualche modo agli anni ’80 e ai primi anni ’90, dopo sono stato inevitabilmente risucchiato su altre sponde; ma non ho il minimo dubbio che in questa maniera mi sono perso un sacco di figate, tra seconda metà degli anni ’90 e l’inizio del nuovo millennio. Tant’è che spesso quando parlo con le persone dico “Se c’è qualcosa che trovate interessante di quel periodo lì, mandatemelo subito. Ascolto, assimilo, recupero quello che mi sono perso: e lo faccio con grande piacere”.
Arrivo nel mondo dei dancefloor con molta umiltà: tanto quanto nel mondo dell’hip hop ero spocchioso, qui mi trovo con uno spirito opposto, “Ehi, insegnatemi quello che non so”
Che l’indie non sia il contesto giusto dove metterti è evidente, alla fine; però resta il problema – dove è più corretto catalogarti in questo momento?
Sostanzialmente, nella schiera dei curiosi. Soprattutto questo secondo album non l’ho fatto pensando al mercato italiano. Arriva dopo una serie di release per il mercato giapponese, americano ed europeo: una serie di dodici pollici di remix, re-edit, eccetera che ha avuto un riscontro assolutamente buono. Però sì, per capire bene cosa fosse North Of Loreto e consolidarne il profilo in ambito clubbing non c’era ancora molto – e qui arriva questo secondo LP. Fatto comunque in serenità, senza avere nulla da perdere. Se guardiamo al mercato italiano, il mio è un disco spudoratamente anni ’80, non c’entra molto coi recuperi ora in auge, ovvero gli anni ’90 da un lato e gli anni ’70 funk-disco (vedi Nu Guinea): questo potrebbe essere paradossalmente un suo punto di forza o, comunque, un discreto motivo di interesse. Pensa tra l’altro che quando ho avuto l’idea di mettere su North Of Loreto originariamente lo immaginavo come qualcosa di esclusivamente italo disco…
Ah!
…poi però ho fatto tre provini e mi sono detto che non era il caso, “Dai cazzo, ma dove vuoi andare con l’italo disco. Mi piace parecchio, ci vado pazzo, ma chi vuoi che se la ascolti”. Solo dopo ho scoperto che per queste sonorità c’era una fan base globale molto più robusta di quello che pensavo.
Che poi guarda, in questo specifico filone più anni ’80 trovo che questo secondo album Nort Of Loreto sia la cosa più convincente uscita dopo le release di Tiger And Woods.
E’ un modo per dirmi che ti è piaciuto?
Assolutamente sì.
Se ti ricordi, quando un anno e mezzo fa circa ci siamo incontrati e tu mi dicesti “Dai, accidenti, sarebbe bello parlare anche un po’ delle tue passioni originali, non solo quelle hip hop…” io non ti dissi nulla se non “Vedrai, sì, ci sarà modo”. North Of Loreto stava per nascere, ma ovviamente non volevo ancora parlarne.
(il secondo, ottimo album: “M”; continua sotto)
Ma la nascita di North Of Loreto implica anche un disinnamoramento verso il mondo hip hop, o sono due canali paralleli ed indipendenti in cui solo incidentalmente ora spicca più uno dell’altro?
Non è facile rispondere a questa domanda. Purtroppo, ti dico che tutti i miei ascolti degli ultimi quattro, cinque anni mi portano lontano dall’hip hop. Sì: è un periodo che prende anche quando facevo uscire “Mia Maestà” nel 2017, o la serie di mixtape attorno al 2015. Release che ho portato avanti con molta fatica, soprattutto verso la fine: già lì ero in crisi. Mi sentivo fuori luogo, questa è la verità. Fuori luogo in quella musica, fuori luogo in quell’ambiente. Sai, una cosa bella del fare musica è anche trovarsi coi colleghi dei propri ambiti e scambiarsi un sacco di impressioni, idee, condividere una serie di passioni, no? Ecco: mi ero ritrovato a non avere più molto da dire. Non avevo più argomenti. Erano poche le uscite che mi appassionavano. Sì, Anderson .Paak, ok, va bene; ma poi? Volendo Mac Miller, ma pure lui si stava allontanando da un certo tipo di scena, di grammatica, e proprio per questo mi intrigava. Questa cosa mi ha inquietato, sarò sincero: mi sono reso conto che era come se fossi giunto ad un grado di saturazione. Una saturazione che mi permetteva di continuare ad apprezzare caposaldi del passato del rap, ma ora li apprezzavo come fossero – che so – “Nevermind” dei Nirvana. Apprezzavo “Ready To Die” o i Mobb Deep nello stesso identico modo: come dei classici. Classici che travalicano i generi. Mentre il genere rap nello specifico iniziava a non accendere più la mia passione, sempre meno mi capitava di ascoltare qualcosa e pensare dopo pochi secondi “Ah però, senti qua che roba”. E’ come se negli anni mi fossi immerso talmente tanto nell’hip hop, in modo così profondo ed accanito, da avere ora una fase di rigetto in cui non mi interessa più essere super-informato e super-aggiornato… e in cui preferisco, in realtà, ascoltare cosa arriva da altre scene.
Non c’è nulla di sbagliato ad arrivare ad un punto in cui senti di non “rappresentare” più una determinata realtà; e quando accade, non devi fare finta che non stia accadendo. Sennò il rischio è di diventare una sorta “paladino della giustizia”, e rimani impiccato a quel ruolo lì
Ti è capitato di parlarne con Deda? Trovo molto similitudini. Anche lui ad un certo ha “abbandonato” di botto l’hip hop, dedicandosi ad un funk molto “danceflooroso”…
Prima della fine dell’anno scorso abbiamo fatto una bella serata assieme, cenando e raccontandoci un bel po’ di cose. Ti dirò: la differenza è che Deda l’hip hop all’epoca lo abbandonò quasi subito.
Anche se era veramente all’apice, tra Sangue Misto prima e le produzioni per Neffa poi.
Si è dedicato subito a cose molto di nicchia. Si è capito subito che la sua era una scelta al cento per cento sentita e sincera, “naturale” direi. Non era un problema di saturazione come nel mio caso, non era nemmeno un problema di dire “Il rap non vende, ora faccio altro”. Forse anche per questo ora, passato un po’ di tempo, Deda si è molto riconciliato col rap e ora lo segue attentamente, ne ascolta tantissimo.
Ha pure ripreso a sfornare delle produzioni.
Esatto.
Tu?
Io non escludo nulla. Ora mi diverto molto a fare i tutorial on line (che mi spingono anche a sfornare delle produzioni); quando faccio digging compro moltissimi vinili di breakbeat, di sample, robe oscure dell’Est Europa – l’istinto del digger insomma non l’ho assolutamente perso. Ma a dirtela tutta, credo che quei dischi li userò sempre più per suonarli così come sono, non per usarli per estrapolarne dei sample per una base hip hop. Anche perché ho visto che esiste una bella comunità globale che ha esattamente questo tipo di attitudine. Gente che se mi presentassi a loro dicendo “Ciao, arrivo dall’hip hop, e quello comunque voglio fare e basta” non farebbe altro che guardarmi strano. Uno con cui mi sto sentendo tanto negli ultimi anni è per farti un esempio Just Blaze, che per chi non lo sapesse è un nome enorme nell’hip hop, c’è molto di suo nei capolavori di Jay-Z tanto per dire: ecco, lui ama la musica a trecentosessanta gradi, se senti un suo dj set vedi che passa con disinvoltura da un’ora in cui suona Large Professor o cose così all’ora successiva in cui mette su “Gypsy Woman” di Crystal Waters o, al contrario, pezzi house sì ma oscurissimi, sconosciuti, con dei sample assurdi. Chi è appassionato di musica davvero, ormai ha questa attitudine praticamente sempre. Non c’è più questa ansia di dover “rappresentare” una scena in modo puro, come invece accadeva negli anni ’90, con una chiusura che avevamo un po’ tutti – io per primo. Sai, quella roba lì per cui ti sentivi il portavoce di una scena e non ammettevi intrusioni, deviazioni…
Io ai tempi mi sono avvicinato al rap perché era la cosa più alternativa che ci fosse: erano gli anni ’90, la dance era all’apice delle popolarità (tant’è che ora la stanno recuperando proprio nel rap mainstream), mentre il rap era la cosa più criptica ed odiata
Che però è stato anche un modo per proteggerla, la scena.
Assolutamente. E’ stato un modo molto genuino di portare avanti le proprie passioni, quello che si stava facendo. Non c’erano altri scopi, in questa “chiusura”, in questa integrità. Ma con gli anni mi sono reso conto dei costi di questa scelta, per me in prima persona. Ancora oggi, se faccio il nome di un collega della scena hip hop parte tutta una serie di dietrologie tipiche dei circuiti chiusi, “Eh, se Bassi ha detto questo allora…”. Ma io, in realtà, nella scena hip hop odierna non ho più molta voce in capitolo. Nel senso, mi metto da parte quando si tratta di giudicare. Non voglio più essere uno che polarizza opinioni all’interno di un contesto ben specifico. Io oggi faccio musica a trecentosessanta gradi, sono felicissimo di farla, e chi si trova bene con questa mia attitudine è più che benvenuto a condividerla con me. Proprio questo è lo spirito con cui nasce il canale Twitch che ho messo su, dove veramente sono rilassato, dico le cose con grande leggerezza e naturalezza. Il risultato è che con chi ha una attitudine simile, ci si trova in modo molto spontaneo. Questo è piacevolissimo. Sarò sincero: non pensavo che da qualcosa nato sull’on line potesse venire fuori qualcosa di così piacevole, considerato la piega che hanno preso le piattaforme social negli ultimi anni.
Ma se ti guardi indietro, con sguardo retrospettivo, come giudichi gli anni in cui invece eri un assoluto punto di riferimento di una scena specifica (e molto particolare), quella hip hop? Penso che ora tu possa avere uno sguardo molto sereno, disincantato e al tempo stesso lucido sulla cosa…
Ho fatto il mio. E sono contento di quello che ho ottenuto, in primis perché l’ho ottenuto lavorando con molta costanza. Mi rendo conto di aver maturato una posizione di rilievo: e questo status me lo sono anche goduto, appunto perché so che è arrivato grazie ad un lavoro lungo anni. Questo soprattutto per quanto riguarda l’ultimo decennio. Andare in giro, suonare, mettere i dischi, fare concerti: il tour di “Mia Maestà” credo sia arrivato a qualcosa come quaranta date, toccando anche palchi piuttosto importanti. Non è male, per un artista in giro ormai da venticinque anni. No? Ma non c’è nulla di sbagliato ad arrivare ad un punto in cui senti di non “rappresentare” più una determinata realtà; e quando accade, non devi fare finta che non stia accadendo. Sennò il rischio è di diventare una sorta “paladino della giustizia”, e rimani impiccato a quel ruolo lì. Invece, io voglio vivermela e me la vivo in modo molto più sereno, dando sfogo ai miei desideri come musicista – qualche volta in maniera disordinata e bizzarra, qualche volta in maniera più strutturata come in questo ultimo album.
Non ti è mai venuto un umanissimo e comprensibile dubbio del tipo “Cazzo però, mi sto staccando dal rap proprio ora che potrei raccogliere con molta più facilità i frutti di un lavoro lungo anni”? Tu hai dovuto disseppellire e buttar giù molta merda quando hai portato avanti la bandiera dell’hip hop in Italia nel momento in cui pareva non interessasse a nessuno se non a quattro sfigati fissati, ora che invece la situazione è opposta, che il rap in Italia è quasi il “carro del vincitore”…
Un po’ mi conosci. E se mi conosci, sai che io da sempre rifuggo tutto ciò che è nazionalpopolare. Ne sono proprio infastidito. A prescindere. Anche se sono il primo a sapere che ogni tanto ci trovi anche delle cose di valore. Musica buona, fatta bene, prodotta bene, eccetera. Però ecco, io ai tempi mi sono avvicinato al rap perché era la cosa più alternativa che ci fosse: erano gli anni ’90, la dance era all’apice delle popolarità (tant’è che ora la stanno recuperando proprio nel rap mainstream), mentre il rap era la cosa più criptica ed odiata. E’ sempre stato naturale, per me, andare nella direzione dove non andavano gli altri. Ho sempre avuto questo istinto di scegliere la via più accidentata. Ma non per torturarmi, ma proprio perché era la cosa che mi faceva stare meglio. Nel momento in cui sto bene, ho abbastanza per arrivare a fine mese, per comprare dischi che amo, per rifornire sempre di equipment all’altezza il mio studio, io sono a posto. Ho una vita molto regolare, io: la famiglia, lo studio, i miei amici, i concerti e i dj set quando capita. Nel momento in cui questo equilibrio continua ad esserci, e posso fare musica venendo rispettato da chi mi seguiva prima e incuriosendo le nuove generazioni, non ho bisogno di altro.
E’ sempre stato naturale, per me, andare nella direzione dove non andavano gli altri. Ho sempre avuto questo istinto di scegliere la via più accidentata. Ma non per torturarmi, ma proprio perché era la cosa che mi faceva stare meglio
Domanda prettamente tecnica: in questa tua “nuova vita” dal punto di vista stilistico, ci sono stati producer con cui ti sei confrontato per acquisire un po’ i “trucchi del mestiere”?
Prima di tutto ho ascoltato tantissimi dischi. C’è secondo me un grande patrimonio ancora in buona parte inesplorato come quello del modern soul, del boogie e del funk elettronico anni ’80.
Che poi per i puristi quello è il funk della decadenza.
Esatto! Mi ricordo che ne discutevo sempre con Ciso… Lui: “Gli anni ’80 fanno schifo”. E io: “Ma no, dai, pensa che ne so alla Fatback Band…”. Lui: “Li ascoltavo negli anni ’70, poi sono diventati pessimi”. E avanti così, per ore… Ma è giusto, ci sta: è un fattore generazionale. Perché io essendo nato nel 1973 ho una predilezione per gli anni ’80, se fossi nato dieci anni prima probabilmente mi sarei sentito più vicino a quanto successo nel decennio precedente. Comunque, sì: il mio è stato prima di tutto un processo di studio, di ascolto. Dopodiché, ho agito in studio con grande libertà: ho usato tanto l’MPC, tanto synth analogici – con tutte le limitazioni che questo comporta. Perché erano proprio loro quelle che cercavo. Tante tracce sono state prodotte proprio “a mano”, le 303 non state programmate ma suonate in tempo reale giusto per dire, coi loro filtri, proprio “one take”. L’ho proprio detto a Veezo, mio stretto collaboratore in questa avventura: “Senti, Fabio, per me è importante che tutta questa cosa abbia un feel molto “live”… Tu suona. Vai tranquillo. Vai ad istinto. Facciamo un po’ di take. Poi, come viene viene – come ai vecchi tempi”. Del resto, l’house di Chicago era un loop di drum machine con qualcuno che ci suonava un pianoforte sopra. Se poi vuoi anche dei nomi, che mi abbiano fatto un po’ da esempio e punto di riferimento, potrei citarti Steve “Silk” Hurley, Kevin Saundeson, Kenny “Dope” Gonzales, “Jellybean” Benitez. Tutti nomi storici? Sì. Ci sono dei riferimenti successivi? No. Quelli li sto iniziando ad accumulare adesso. Mi spulcio un sacco di playlist house e scopro quotidianamente cose nuove molto interessanti. Trovo molto affascinante chi riesce a fare qualcosa di interessante, di saporito riuscendo anche a trasmettere un po’ lo spirito della propria città, di un contesto ben specifico. Quando senti il suono di New York (o di Chicago, o di Detroit) e lo riconosci come tale, c’è sempre un brivido in più.
Tu, quanto ti porti dietro allora di Milano?
Tanto. Perché io a Milano mi sento a mio agio, e quello che faccio qui non riesco a farlo da altre parti. Mi trovo davvero naturalmente a mio agio. Ancora di più negli ultimi anni, ora che ho avuto modo di scoprire meglio la sua quotidianità slegata dalla mia vita da artista. Il fatto di smettere di fare concerti in modo così assiduo, quando per forza di cose tre quattro giorni alla settimana erano dedicati a suonare in giro e muoversi per farlo, mi ha cambiato le prospettive. Ora giocoforza suono di meno: ho cambiato direzione musicale quindi è naturale che al momento ci siano meno richieste, e poi ho pure smesso di accettare di suonare come dj nelle discoteche (anche perché la discoteca, per me, ha fatto il suo tempo), preferisco piccoli club e barettini. Il risultato? Mi sono un po’ “liberato”. Ho più tempo per stare con gli amici, uscire, andare finalmente a sentire suonare altri. Fino a due, tre anni fa questo mi era praticamente impossibile. Il tempo che avevo era dedicato alla famiglia, allo studio e appunto all’andare a suonare in giro. Ora, che me ne sono finalmente ritagliato di più, ho “riscoperto” Milano ed è stato davvero un bel riscoprire. Anche perché fatto in modo più adulto.
Più adulto, più rilassato.
Molto più rilassato. Non ho più trent’anni, non faccio più le sei del mattino perché “devo” farle. Anche per questo ora Milano riesco a vivermela meglio. E’ una città per me davvero fondamentale, non credo riuscirò mai a staccarmene, in primis mentalmente. Poi, attenzione, non voglio essere quello che ora approfitta del “brand Milano”. Sono sì contento che il quartiere in cui vivo da dodici anni (a nord di Loreto, appunto) abbia finalmente una identità e offra molto di più: prima potevi solo uscire e mangiare da solo, ora invece incontri persone interessanti, amici, gente con cui parlare di musica o anche di birre artigianali. Anche questo ha in qualche modo a farmi vivere una “rinascita” a livello artistico: ho passato otto, nove anni senza vedere nessuno, senza uscire mai, senza fare mai vita di quartiere perché non c’era niente, non c’era nessuno. Mentre il fermento che c’è ora mi ha molto stimolato; soprattutto, mi ha dato forza e fiducia nel fare cose nuove, cosa a cui desideravo fortemente avvicinarmi e dedicarmi. Tutto questo significa tanto.
Foto di Francesco Caracciolo