Una delle cose più gustose degli ultimi giorni – da osservatore del rap – è stata vedere l’opinione pubblica di appassionati, addetti ai lavori e non, scambiarsi opinioni e pure insulti sul disco più chiacchierato della settimana: e no, non sto parlando del ritorno in salsa rap di Gigi D’Alessio, ma di “Padre, Figlio e Spirito” della FSK.
Da osservatore più o meno disinteressato (non ho mai amato molto l’FSK), il mio atteggiamento di base è stato quello di fare come quel meme di Michael Jackson coi popcorn in mano e la scritta “Sono solo qui per i commenti”: stare lì, aspettare, e osservare. oppure, per rimanere fedeli al tema di questo articolo, fare quello che Greg Willen non fa mai, cioè dormirci sopra. Giusto per capire con calma se dovevo essere indignato o meno.
La realtà è che si sta sprecando un sacco di inchiostro (figurato) per nulla. Sì, eccoci qua a dire che al di là di ogni volontà di provare ad analizzare, concettualizzare, trovare significati, doppi sensi e chiavi di lettura, nel disco della FSK non c’è in realtà nulla da capire. “Padre Figlio e Spirito” è un puro prodotto di intrattenimento monodimensionale: non è niente di più di quello che sembra (il disco, di loro invece ne parliamo dopo…), senza chiavi di lettura articolate né doppi sensi di natura analitica. E’ un lavoro fatto con la consapevole attitudine di voler: a) indignare i critici che puntano il dito con atteggiamenti paternalistici b) far infiammare la propria fanbase c) far sentire giovani gli ultratrentenni che in loro vedono un giusto compromesso tra una scena trap di cui vogliono comunque godere senza sentirsi fuori posto e un’attitudine hardcore che però non flirti a tutti i costi col pop.
(Eccolo, “Padre figlio e spirito”; continua sotto)
Un prodotto ben confezionato per far parlare di sé. Il tutto con: i featuring wow – ovvero il guru di Chicago Chief Keef con il suo socio Tadoe (per chi non li conoscesse, sono i padri del drill) e la pop/rockstar Sferaebbasta; un’immagine cool senza compromessi; comunicazione social pazzesca per far aumentare l’hype; e infine una musica che va dritto nel solco del lavoro precedente che tanto aveva fatto impazzire i fan. Insomma un prodotto pulito, giusto e corretto per il 2020. Stop. Punto. Fine. The End.
Un prodotto ben confezionato per far parlare di sé
Questo paragrafo potrebbe già chiudere l’articolo, ma, e dico “ma”, ci sono comunque alcune cose da puntualizzare e osservare. Partendo dall’angolo delle polemiche, moltissimi commentatori – tra cui anche i famosi critici con fare paternalistico – si sono astenuti (come di consueto) dal rimproverare loro l’unico vero problema del disco: ovvero, l’utilizzo della N word senza nessuna remora. Questo è il vero elefante nella stanza; non è la mancanza di contenuti e le solite banalità che vengono rimarcate a dischi come questo, ma è tuttavia semplicemente inaccettabile che un gruppo di ragazzi bianchi utilizzi quel termine liberamente. Ripeto: è inaccettabile. Quindi di nuovo tocca riprendere in mano vecchi discorsi (ne avevamo già parlato in questo pezzo): utilizzare quella parola non fa ridere, non è simpatico, non fa ghetto. Fa invece schifo.
Per inciso: sarebbe da chiedere a Ghali cosa pensa di questo album, e chiedergli conto del perché fa pezzi con Taxi B, e poi fa la morale ai colleghi sul loro non prendere posizione contro il razzismo – vedi il recente sfogo su Instagram dopo l’omicidio di Willy Monteiro.
Andando avanti, è molto interessante notare il percorso inverso fatto dall’FSK rispetto a quello della Dark Polo Gang. Da una parte infatti la Dark ha trovato l’appiattimento e la standardizzazione nel momento in cui ha deciso di affacciarsi al mercato mainstream, dall’altra l’FSK ha premuto il tasto sull’acceleratore nel momento del successo, rimarcando ancora di più l’atteggiamento di rottura.
Non solo: rispetto alla Dark, l’FSK ha avuto una “maturazione” molto più interessante, con una differenziazione peculiare dei suoi tre protagonisti: Sapobully, il trap boy; Chiello, l’emo; Taxi B, il punk 2.0. Inversamente rispetto alla DPG, che dalla rottura con Side ha cercato nell’unione e nella mancanza di caratterizzazione singola la forma del successo – con i suoi tre protagonisti che hanno molto rinunciato alle loro peculiarità, Wayne su tutti – la FSK ha cercato nella differenziazione il suo quid in più, rimarcando in modo maggiore come le tre teste siano poi al servizio del collettivo.
La differenza sostanziale rispetto al precedente “FSK TRAPSHIT” è tutta qui. Mentre prima si erano mossi come un blocco unico per sfondare il muro del mercato, ora che i muri sono caduti hanno trovato nel gusto personale un modo per tenere alta l’asticella. Si potrebbe infatti dire che Sapo si è calato al 100% nella parte del trapper, accentuando ulteriormente la sterilità linguistica e la povertà di tecnica che lo caratterizzano; Chiello prova in modo sempre più consistente a cantare (se così si può chiamare quello che fa…); mentre Taxi gioca con la forma canzone rompendo e ricostruendo gli schemi a suo piacimento, in modo totalmente anarchico. Menzione di merito va a Greg Willen: l’FSK va letteralmente al ritmo di Greg Willen, che è il motore e il cuore del gruppo; indiscutibilmente un top player, e forse miglior producer in Italia al momento.
Tornando al paragone con la Dark Polo, è indubbio che l’FSK sia diretta discendente del fenomeno DPG: nel senso che senza la prima non sarebbe mai potuta emergere la seconda (qui spiegavamo perché la Dark Polo ha avuto un effetto decisivo per le nuove generazioni, più di chiunque altro), visto che la DPG ha preparato proprio il terreno da un punto di vista concettuale e di immaginario.
E’ però pur vero che tra i due terzetti esiste una differenza fondamentale. Da una parte infatti la Dark Polo è stato un fenomeno culturale, dall’altra l’FSK è un fenomeno di culto. Gli schemi rotti e i nuovi stilemi introdotti dalla Dark hanno avuto un effetto profondissimo sull’immaginario del rap Italiano. Hanno avvelenato i pozzi per anni, tanto che ormai sembrano immutabili, dei meme viventi quasi, e sono diventati parte integrante dell’immaginario culturale comune.
Dall’altra, invece, l’FSK si pone come un fenomeno per iniziati, per tutti coloro cioè che sono già in possesso di strumenti per comprendere un determinato tipo di immaginario, nei suoi pregi e nei suoi difetti (…che ci sono, sia chiaro). In questo senso, l’FSK rappresenta un mondo e un modo di essere codificato di cui si decide coscientemente ed attivamente di voler far parte, e quindi piace tantissimo soprattutto ai ragazzini, che da sempre sono i primi in cerca di qualcosa di rottura che li differenzi, senza badare a risvolti culturali più o meno “alti”.
L’idea di culto è rappresentata molto bene anche dalla copertina del nuovo disco, che nel contesto dell’FSK ha perfettamente senso. E’ interessante poi notare come poi il loro essere “di rottura” si sposi in maniera perfetta con un disco estremamente contemporaneo come sonorità e approcci, dove si combinano in modo efficace stili, produzioni, e immaginari molto diversi tra di loro, che pure nella incompatibilità funzionano una volta accostati.
Tutto questo per dire che l’FSK è piena di problemi e il primo di questi, come si diceva sopra, non è che non sanno rappare. Di rap (se così si può chiamare) in questo disco ce n’è davvero poco, ma il loro background è quello quindi si potrebbe dire che fanno trap; ma etichettarli come dei trapper “standard” sarebbe disonesto e in fondo superficiale, perché una delle poche note positive dell’album sono le mille suggestioni diverse.
Insomma, loro sono la dimostrazione che le etichette moraliste sono inutili nella discussione musicale contemporanea, una lezione che dovrebbero imparare anche i critici con fare paternalistico che puntano il dito e sparano sulla croce rossa di difetti conclamati (e a dirla tutta poco interessanti) per sembrare dei novelli Marco Travaglio.