E’ stata una estate particolare, complicata e quasi assurda, inutile dirlo, inutile ribadirlo. Ne abbiamo parlato più volte (ad esempio qui e qui), e ci sono anche articoli scritti prima della ri-chiusura delle discoteche che hanno dimostrato, a distanza di due mesi, di essere (purtroppo) invecchiati molto bene e di essere rimasti attuali. Però c’è un buco, nella nostra copertura editoriale di quest’estate. C’è un evento di cui sicuramente avremmo voluto parlare, e di cui forse avremmo dovuto parlare. E’ che un po’ ti perdi tu, tra le mille cose da fare per (soprav)vivere quotidianamente, un po’ ad un certo punto è diventata una scelta precisa: profilo basso. Con le discoteche, i club, gli assembramenti danzanti diventati “il” nemico dell’estate grazie alle Lucarelli, agli Scanzi, ai tanti opinionisti moralisti più concentrati nel vellicare l’indignazione “facile” delle persone che a leggere i dati e ragionare ad ampio raggio, rischiavi quasi di non fare un favore ad un evento parlandone. Anche se questo evento era svolto perfettamente nei termini delle leggi locali (…in questo momento, l’abbiamo già scritto e lo ripetiamo, la stella polare devono essere le leggi così come sono, piacciano o meno: non è una regola valida sempre, la storia del clubbing passa anche attraverso l’illegalità e la sfida alle leggi, ma in una fase di incertezza ed emergenza sanitaria sono il criterio “meno peggio” che si possa adottare).
Perché sì, le jene dell’indignazione erano pronte a saltare fuori. Alla fine insomma abbiamo lasciato che Alternate, l’instant-festival nato al posto di Polifonic (che quest’anno era ambizioso, uno e bino), passasse senza che noi dedicassimo una riga: è andata così. Ma con un pensiero fisso: “Però la cosa si recupera. Perché a modo suo è stato un evento importantissimo”. E’ infatti andato molto bene. Ha dimostrato che sono possibili due cose: uno, lavorare in emergenza, con agilità, capacità di reagire e di resettare scelte ed obiettivi; due, radunare un bel pubblico anche con una line up di soli artisti italiani, scelti attentamente, capace quindi di esprimere una altissima qualità… non insomma una scelta “di ripiego” (e nemmeno vissuta come tale).
Già: l’errore che non bisogna fare è vivere questa cosa delle “Ora però via alle line up italiane!” come un ripiego, come un limitare i danni, come un “Vabbé, si fa con quello che c’è”. Molti potrebbero farlo anche inconsciamente, eh; che è il motivo per cui comunque, se vuoi fare quel “passo in più”, non ti accontenti di una line up che nella tua testa è comunque vissuta come “minore”, come succedaneo necessario rispetto all’eccezionalità del periodo-Coronavirus. Che Alternate non l’abbia fatto e nemmeno pensato, tutto questo, è confermato dall’impegno che ha messo nel creare un cartellone con Adiel, Marco Shuttle, Massimiliano Pagliara, Marvin & Guy, Boston 168, Francesco Del Garda, Gigi Masin, Mr. Ties, Paula Tape, Hiver, Daniele Baldelli, Matisa, Claudio PRC tutti insieme – e questo è un elenco solo parziale di chi ha suonato a fine luglio al festival. Un “ripiego” non lo fai così. Una infilata di questo tipo di nomi la metti in piedi solo se ci credi, e tanto.
Con fatica, con attenzione, con difficoltà vediamo nascere via via tentativi di ripresa. Parlando delle cose di cui saremo diretti testimoni c’è questo weekend la ripresa di Rills a Verona (e Qloom e Veniceberg che vengono coinvolti, nella stessa città, nel festival Le Mura; abbiamo citato Firenze, pochi giorni fa. Assolutamente bellissimo quello che ha fatto pochi giorni fa a Roma Spring Attitude, in una delle sue Waves, anche qui mantenendo alto il proverbiale profilo qualitativo del festival affidandosi solo ed esclusivamente ad artisti italiani; o anche quello che annuncerà a breve quel piccolo gioiellino di Outer, in Emilia, che per il secondo anno di fila farà una line up tutta italiana (e di gran gusto). Personalmente ci prendiamo un impegno, che speriamo di poter mantenere: seguire più e meglio questa “rinascita atipica” (…resa per forza atipica dalle circostanze), per dare il giusto spazio ha chi non vuole perdere idee, entusiasmi, voglia di fare, capacità di proporre una linea adatta ai tempi e al tempo stesso nuova, che (ri)prende l’importanza della vicinanza, della prossimità geografica ed emotiva, dell’essere “club” nel senso più pieno del termine – cosa quest’ultima che è andata a perdersi nel momento in cui tutto ciò che è clubbing è diventata una routine di “Qual è l’ospite straniero, il grande ospite stasera?”, routine determinata da quanti soldi metti sul piatto e con quali agenzie di booking puoi rapportarti… tutto il resto in secondo piano.
Le agenzie e gli ospiti stranieri resteranno, o comunque non devono ora diventare facile capro espiatorio: anche perché nei due decenni passati la loro combinazione e il loro crescere ha permesso di professionalizzare non di poco il mondo della notte italiano, e porca merda se ce n’era bisogno. Ma non devono più essere l’unica via. Si può fare anche senza di loro, o ogni tanto senza di loro; o si possono riprogrammare dei rapporti e delle relazioni più sane, più “a misura d’uomo”, anzi, “a misura di club” – recuperando il significato originario della parola “club”, quello di comunità e non di posto dove si fanno e si massimizzano fatturati con la musica elettronica e la cassa in quattro quarti. Essere “comunità” significa anche mettere da parte (parte dei) sogni di gloria, di potere, di egemonia, di successo. Può valerne la pena.
E’ con questo spirito che mettiamo qui sotto una agile chiacchierata che ci siamo fatti con Marco Sala, deus ex machina di Polifonic ma anche, come si diceva, di Alternate. La sua è una figura molto interessante: perché è uno che nella “industria” del clubbing lavora da tempo e ad alti livelli, con una lunga esperienza di eventi, serate, festival coi nomi “forti” (quelli insomma da grandi incassi e/o da Resident Advisor, testata con cui il suo legame è stretto da tempi non sospetti); è uno che ha saputo reagire all’arrivo della era-del-Coronavirus riprogrammando quanto già progettato e venendo anche fuori con nuove idee e nuovi format (Magma: dateci un occhio, nella prima parte di programmazione prima della pausa estiva c’è più di una gemma – personalmente l’intervista con Ralf e Leo Mas posso dire che ha regalato tantissimo, a livello proprio di cultura, spessore ed emozione). Non è questione ora di trasformare tutto in una lotta Line Up Italiane versus Pezzi Di Merda Che Chiamano Ancora I Soliti Stranieri. La situazione è più fluida. E la soluzione è: darsi da fare. Ognuno a suo modo, ognuno con la propria capacità d’analisi e d’impresa, ognuno con l’obbligo di capire che i tempi oggi sono diversi rispetto a uno o cinque anni fa. Ma, per fortuna, si-può-fare. E il primo eroe oggi non è più l’agente cazzuto, non è il manager dell’artista potente, e non è l’artista che può permettersi il jet privato e lo swag balearico: è il promoter locale, è chi – anche uscendo dal “locale” – ha reali contatti e capacità di “fare gruppo” all’interno della scena, è chi non ha smesso di immaginare, provare, osare, ripensare.
(La line up completa di Alternate; sotto, l’intervista a Marco Sala)
Prima di tutto vorrei chiederti una cronistoria un po’ “dolorosa”, immagino, per te come promoter ed organizzatore: quando hai capito che Polifonic non avrebbe potuto svolgersi, e uguale la sua neonata (e neonata in grande…) “costola” milanese? Fino a quando avevi sperato invece di poter portare tutto a termine?
Ho sperato fino all’ultimo, non lo nascondo. Soprattutto per quanto riguarda Polifonic in Puglia. Ma la consapevolezza e la doccia fredda sono arrivate ad aprile: quando ho saputo di colleghi italiani che stavano posticipando o addirittura annullando festival ed eventi calendarizzati per autunno o inverno 2020. Se annullavano loro… Lì ho capito che era il caso di rassegnarsi. E, il giorno dopo, di iniziare subito a lavorare per il 2021.
Quanto persone avrebbero dovuto lavorare, più o meno, a Polifonic in Puglia? E quante nella sua “replica” milanese?
Partendo da Polifonic in Puglia, che ormai portiamo avanti da anni e abbiamo chiara tutta la dinamica organizzativa, posso dire che tra ingaggi diretti e piccoli appalti collaboriamo con circa duecento persone. A occhio credo che pure l’evento milanese avrebbe avuto, dal punto di vista occupazione, una dimensione simile.
Come è stato il rapporto coi management dei vari artisti, nel momento in cui hai annunciato gli annullamenti? Senza dover per forza fare nomi, chi ha reagito nel modo più accomodante e collaborativo?
Devo essere sincero: c’è stata grande comprensione. I vari management si sono dimostrati molti disponibili e flessibili, lavorando subito per posticipare i vari ingaggi al 2021. Credo che complessivamente ci sia stato un giusto approccio ad affrontare un problema mondiale: un problema inaspettato, e più grande di noi tutti.
Quando è nata invece l’idea di dare vita ad Alternate, questo “coup de theatre” (ad alta qualità) che quasi dal nulla ha sostituito Polifonic quest’anno?
Appena si è avuta la conferma che sì, la Regione Puglia stava davvero facendo sul serio nel voler riaprire, non erano solo voci di corridoio senza sostanza, ci siamo messi in moto per produrre un festival “last minute”. Dalla prima ordinanza regionale del 15 giugno 2020, che di fatto dava il via libera all’organizzazione di eventi e club open air con qualche più che comprensibile limitazione, abbiamo aspettato ancora un paio di settimane, per capire come fosse la prima risposta del pubblico a questa cosa e come si stesse evolvendo nel concreto il tutto, e poi ci siamo messi in moto.
Fin dall’inizio l’idea era quella di dare spazio solo agli artisti italiani, o è una cosa che è diventata realtà e scelta precisa solo strada facendo?
Durante il lockdown abbiamo avuto modo di confrontarci parecchio con operatori ed addetti ai lavori sia nazionali che internazionali, ed uno dei temi più discussi era proprio la voglia di ripartire premiando finalmente e valorizzando il panorama artistico locale. Da quegli spunti è nata l’idea di mettere insieme una line up che fosse “made in Italy”: anche perché era bella l’idea di lavorare con e sui i nostri talenti, pesantemente colpiti dal lockdown e, con tutta evidenza, poco supportati finanziariamente.
Come ha risposto il pubblico? Secondo le aspettative?
No: assolutamente al di sopra. Il pubblico ha accolto con grande entusiasmo un festival fatto e pensato così. Abbiamo avuto una lieve flessione rispetto al Polifonic “normale” dell’anno scorso, ma vedere una risposta così rapida e positiva è stata una bella sorpresa. Un conto è Alternate, festival nato un po’ all’ultimo, un conto è Polifonic, un festival con anni di storia e su cui si è lavorato molto per farlo crescere anno dopo anno (in particolar modo gli obiettivi per il 2020 erano sicuramente ambiziosi).
L’impressione è che si sia scelta una linea di comunicazione intenzionalmente di profilo molto basso: poche immagini, poco clamore…
Non abbiamo volutamente condiviso granché in primis per ragioni di privacy. Ma ancora di più, non ci sembrava troppo carino nei confronti di amici e promoter nazionali ed internazionali che stavano vivendo una situazione molto più complicata, a livello di leggi e limitazioni, rispetto alla realtà pugliese. Ad ogni modo, Alternate è stato percorso da un’aura magica durante tutta la sua durata: è stato molto bello vivere un evento l’utilizzo asfissiante dei social. Racconto una cosa: avevamo inizialmente pensato di coprire telecamera e smartphone con degli adesivi. Poi però, ragionando a livello di produzione esecutiva, ci siamo resi conto che già tra i vari rilevamenti temperatura, mascherina, filtri e limitazioni al botteghino il clima era abbastanza “impegnativo”, a livello di ordini e divieti; abbiamo deciso così di affidarci solo al buon senso delle persone. Risultato? Non ricordo un’edizione di Polifonic con così pochi telefoni al cielo. Sarà un buon segnale?
Ritieni che usciremo effettivamente “migliori”, nel clubbing italiano, da questa complicatissima congiuntura creata dal CoVid? Oppure, quando l’emergenza-pandemia sarà passata, si tornerà alle solite dinamiche di sempre? Dinamiche che peraltro negli ultimi anni erano sempre più scricchiolanti per molti, soprattutto dal punto di vista economico…
Vorrei tanto risponderti in maniera positiva e dirti che sì, le cose cambieranno, le cose miglioreranno; ma, nonostante qualche segnale in effetti ci sia stato e ci sia, ho paura che col ritorno alla normalità tutto il sistema del clubbing tornerà alle dinamiche degli ultimi anni. O almeno, tendenzialmente farà così. A mio parere il segnale più importante e forte andrebbe dato in primis da noi promoter. Siamo degli imprenditori, e fare impresa in Italia – lo sappiamo bene – non è semplicissimo. Credo però che bisognerebbe affinare il proprio modo di lavorare, renderlo più sofisticato, smettendo di affidarsi solo ai “nomi” e cercando invece che vengano costruiti dei “valori” complessivi, di cui i “nomi” siano solo un complemento. Il guest deve essere un “plus” di una serata, non la sua unica ragione d’essere. Da un punto di vista strettamente operativo, ritengo che debbano esserci dei tetti alle fee, modulando anche le offerte su una parte fissa (il garantito) e una variabile (legata all’affluenza in serata), come del resto accade già da anni nel mercato della musica live. Ad ogni modo: quando vedo nuovi club che inaugurano mettendo in comunicazione una foto gigantesca del guest e incentrando tutta la comunicazione su di esso, penso che ecco, bisognerebbe proprio lavorare al contrario rispetto a così.
Ma i festival si “mangeranno” i club nel medio-breve periodo, come si sta dicendo già da tempo?
Il club rimarrà sempre un concetto prezioso. Lui, e non i festival, ha dato vita a tutto ciò che riteniamo “dance music” e credo che ancora adesso sia propedeutico allo sviluppo di nuove tendenze, nuove subculture, nuovi generi e sottogeneri. Per quanto riguarda i festival, capisco che oggi possa essere più “appealing” su certe fasce di pubblico: location più ambiziose, line up più ricche, capacità di intercettare gusti e pubblici diversi, mettendo tutti insieme. Noi poi in Italia avremmo delle carte davvero importanti da giocarci, in campo festival: un weekend fuori porta, in realtà piene di cultura e bellezza, dove magari sei a contatto sia col mare che con un’entroterra di rara bellezza – beh, tutto questo lo possono vantare in pochi.