Ha suscitato ragionevole (e prevedibile) indignazione la nuova mossa di Spotify, riassunta da questo articolo di Dj Mag che stanno condividendo un po’ tutti, nell’ambiente musicale: in sintesi, rinunciando ad una fetta delle già magrissime royalty per play il famoso&famigerato servizio di streaming neroverde garantisce una, diciamo così, spinta promozionale, “aggiustando” l’algoritmo che va a comporre e sviluppare gli autoplay in favore di chi opta per questa soluzione “pauperista”.
Da un lato, è per certi versi una semplice partita di giro camuffata: invece di pagare tu Spotify come se fossi un inserzionista per apparire di più, è invece Spotify a detrarre dal tuo compenso standard un conquibus per questo servizio. Una specie di “Vado avanti io o vai avanti tu?“. Il problema è che suona male: perché già la letteratura mondiale è piena di lamentele e grida contro gli zero virgola zero zero zero zero che Spotify garantisce agli artisti, nel momento in cui vai a varare una nuova policy se questa policy va a piallare ulteriormente questa miseria, beh, non è che ti rendi simpatico alle persone. E infatti.
Pazienza se alla fine il gioco risulterà magari davvero a somma zero (invece di dare cento in più come “sponsorizzazione”, guadagni cento in meno perché hai aderito ad un piano tariffario diverso), a Spotify evidentemente interessa mantenere anzi aumentare i fatturati e, lavorando di psicologia, sa che è più facile contare sulla “voglia di apparire” delle persone che sulla loro volontà (o possibilità) di allargare ulteriormente il portafogli. Il trick psicologico è questo. Molto facilmente, potrebbe funzionare. Del resto già il mondo dell’editoria è pieno di persone che pagano pur di essere pubblicati: perché la musica dovrebbe essere esente da questa dinamica, più o meno sfumata?
Il problema di molta indignazione contro questa mossa (che, lo ripetiamo, è comprensibile e giustificata – l’indignazione, non la mossa) è che continua ad ignorare una cosa: Spotify non sta ancora guadagnando. Anzi, ad oggi ha perso una barca di soldi, e spesso ad aumento di fatturato è coinciso però anche un aumento delle perdite operative (è stato così ad esempio passando dal 2018 al 2019 ma, spiega l’azienda, ciò è accaduto anche per un piano diffuso di acquisizioni, in particolare nel settore dei podcast: ad ogni modo, il 2019 – ultimo bilancio disponibile – ha visto una perdita di 186 milioni di euro ed ehi, se non foste accorti significa perdere mezzo milione di euro al giorno, quindi 21.000 euro all’ora).
Il problema di molta indignazione contro Spotify (che, lo ripetiamo, è anche comprensibile) è che si continua ad ignorare una cosa: Spotify non sta ancora guadagnando, anzi
Ora, sappiamo che anche Amazon ha passato anni ed anni ad inanellare bilanci che erano delle voragini, ma non tutti sono Amazon e non tutti, in maggior ragione in tempi pandemici, possono contare su una fiducia illimitata di azionisti e fondi d’investimento. E’ più di un sospetto insomma che a Spotify, alle alte sfere, quelli cioè che allungano il grano e tengono in piedi tutto, abbiano detto “Bello tutto, ma vediamo per favore di migliorarli, ‘sti bilanci” e i responsabili delle strategie operative abbiano dovuto inventarsi qualcosa a breve respiro.
Prima di gettare la croce addosso a Spotify di per sé, dovreste farlo addosso a due entità diverse. Una, è facile: le major. Sono loro che, contando sulla grandezza sterminata dei loro cataloghi (che ora, con lo streaming, sono monetizzabili a costo zero), su Spotify ci guadagnano – tant’è che a più riprese sono entrati nella compagine societaria della piattaforma svedese, guarda un po’. Una monetizzazione dei cataloghi che aiuta loro stesse, non gli artisti che rappresentano, visto che quasi sempre ci si basa su contratti in cui le royalty arrivano in percentuali stitiche ai veri autori delle musiche.
L’altra persone con cui prendersela, beh, siamo noi. Noi stessi. Nel momento in cui diamo per scontato che la musica sia gratis o che comunque meriti non più di un deca al mese, siamo noi per primi a darle il valore di merce, merce sacrificabile; merce che si può comprare – e disporre – un tanto al chilo. Sia chiaro: anche chi scrive queste righe ha l’abbonamento a Spotify (e non craccato, che in Italia già sembri un benefattore a far così…) e lo usa con grande soddisfazione. Se c’è la possibilità di avere questo servizio a così poco, perché diavolo dovrei pagarlo di più? Cosa sono, un filantropo, o un mantenuto che i conti e le bollette pagate dai genitori e da una rendita? No. Tanto più che di questi tempi ogni euro e prezioso.
I brand e la moda nell’ultimo decennio hanno iniziato a fagocitare con gran gusto gli aspetti “culturali” della musica, per disporne come degli asset promozionali. Non per forza una dinamica negativa: potrebbero essere loro, i brand, quello che erano i mecenati secoli addietro. ma non è un gioco privo di rischi
Ma un problema di fondo c’è. Se la musica si sta deprezzando, se sta diventando merce, è perché noi per primi le stiamo dando questo valore. E’ il solito discorso: non battiamo ciglio quando c’è da pagare centoventi euro per un paio di scarpe, ci scandalizziamo se c’è da allungare dieci euro per un album. Ma c’è più ingegno, più vita, più storie, più crescita personale in un album fatto bene o in un paio di scarpe della madonna? Una domanda che è stata accantonata ed anzi, i brand e la moda nell’ultimo decennio hanno iniziato a fagocitare con gran gusto gli aspetti “culturali” per disporne come degli asset promozionali. Non per forza una dinamica negativa: potrebbero essere loro, i brand, quello che erano i mecenati secoli addietro. Ma non è un gioco privo di rischi. Tutt’altro. Bisogna stare sempre vigili. E non pensare che vada bene così.
Una cosa è certa: Spotify non fa una cosa nobile a dire “Dammi i soldi, o meglio, fatti sfruttare di più, così almeno ti do un posto in prima fila“. Per nulla. Ok. Aumenta ed accresce una dinamica di sfruttamento e di non-rispetto del prodotto artistico, va bene. Una dinamica che, però, non nasce originariamente da Spotify ma nasce, sissignori, anche da noi stessi. Rendersene conto è il primo passo per iniziare a ragionare su come migliorare le cose. Ad esempio, con modelli stile Bandcamp. O tornando ad approcciare la musica e gli artisti che ci piacciono non intermediati sempre da piattaforme come Facebook, Instagram, Spotify, ma direttamente tramite i loro siti personali e comunque altre forme di contatto diretto e/o creato, organizzato, gestito in maniera orizzontale dagli artisti stessi. Ora ci sono, queste forme. Venti, trent’anni fa non c’erano, se non in scene forzatamente di nicchia. Pensiamoci.