Un tempo ci s’indignava, da un certo punto in avanti però si è capitato che no, non valeva nemmeno la pena: la Top 100 di Dj Mag aveva semplicemente smesso di essere quello che avrebbe voluto essere (ed era?) in origine, ovvero una classifica di bravura fra dj, diventando invece un listino di mercato in cui la tua bravura in console era un fattore fra tanti – nemmeno il più rilevante – da mettere insieme a presenza scenica, capacità di promuoversi, investimento di spesa del tuo management, capacità di aggredire il mercato mainstream. Pure l’edizione 2020 lo dimostra chiaramente. Un male? Un bene? Di sicuro, questa evoluzione è stato un modo in cui la classifica in questione ha trovato nuova linfa, facendosi fattore in grado di far fare il salto di qualità imprenditoriale (non artistico: imprenditoriale, di meri numeri e mera popolarità quindi) a un sacco di artisti. Per un po’ di tempo a noi, tromboni della vecchia guardia e/o integralisti della club culture, questa cosa non è andata bene, e abbiamo gridato all’imbarbarimento, allo schifo, alla decadenza dei tempi (cristallizzata al meglio dalla presenza di gente che non aveva mai fatto un dj set in vita sua che non fosse già pre-registrato in sync, o che magari erano anni che non compariva in console, vedi Daft Punk: dj de che? Di ‘sto cazzo!). Poi, ce ne siamo fatti una ragione.
D’altro canto, lo ripetiamo, che in molti mercati la Top 100 fosse una forza e un indicatore significativo, era a) un dato di fatto e b) piacesse o meno era comunque un merito oggettivo. Nel momento in cui una tua classifica influenza delle voci concrete in campo economico, vuol dire che sei rilevante, che conti, che non stai facendo chiacchiere ma fatti. E questo è un valore a prescindere. Punto. Siamo anche convinti che la grande ondata EDM è vero che ha portato nel clubbing un sacco di principi discutibili (un consumo uso-e-getta dei fenomeni e della musica, la rockstarizzazione dei dj, un capitalismo sfrenato nelle pratiche di mercato, una social-networkizzazione dei profili) ma in realtà ha fatto del bene: ha oggettivamente molte persone “nuove” alla modalità dance, ha creato degli spettacoli di alto livello scenografico, ha portato comunque una ventata di novità in un mondo che sempre più statico e si beava di se stesso, senza fare troppi sforzi per evolversi. Se questi anni e, crediamo, i prossimi segneranno un deciso ritorno anche fra i grandi numeri ad una fruizione più “tradizionale” della club culture, secondo il DNA delle origini (meno pop e più rituale, sciamanica, comunitaria), è anche per la scossa “salutare” che ha dato l’arrivo dell’EDM. Per qualcuno come evoluzione, per altri come reazione.
Uno a uno, pari e patta e tutti felici? In realtà, no. Manco per Dj Mag, evidentemente. Che tre anni fa, nel 2018, ha sentito il bisogno di dare vita ad una Top 100 “alternativa” (chiamata infatti proprio Dj Mag Alternative Top 100 Dj’s). Un po’ lo prevedevamo anche. Chiara la cornice definitoria: i dj che suonano generi storicamente più refrattari ad essere inglobati dal pop, techno e house “puri” in prima fila. Al di là dell’analisi di Dj Mag Italia sulla Top 100 Alternative di quest’anno, dove ci sono indubbiamente spunti interessanti a prescindere (leggeteli qui), il punto è che perfino a Dj Mag hanno probabilmente sentito un po’ di bruciore nella coscienza, rendendosi conto che la loro Top 100 era diventata un caravanserraglio completamente distante dalle origini, dalle “ragioni sociali” di nascita cioè di Dj Mag: da lì immaginiamo la decisione di varare una classifica “altra”, chiamata “Alternative” in primis rimandando in maniera quasi filologica alla categoria “Alternative” assai in voga negli anni ’90, in cui si contrassegnava così musica che passava su canali o scenari mainstream pur arrivando da scene non pop-rock. Il dubbio è: ha ancora valenza questa definizione oggi, che molti confini sono stati abbattuti e il web ha portato tutti ad ascoltare un po’ di tutto? Risposta: in realtà, la Alternative Top 100 è prima di tutto “alternativa” – nel senso neutro e letterale dell’aggettivo – alla sua sorella maggiore. Visto che vuole recuperare delle radici anche solo stilistiche che, col tempo, sono andate perse. Questo in teoria.
Domanda: le recupera davvero, queste radici? Risposta: purtroppo no, se uno ragiona ad ampio raggio. Chiaro, se prendi la Top 100 alternativa almeno trovi che gente che sa usare il mixer meglio del pulsante delle stelle filanti e del co2, e già questo volendo è un passo in avanti. Il problema però, ed è un problema non da poco, è che la Alternative non fa altro che riprendere gli stessi meccanismi che oggi ha la Top 100 “maggiore”, solo applicandoli su un campo musicale più ristretto. Di nuovo non è una classifica della bravura, della capacità di elevare un’arte, ma vuole essenzialmente essere una certificazione di chi più e meglio sa interpretare le regole del mercato, ponendo la musica (…e la capacità di suonarla) solo come elemento accessorio. Non ce ne voglia nessuno, ma crediamo sia abbastanza oggettivo che se Laurent Garnier è al settantottesimo posto e Deborah De Luca al quattordicesimo, l’impostazione sia chiara (nulla contro la De Luca, che fa il suo lavoro, e che lei per prima sa che non ci sono così tante posizioni di distanza tra lei e Dave Clarke o il compaesano Capriati…). Così come, per fare un altro esempio, ritrovarsi Peggy nona ed Helena Hauff novantanovesima: tutto chiaro? Ha una sua coerenza, questa scelta, ed in effetti il cachet di Peggy pre-pandemia, adeguato alle leggi di mercato, era venti volte quello della Hauff.
E’ però una grande occasione persa, tutto ciò. “Alternative” infatti, per ritornare all’accezione anni ’90, poteva essere comunque un modo per rimettere i contenuti, le intenzioni e gli ideali originari al centro della narrazione; invece, è stato rimesso dentro solo la superficie, ovvero il genere musicale. Anche la Alternative Top 100 Djs in fondo chiama una fruizione superficiale, in cui il fan si agita urlicchiando – tanto per citare l’Accorsi del Maxibon a cui abbiamo rubato il titolo e che riprendiamo sotto – “De best de mond! Mitic!”, e tutto questo francamente non ci pare un gran guadagno. Si poteva fare di più. Si poteva dare di più. E senza essere eroi, tra l’altro, tanto per completare la citazione pop; ma semplicemente dimostrando che il proprio “guardare alle origini” non era una mossa a favore di Beatport e di commercialista, ma la reale voglia di tornare ad indagare sulla bellezza e ancora di più sulla specificità del mondo dei dancefloor. Una specificità che si riconosce non guardando solo ai numeri e al tifo dei fan in canottiera smascellanti, ma anche e soprattutto guardando ai contenuti. Perché se non lo fai, alla fine, tutti i gatti sembrano grigi. Ma in realtà non lo sono. Ed è sempre giusto ricordarlo. Per certi versi alla fine è più onesta la “solita” Top 100: almeno ormai non nasconde di essere quello che è, un applausometro 2.0 certificata dai commercialisti e dai SMM.
No: due Top 100 non sono megl che uàn, purtroppo. Avrebbero potuto esserlo; ma, non lo sono.