C’è stato un momento (per chi ha memoria storica, in primis del primo decennio del nuovo millennio) in cui la questione era molto semplice: o facevi cose inscatolabili nella Triade da cassa dritta (techno, house, minimal, mescolate fra loro in maniera varia), o eri uno sfigato che piaceva a pochi fissati, a pochi “intellettuali”. E’ stata una battaglia lunga un decennio aprire gli ascolti, far capire quanto bello poteva essere un mondo obliquo come quello di Four Tet, a più strati come quello di James Holden, indie-psych-disco come quello di Caribou, sfaccettato come quello di SBTRKT, retrocitazionista come quello di “grandi vecchi” (Moodymann, Theo Parrish, Kerri Chandler) o “giovani leoni” (Disclosure). E cazzo se è stata una battaglia impegnativa. Oggi tutti si fanno belli citando Four Tet o Theo Parrish, ma per un sacco di tempo il primo faticava a metter insieme cento paganti, il secondo non trovava tante date manco ad offrirsi a 1500 euro. Giusto per fare un esempio. E sempre per stare sulle cifre e sul mercato – scusate la poca poesia, ma è l’indicatore più concreto – immediatamente pre pandemia una line up con tutti i nomi sopracitati (Four Tet, SBTRKT, James Holden, Moodymann, Theo Parrish, Kerri Chandler, Caribou) verrebbe una cifra superiore al mezzo milione di euro, lì dove nei primi anni 2000 (sostituendo giocoforza i Disclosure e volendo pure SBTRKT con un gruppo equivalente) avrebbe superato nemmeno di troppo i 20.000 euro. Questo non per cattiveria, ma perché loro – la musica che fanno, e quello che rappresentano – era “schifato” dal mercato: era visto come un vezzo da “saputi”, che però non riempiva i dancefloor manco per sbaglio e, quindi, non era degno di attenzione se non per chi era snob, per chi voleva occasionalmente tirare un po’ su il proprio profilo, “…ma poi il cassetto al botteghino la faccio con la minimal, che cazzo”.
Le cose sono migliorate. Gli ascolto si sono aperti. La “cultura media” nell’approcciarsi alla musica da dancefloor è aumentata. Forse è aumentata per semplice moda? Per snobismo? Non per reale passione, ma per opportunismo narcisista? Forse. Può essere. In molti casi, probabilmente, è. Perché da quando internet ha moltiplicato le informazioni e soprattutto la possibilità di ascoltare musica, oggi tutti possono atteggiarsi da esperti, e insomma se ti vuoi atteggiare da esperto devi pure ascoltarla, la “musica da esperti”, e far vedere che la conosci ed apprezzi. Il meccanismo è questo.
Peccato che da questo meccanismo restano sempre fuori quelli storicamente poco interessati a cavalcare le mode (e/o poco capaci di farlo: certe volte il confine non è facile da capire, fra le due; le volpi nei vigneti non mancano mai). Un destino che vale per tutta un’armata che, nei tempi “bui” (o anche solo monocolori) del triumvirato minimal/house/techno, si è sempre incaponita a spezzare le ritmiche, a cercare soluzioni non “kraftwerkiane” ed ossessive, a non sbattersi più di tanto nello “scolpire” i suoni perché interessava di più citare le radici black di decenni precedenti. Con un approccio vicino molto di più al cultore maniacale che alla mente sveglia che vuole indagare&esplorare soluzioni diverse vecchie/nuove rendendole “fresche”: ed è il grande discrimine fra chi ce l’ha fatta (il partito dei Four Tet) e chi no. Non è questione di separare i buoni dai cattivi, dal dire che il fourtettismo è un bene (o un male…) e il resto no. E’ che semplicemente ci sono attitudini diverse. Ed una attitudine in particolare non è riuscita a cavalcare nemmeno il rinnovato/inedito prisma di ascolti e ritmiche nel circuito del dancefloor, più o meno dal 2008/2009 in avanti: quella legata alla scena broken beat anglosassone.
(Un disco tutto da ascoltare; sotto vi spieghiamo perché)
Oggi, c’è un rebranding in atto. Non chiamatela più broken beat: chiamatela BRUK. Speriamo serva, finalmente, a rendere “appetibile” tutta una scena che sempre e da sempre ha avuto il grande merito di rendere più “colorata”, complessa, armonicamente ricca la musica da dancefloor, venendo sempre cagata meno di zero o quasi. Certo, anche per un difetto: quello di essere troppo compiaciuti della propria bravura e della propria cultura per fare musica che avesse (anche) l’obiettivo di “affondare il colpo”, una volta in mano al dj e al dancefloor. Il confine è sottile: essere colti ed essere troppo autocompiaciuti, essere eclettici e fare musica d’accompagnamento da aperitivo. Non è un caso che entità per mille versi “cugine” ma più “a fuoco” e più cazzutamente concentrate su un obiettivo singolo abbiano sempre funzionato di più, a livello di attenzione pubblica: dalla jungle alla nuova ondata UK jazz, passando per garage e 2 step e anche la prima dubstep. Esempi in tal senso che vanno dai 4 Hero (abbandonando la jungle per rifugiarsi nel broken beat sono progressivamente scivolati nell’irrilevanza) a Kamaal Williams (che come Henry Wu non si cagava nessuno, prima di “fare la cosa giusta” con Yussef Kamaal).
Insomma, non vogliamo raccontare una storia dove ci sono solo buoni e cattivi, dove le cose sono semplici e si vuole solo parlare di quanto è cattivo ed ingiusto il mondo. Le cose sono più sfumate. Ma oggi è uscita una raccolta che davvero ma davvero vi consigliamo di ascoltare: potrebbe essere un “manifesto BRUK”, anche perché è la filiazione di quella CoOp fondata da IG Culture e Alex Phountzi che è sempre stata un primo motore aristotelico per la scena broken beat, scena che pur coi suoi difetti ha sempre rappresentato soprattutto una resistenza ed una “intelligenza” – e in quanto tale avrebbe dovuto raccogliere molti più meriti di quelli che ha effettivamente raccolto. Però ecco: “Plug One” potrebbe essere davvero la cosa giusta al momento giusto.
Cosa giusta lo è di sicuro, perché le ritmiche (non solo) spezzate si mischiano come al solito e anzi pure meglio del solito a rimandi, tagli, layer, genialità, raffinatezze: il risultato è una musica da dancefloor complessa, sfaccettata, immaginifica, che praticamente mai cade nei difetti peculiari del genere e invece ne amplifica parecchio i pregi (a partire dal citazionismo jungle, tirato fuori sempre nei momenti opportuni e con eleganza). Momento giusto, chissà, potrebbe esserlo. Ora che da almeno un decennio gli ascolti si sono “aperti”, potrebbe non essere più così sacrilego, snob, carbonaro, minoritario immettere questi suoni ad Ibiza, a Berlino, insomma, ci siamo capiti – lì dove girano i soldi (…o riprenderanno a girare, quando la pandemia finirà).
Sarebbe una cosa buona&bella per tutti. Migliorerebbe il nostro panorama sonoro, educherebbe ancora di più le persone ad un approccio “attivo” nel fruire musica anche ballando (niente monotone, prevedibili e gestibili colonne sonore per sostenere la propria fattanza). Insomma: sarebbe una figata. E sarebbe una soddisfazione quasi inaspettata per tutti quegli stronzi che quando la santa trinità techno/house/minimal dettava i giochi, si incaponiva invece a cercare altrove, a proporre altro, ad inseguire anche la diversità, a considerare la musica dance (anche) come cultura e non solo come consumo. Forse ora, col repackaging in “BRUK”, funziona di più. E fa, finalmente, più chic e meno nerd. Chissà.
ps. Occhio che c’è anche dell’italianità, in questa raccolta: non a caso coinvolti due dei producer che meno hanno raccolto, in questi anni, rispetto ai meriti