Si viaggia zero, fisicamente: le zone rosse, arancioni, gialle, in questa complicata fine di 2020, ci tengono legati a casa, o al tragitto casa-lavoro o casa-supermercato, o poco altro. Ma si può viaggiare parecchio con la mente, coi pensieri, con gli ascolti, con gli stimoli culturali. Ecco: tutto questo con “Deserto” lo potrete fare benissimo. E’ la seconda uscita per il progetto Oké (la prima risale a quattro anni fa, 2016), per la benemerita Original Cultures, ed è davvero un percorso molto, molto, molto affascinante. C’è il jazz, c’è il funk; c’è la psichedelia, c’è il ritmo, c’è la ricchezza armonica; ci sono insomma un bel po’ di cose preziose. A guidare il tutto, Andrea Visani: che per molti sarà noto come Katzuma, e per ancora più persone sarà noto come Deda (sì: uno dei tre Sangue Misto, eccetera eccetera). Ad un certo punto era sembrato lui fosse diventato un “grande scomparso” per la scena musicale, ma in realtà le cose stanno in modo molto diverso. Ce le racconta qui, svelando un sacco di (mezzi) segreti passati, presenti e futuri, così come ci racconta come è nato questo “Deserto” – una delle release più affascinanti dell’anno, a partire dalla illustrazione che rappresenta il tutto, opera di Andrea Casciu, e dal modo in cui si è sviluppata l’interazione fra lui e i due soci nell’avventura Oké, ovvero William Simone ed Andrea Calì.
Ci vuole coraggio, per fare un disco lungo ed articolato come “Deserto”. Quanto tempo c’avete messo?
E’ stato in effetti un percorso molto lungo ed anche un po’ travagliato: perché si tratta di un disco che è stato progettato, iniziato, lasciato lì per mesi, poi ripreso, poi… Figurati, guarda: le prime cose sono state registrate ancora nel 2017, almeno tre o quattro brani. Un po’ di tempo fa insomma. Ma il vero momento decisivo, è stato il lockdown. Che è stato chiaramente il momento in cui hai un po’ di tempo per fare il punto, per guardare che c’è nei cassetti, e “Cazzo, però, ‘sta cosa… è un peccato se resta lì”: quella è stata la spinta decisiva. Mi sono armato d’impegno e sono riuscito a portare tutto a termine, a completare tutto. Di sicuro è un disco coraggioso, sì. Un album doppio. In vinile. Nel 2020.
Follia.
Di sicuro! E guarda, mi piace proprio per quello. L’argomento è stato affrontato anche coi ragazzi di Original Cultures: “Ma sei proprio sicuro di voler fare un doppio? Sicuro sicuro?”. E la risposta è stata “Sì, assolutamente, è una scelta che voglio portare avanti al cento per cento, anche a costo di non scartare nulla del materiale che è stato prodotto nelle session”. In effetti sarebbe stato forse possibile anche fare un album più breve, ma avrei dovuto scartare delle parti comunque significative. E’ un disco che è anche un concept, c’è questa idea di “viaggio nel deserto”… Poi guarda, in definitiva si tratta sicuramente di un progetto realizzato senza pensare a nessun tipo di strategia o di dinamica riguardo a come la musica venga fruita oggi.
Trovo però questa cosa paradossale: da un lato mi dici “Non c’è nessuna strategia”, e ok; dall’altro però c’hai dedicato una quantità di lavoro credo abbastanza enorme… sbaglio?
Beh, sì. C’ho lavorato sopra proprio tanto. Anche e soprattutto a livello di produzione, ma quella in fondo è la parte che mi diverte di più: lavorare sui dettagli, sulle atmosfere. “Deserto” è un lavoro in cui i vari layer di suoni hanno grande importanza: diventa così molto divertente da realizzare nel momento in cui inizi a dosare i vari elementi già registrati, l’arrangiamento, il mixaggio. Divertente, ma in certi momenti anche un po’ overwhelming, lo ammetto.
E infatti hai mai pensato in certi momenti “Oddio, ma chi me l’ha fatto fare…”?
Ti giuro: no. Sai, fosse stato da fare tutto di filato, senza le varie interruzioni nella lavorazione, probabilmente non ce l’avremmo mai fatta, questo è vero. Ma visto che il tutto è stato dilazionato in tre anni circa, è stato gestibile. Anche grazie allo sforzo finale, come ti dicevo. Gli ultimi mesi sono stati in effetti la parte meno creativa e volendo più noiosa, quella prettamente del mixaggio. Comunque, è tutto materiale che arriva da un procedimento di costruzione e registrazione un po’ assurdo.
Ovvero?
Registriamo jam di venti minuti almeno, e da lì io inizio a ritagliare, prendere dei pezzi, montarli, costruire qualcosa che abbia un senso…
Ma ti dirò, per certi versi è quello che faceva Miles Davis, soprattutto nel suo periodo elettrico – e so che ti piace molto proprio quel Miles. Quindi volendo è quasi una scelta filologica.
Sì, le jam di Miles però finivano su disco senza essere editate. Del resto, con la band che aveva… poteva anche permettersi di lasciare dieci minuti interi di roba, senza toccarla. Figuriamoci. Comunque ecco, io personalmente mi sono molto divertito: Oké è qualcosa di diverso rispetto a quello che faccio di solito. E’ un progetto dove lavoro con altri due musicisti: ad un certo punto succede che ci si lascia tutti andare, si suona, e si vede quello che succede… se saltano fuori dei momenti che possono funzionare… Quando lavori da solo al computer non puoi ragionare così.
(Dischi di grande fascino – eccoli a voi; continua sotto)
Quanto è importante però la scrittura su pentagramma, in Oké? Quante sono le parti scritte, che eseguite? Perché tu mi parli di jam, ma sentendo il disco io vedo sempre un focus preciso e strutture abbastanza nette, non ha la forma di una jam… suona invece tutto piuttosto organizzato e ben pianificato.
Eh, quello è il lavoro che faccio io dopo, riprendendo in mano le registrazioni.
Uh. Sul serio?
Sì sì, assolutamente. A parte qualcosina, che magari durante le jam viene fuori e ci diciamo, fermandoci un attimo, “Ok, questo è interessante, sviluppiamolo un po’, via, lavoriamoci sopra”, per il resto Oké è davvero la registrazione di un delirio. Registrato quello, ci vuole un po’ per dargli una forma compiuta. I miei due soci sono comunque due musicisti abituati a suonare con l’improvvisazione: il pianista (Andrea Calì, NdI) arriva dal jazz, quindi figurati, mentre il percussionista (William Simone, NdI) è nato sì a Brindisi ma ha vissuto per anni a Cuba, è un vero appassionato e conoscitore di folklore cubano. Tanto per farti capire: è successo più volte che io e il tastierista smettessimo di suonare e lui andasse avanti come in trance, per almeno un minuto, senza nemmeno accorgersi che noialtri due ci eravamo fermati. Anche se prendi uno standard come “A Night In Tunisia” (e lì peraltro ci siamo ispirati più alla reinterpretazione che ne ha dato Hugh Masekela, comunque stravolgendola un po’), dove un po’ di partitura dovrebbe esserci, se vai a vedere bene ecco in realtà non c’è, perché un sacco di passaggi armonici sono proprio stravolti.
(Come Masakela aveva interpretato “Night In Tunisia”; continua sotto)
Sì, in effetti il tema c’è, ma altre parti sono proprio un’altra storia, nella versione che ne avete dato voi.
Poi nella parte finale c’è un “reprise” in cui la suoniamo come un’orchestrina anni ’60. Ma vabbé, questi sono gli strippi che piace fare a me.
Comunque ok, i tuoi due soci li hai descritti, cosa suonano, che approccio hanno, va bene; ma tu? Tu cosa sei, in Oké? E’ giusto definirti “producer”?
Della figura del producer mi piace il momento della “visione”: immaginare una paletta di suoni per un brano, un arrangiamento e via dicendo. Un anno fa ho preso uno studio e con un paio di amici abbiamo dato vita ad un “production team” (ZeroDay) con cui ci stiamo occupando di varie cose. Ora come non mai mi piace veramente fare di tutto. Un po’ mi conosci, sai che mi è sempre piaciuto spaziare, però ora davvero non sento più nessun tipo di limite. Ho fatto “Deserto”, contemporaneamente lavoravamo ad un progetto pop; ci sono altre cose in ballo, musicalmente di taglio diciamo così “urban”, ed altre ancora più sull’onda di quello che ho già fatto in passato, tra disco e house. Non c’è insomma un genere unico su cui mi voglia fissare, ora come ora.
Beh dai, tutto questo mi fa pensare che ti abbiamo finalmente riguadagnato al 100% alla musica, non sei più un grafico che nel tempo libero produce qualcosa…
Ah, quello del grafico è un po’ un equivoco: non è mai stato un lavoro vero e proprio per me. Era il periodo Katzuma e mi occupavo anche delle grafiche, e contemporaneamente lavoravo in una agenzia di comunicazione, dove ero programmatore web.
L’agenzia era Sartoria, no?
Esatto. Lì lavoravo a stretto contatto con Dee Mo ed altri grafici in gambissima, quindi quel mondo lì mi arrivava bello forte. Ma in realtà facevo essenzialmente il programmatore.
Comunque hai citato Katzuma, alias con cui hai fatto delle uscite secondo me notevolissime.
Periodo che va dal 2004 al 2012 circa… Dopodiché in effetti negli ultimi sette, otto anni non ho prodotto tantissimo. No, aspetta, è più corretto dire che forse non è uscito quasi nulla ma in realtà non ho mai smesso di produrre. Nel 2016 è uscito il primo disco degli Oké per QueenSpectra di Milano, ma è vero che mi sono dedicato molto di più ai dj set come Katzuma e ai live con I Bellringers e DjLugi o con gli Oké negli ultimi tempi. E questa cosa, credimi, un po’ ti cambia il rapporto con la musica, con la produzione.
Sì?
La particolarità del dj, è che giocoforza è continuamente esposto a una grande quantità di musica nuova. I produttori che sono anche dj, di conseguenza, tendono ad avere un rapporto particolare con la produzione. O almeno, per me è così: avere continuamente roba nuova nelle orecchie rende più difficile concentrarsi su una tua produzione e finirla, chiuderla. Essendomi insomma ritrovato a suonare molto in giro, ho fatto fatica a terminare dei progetti concreti nel campo della produzione. Oh, si vede che prima di riuscire a rimettermi in studio quotidianamente c’erano dei percorsi che dovevo prima attraversare…
Non solo ti sei di nuovo dedicato allo studio ed alla produzione, ma ora lo fai non più solo per te ma anche con delle committenze. Non è un passo da poco. Per certi versi, sono proprio due sport differenti.
Vero. Ma entrambi stimolanti. E poi sai, fare sempre la stessa cosa è un po’ noioso. Lavorare non solo per te stesso ma anche per gli altri è pure un modo per avventurarti in territori dove, di tuo, non andresti mai.
Altra componente, a proposito di territori dove andare o non andare: oggi, molto più di prima, il musicista deve imparare ad essere “manager di se stesso”, sapendosi muovere, promuovere in autonomia, eccetera. Su questo come ti poni? Anche perché tu, di tuo, e correggimi se sbaglio, sei sempre stato uno molto, molto “tranquillo” in tal senso…
Eh, purtroppo quella è un’indole che ho. Ogni tanto provo a forzarmi, ma… Oggi sono qui a fare questa chiacchierata con te, perché mi fa piacere, ma in generale fare promozione non è la mia cosa. Ho un team di persone che mi stanno aiutando per un progetto che, in teoria, dovrebbero avere una esposizione maggiore – e quindi avrà bisogno per forza di comunicazione e promozione, inevitabile. Però davvero, io di mio non ci sono tagliato. E ormai c’ho un’età: non è che così dal nulla posso inventarmi di essere quello che non sono, e iniziare a fare quello che non ho mai fatto e non mi è mai venuto da fare.
Diciamo così: la parte della promozione non è il passaggio che mi interessa di più, quando si tratta di fare un disco, anche se mi rendo conto che è sicuramente utile e strategico
Non ti è però mai venuto qualche rimpianto? Perché questa cosa ti deve aver in qualche modo penalizzato…
Sono convinto che col progetto Katzuma se avessi lavorato un po’ di più in quanto a promozione, molto probabilmente alcune cose sarebbero andate in altra maniera. Mi sarebbe piaciuto suonare un pò di più all’estero, dove le cose che propongo nei djset sono generalmente conosciute su scala maggiore. Ma alla fine uno impara anche ad accettarsi, no? Cioè, ti ripeto: ho un’età, sono fatto in un certo modo, non ha senso pensare di poter cambiare radicalmente. Ma questo ovviamente non vuol dire che se c’è da fare un po’ di promozione io mi rifiuti, o che la cosa mi turbi in modo drammatico…
Ma infatti ti ho sempre visto come una persona molto serena, e anzi molto gentile e disponibile nel momento in cui ti si parlava.
Esatto. Diciamo così: la parte della promozione non è il passaggio che mi interessa di più, quando si tratta di fare un disco, anche se mi rendo conto che è sicuramente utile e strategico. Ma poi ogni tanto mi capita di prestarmi a farlo, e può benissimo essere che il risultato mi gratifichi pure. Fosse per me però, l’ideale sarebbe avere qualcuno che fa queste cose al mio posto, tipo “Ok, hai fatto il disco? Perfetto, da adesso in avanti ci penso io, faccio tutto io”.
A molti ha cambiato la vita, entrare in un certo tipo di circuito.
Si certo. E’ un discorso complesso, perché appunto entrano in gioco tanti fattori che vanno dal talento alla perseveranza fino a un pizzico di fortuna. Certi artisti a volte ottengono risultati facendo la cosa giusta al momento giusto, e basta questo in termini di quantità a garantire loro un salto di livello notevole.
Tu parli di quantità, io ti aggiungo anche: qualità. Hanno fatto molto meno anche in termini di qualità, rispetto a te.
Beh, questo non posso dirlo io.
Te lo dico io, vai tranquillo, me ne prendo la responsabilità.
Guarda comunque riguardo alla questione del “sapersi spingere” mi sono confrontato spesso con amici e colleghi e alla fine è ovvio che questa è una componente importante del nostro lavoro, oggi più che mai.
Hai mai avuto la tentazione di trasferirti all’estero? Anche perché la musica che fai è, di suo, molto “internazionale”…
C’è stato un momento in cui il progetto Katzuma ha funzionato soprattutto all’estero. Ho pubblicato dischi in Giappone, in Canada, in Inghilterra. Ho iniziato a frequentare Londra periodicamente. E in quel momento sì, c’avevo fatto un pensiero a trasferirmi. C’era una crew di persone meravigliose (Nihilism) che si ritrovava in un appartamento in Brick Lane dove abbiamo fatto house party memorabili. Una volta abbiamo avuto ospite pure Alexander Robotnick, per dirti. Più di una volta sono partito con l’idea di fermarmi per un periodo lungo, ma poi tra le gig in Italia e i cazzi della vita non è mai successo.
Brick Lane! E forse quando ancora non era gentrificata come adesso!
Iniziava ad esserlo. O forse lo era già, non so, è che io non l’avevo mai vista come era originariamente. Però guarda, noi in quella casa lì avevamo un’attitudine molto punk: eravamo ben poco gentrificati, credimi. Eravamo un po’ un Pratello “londinese”…
Ecco, il Pratello. Bologna in che stato è, ora come ora?
Parlarne in questo periodo assurdo di lockdown e restrizioni mi fa un pò strano. Perché Bologna è una città che pur con alti e bassi ha sempre mantenuto una vita culturale interessante e di qualità fatta di centri sociali, di festival, di locali, di musica jazz. Vita culturale che va a cicli, con alcuni momenti più belli di altri, ma insomma una città che riesce sempre ad essere interessante. Poi sai, ha questo aspetto da “paesone”: non è una metropoli, la puoi girare tutta a piedi. Questo affascina molte persone. Me compreso.
Negli ultimi cinque anni o giù di lì, la musica italiana ha subito una trasformazione epocale. Sono successe cose che un tempo sarebbero state semplicemente impensabili
In Italia la metropoli è un po’ Milano, oggi come oggi, probabilmente più di Roma. Sicuramente lo è per la discografia, per le major, per il pop, per l’hip hop. Ora che hai ripreso a frequentare anche un po’ la discografia più mainstream, che impressione ti fa?
Va detto che negli ultimi cinque anni o giù di lì, la musica italiana ha subito una trasformazione epocale. Sono successe cose che un tempo sarebbero state semplicemente impensabili. La musica “urban” fatta dalle nuove generazioni, ha preso spazi che prima invece erano tutti occupati dal pop “vecchia scuola”. C’è stato un cambio di direzione netto e le major si comportano di conseguenza.
Per qualcuno è una butta notizia, il fatto che un certo tipo di generi e sonorità siano finiti inglobati nel circuito del pop.
Ma no, ma come fa ad essere una brutta notizia? Finalmente si sentono un po’ di bassi, quando accendi la radio! E’ meglio adesso. Fino a sei, sette anni ascoltavo quello che si trasmetteva in giro e, insomma, era tutto abbastanza deludente. Ora invece se accendo la radio è più facile sentire qualcosa che sia un po’ più vicino al mio immaginario, al mio bagaglio culturale: musica con un po’ di frequenze basse, con un po’ di attitudine. Poi chiaro, fra le cose che sono cambiate ci sta anche il fatto che ora fare musica è diventato molto più semplice ed alla portata di tutti, con la conseguenza che si è moltiplicata la gente che produce: ovviamente la qualità ne risente. Ma in generale, mi pare che il cambio di direzione che c’è stato abbia cambiato lo scenario decisamente in meglio, nel complesso. Poi, che questo significhi che esce solo roba figa quello no, no di sicuro; ma finalmente in Italia è successo quello che in Inghilterra c’è sempre stato, ed in Francia esiste da almeno quindici anni, se non di più.