Il trucco se l’è giocato da solo, Marco Carola. “Il titolo dell’album rappresenta praticamente le istruzioni per l’uso su come deve essere ascoltato il disco: ad alto volume! Deve essere ascoltato così”. Vero. Verissimo. Il problema è che l’ascolto ad alto volume è essenzialmente un maquillage: rende più belle le cose belle, rende accettabili le cose bruttine, questo fa. E “Play It Loud”, ascoltato nel modo migliore possibile, è accettabile. Sì. Niente di più. E’ un onesto album di minimal house (ce ne sono parecchi di migliori in giro, a nostro modesto parere). E’ un album particolare per la m_nus, sì, ma solo perché più percussivo e housey rispetto al gelidume che l’etichetta di Hawtin di solito tira fuori (ancora oggi questo gelidume partorisce talento puro, vedi Heartthrob, o cose interessanti, vedi l’ultimo Magda, o infine cose trascurabili, vedi Troy Pierce). Non è particolare per qualità “Play It Loud!”, no. Non è nemmeno particolare per inventiva. Non riscrive in nessun modo le regole del gioco.
E’ comunque dignitoso, ok – e ci mancherebbe, perché qua abbiamo a che fare con uno dei più importanti producer italiani di sempre nel campo della musica da dancefloor: un vero gigante che ha messo Napoli sulla mappa mondiale (mondiale!) e che con teutonica efficacia ha sfornato pietre miliari totali diventando, meritatissimamente, un mito vivente. Da qualche anno però l’impressione è che Carola stia procedendo col pilota automatico sfruttando due fattori concomitanti: l’essere appunto mito vivente da un lato; l’essersi progressivamente accodato al vincente filone minimal dall’altro. Metti insieme queste due correnti favorevoli: il risultato è che senza il minimo sforzo la tua popolarità cresce, il pubblico ti adora a priori, i posti in cui suoni si riempiono immancabilmente. Indipendentemente ormai da quello che gli offri.
Quello che infatti colpisce di “Play It Loud” è la mancanza del senso di sfida artistica, davvero preoccupante se pensiamo che rappresenta il ritorno sul lungo formato dopo una pausa quasi decennale. Potremmo dire che personalmente non apprezziamo l’abbandono di Marco delle sonorità più strettamente techno in atto già da anni, ed è in effetti così, ma non è questo il punto – perché a ben vedere anche facendo minimal house ci si possono prendere dei rischi, si può cercare di spiazzare, si possono cercare soluzioni nuove nei suoni, nelle armonizzazioni, nelle architetture ritmiche. Si può fare, eccome.
Ma qua proprio non succede. Qua c’è del mestiere, e ci mancherebbe; c’è un groove buono, e vorremmo ben vedere; ma se la musica la si ascolta davvero, invece di usarla solo come background dei propri egotrip, qua il vero protagonista diventa dopo un po’ la noia. Non l’ipnosi. Non la seduzione costruita a frammenti e ad impercettibili scarti, il vero segreto dell’estetica minimal.
Su tutte queste parole serve una chiosa finale, molto empirica, una specie di prova del nove. Provate ad ascoltare qualcosa del periodo caroliano di, diciamo, “Open System”. Bene. Volume basso, volume medio, volume alto – in qualsiasi posizione sia il vostro cursore del volume, ecco, resterete comunque spettinati. Magari potrà pure non piacervi, ché il suono hard techno non incontra i vostri gusti, ma non potrete fare a meno di esclamare al calibrato crescere delle dinamiche e alle vertiginose finezze di mixaggio “Beh, cazzo…”.