“Ma caspita, sai che non ti avevo riconosciuto? Sembri ringiovanito di vent’anni”, “Beh, il patto col demonio servirà pur a qualcosa…”: inizia così la conversazione con Metal Carter, quando mi appare davanti via Skype (purtroppo di ‘sti tempi bisogna fare così). Ora: con Marco ci si conosce poco, ma da tanto tempo. E a lui bisognerebbe riconoscere una cosa non di tutti: la coerenza, l’originalità. Già avere una sola delle due è difficile, di questi tempi, figuriamoci le due assieme. Poi magari non sarà il rapper più tecnico del mondo, non sarà quello più smaliziato, non sarà quello più bravo coi social ma se è per questo nemmeno nel freestyle, ma ricondurlo eternamente come a quello di “Pagliaccio di ghiaccio” e del leggendario attacco (vabbé, non stiamo qua a ripetervelo, guardatevi il video se non lo conoscete già a memoria) è un modo un po’ superficiale e sufficientemente sbagliato di inquadrare le cose. Con la scusa del nuovo album “Fresh Kill” da poco uscito, ci siamo fatti una chiacchierata con lui. E se l’inizio fa molto “personaggio”, con ‘sta uscita sul patto col diavolo, in realtà la conversazione coglie più di un punto interessante e molto, molto centrato. Con un rapper che, piaccia o meno, è sulla scena da ormai due decenni. Con una discografia nutritissima. Non è da tutti, tutt’altro.
Oh, sono quasi vent’anni che fai rap. Sono tantissimi. L’avresti mai detto, se ripensi a quando avevi iniziato a metterti davanti ad un microfono, che ‘sta cosa per te sarebbe stata così consistente nel tempo?
Ma figurati. Né io né gli altri del Truce ce l’aspettavamo che sarebbe stata una cosa così, quando come Truceboys facevamo uscire “Sangue”. Oh, non che non ci fossimo impegnati, avevamo comunque preso la cosa molto seriamente: volevamo che fosse un bel disco, sentivamo la competizione con l’altra gente di Roma, ma nessuno avrebbe pensato che gli esiti sarebbero stati così seri e, nel caso di qualcuno, così duraturi.
Sì, perché non tutti di quell’avventura poi hanno continuato in maniera regolare.
La maggior parte no. Ma chi ci credeva di più, chi si è impegnato di più è anche quello che ha avuto più risultati e più a lungo nel tempo.
Tu sei fra quelli. Hai mai avuto dei momenti in cui pensavi di mollare o, comunque, ti eri un po’ stufato della cosa?
No. Al massimo, ho avuto dei momenti in cui ero meno motivato. Io, da quando ho iniziato a fare dischi, non ho mai smesso. Ma anche da prima dei dischi, guarda, anche perché fin dall’inizio è stata una cosa seria: al quarto, quinto concerto venne da noi Gufo Supremo a dirci “Oh, rega’, guardate che la gente viene per voi, viene per vedere voi, paga per vedere voi, lo volete capire?” e questo veramente ci fece aprire gli occhi. Iniziammo a essere professionali, ad essere retribuiti cioè… e in realtà ogni cosa che è retribuita diventa quindi professionale. Non stai più lì a giocare, ecco. Io, il massimo di pausa tra un disco e l’altro è stato tre anni: ma non perché lo volevo io, ma perché ero stato obbligato dalle circostanze. “Sangue” è del 2003, il mio primo album solista – ora ristampato in vinile – è del 2005, nel 2006 “I più corrotti”, 2007 “Cosa avete fatto a Metal Carter”, 2008 “Vendetta privata” e nello stesso anno è uscito l’album del Ministero Dell’Inferno. E dopo la pausa forzata di tre anni, per farmi “perdonare” i due album successivi avevano uno quindici tracce, l’altro diciannove. In tutta la storia coi Truce, originariamente c’eravamo io, Cole e Gel; poi con “Sangue” è arrivato Noyz. C’è poi chi si è aggregato attorno al 2005, 2006 e poi magari dopo poco ha staccato, da un lato non puoi fargliene una colpa dall’altro però sei una crew, se non tutti spingono allo stesso modo ci sta che ad un certo punto ti inalberi e dici “Beh?”. Alla fine però la verità è una, quelli che spingono di più sono quelli che rimangono. Io sono ancora qui. Che faccio dischi. Dischi che stanno andando pure bene, in controtendenza.
(…e fa pure concerti, ecco il calendario delle date 2021, sperando si possano felicemente fare; continua sotto)
In effetti non sei cambiato in questi anni, non mi sembra tu abbia fatto particolari sforzi per adeguarti ad eventuali differenze ed evoluzioni.
Io sono uno dei pochi rapper che non deve seguire le mode. Perché io stesso, a modo mio, sono un’icona del genere. Ci stanno i ragazzini che mi copiano, naturalmente parliamo a livello underground, ma ci stanno. A me hanno fatto tristezza alcuni miei coetanei che, visto che non se li filava più quasi nessuno, hanno provato ad adeguarsi ai tempi. A me mode e trend non piacciono. In generale, proprio. E quindi non mi piacciono nel rap. Sai qual è la verità? Io ho iniziato a fare rap proprio per essere contro le mode. Poi ho avuto pure la fortuna di creare un genere di rap a sé stante, quindi ho un motivo in più per continuare sempre saldo sulla mia strada.
Che effetto ti fa quando vedi gente che ti imita? Ti fa strano?
Il genere di rap che faccio io sta un po’ sul filo del rasoio: essendo un tipo di rap piuttosto estremo, se esageri è un attimo finire col diventare una macchietta.
Vero.
Già. Sembrare quello che vuole fare il matto a tutti i costi, o che vuole inquietarti per forza. Io sono me stesso quando rappo, parlo delle cose che ho vissuto, non è che mia intenzione impressionare – o se succede, ti assicuro che non è fatto a tavolino. Le cose che racconto arrivano anche dai miei vissuti negativi: l’ambiente famigliare, il quartiere. Che poi, a proposito di quartiere: io continuo ad essere l’unico del mio quartiere che fa rap, ci credi? Anche adesso che il rap va tanto di moda! Incredibile, vero? Eh, si vede che ancora adesso hanno altro da fare… e puoi immaginare cosa, in molti casi. La mia insomma è per molti versi una alchimia unica. Io di mio sono una persona sensibile e, anche, una persona che sa scrivere. A scuola avevo otto fisso in nei temi, nelle materie umanistiche sono sempre stato bravo, anche in filosofia era otto fisso. Faccio una musica che ok, ingloba anche degli impulsi criminali, ma comunque è appunto musica, è quindi arte, c’è insomma un background prima di tutto intellettuale. Ed è necessario sia così, perché se fai rap devi avere un buon vocabolario, non puoi parlare come un idraulico, puoi essere terra terra come argomenti ma devi avere un vocabolario ampio, che sia in grado di spiegare e raccontare. Più cresci, più ti rendi conto poi che questa cosa del “rap criminale” ad un certo punto ti pone davanti ad una scelta: o fai il rapper, o fai il criminale. La musica, a farla bene, ti porta via talmente tanto tempo che anche volendo non riesci più a fare il criminale. Che poi, io il criminale non l’ho mai fatto in vita mia: ho solo vissuto in ambienti particolari, ecco. Io di mio non sono mai stato conosciuto a Roma per attività criminali. Per fortuna.
Ma alla luce di tutto questo, del ritratto piuttosto lucido e convinto che hai fatto della tua figura, “Pagliaccio di ghiaccio” è oggi una cosa positiva – che comunque in qualche modo ti ha lanciato e reso conosciuto – o una rottura di cazzo fonte tutt’ora di equivoci?
E’ stato parecchio strumentalizzato quel brano, perché ad un certo punto qualcuno voleva farlo passare per LOL rap, per trash. Ma se “Pagliaccio di ghiaccio” è trash, allora Bello Figo cos’è? Sai cosa, a farlo sono stati soprattutto quelli invidiosi del botto che quel pezzo era stato. Il suo video è stata probabilmente la prima cosa virale del rap italiano su YouTube; il pezzo di per sé è diventato un culto, con tutti che lo cantavano in giro e si riprendevano mentre lo facevano. Avremo fatto sei milioni di visualizzazioni, e tutto con un video girato con una telecamerina da turista giapponese sfigato in un parco alla Garbatella, zero budget. Abbiamo fatto un gran casino. Così grande, che ad un certo punto però ho iniziato ad odiarlo, “Pagliaccio di ghiaccio”, e l’avevo tolto dalla mia scaletta nei live.
Esatto, me la ricordo questa cosa.
La gente che mi identifica solo in quella canzone lo fa per screditarmi, in parte, e in parte perché effettivamente è stata una hit enorme. Una canzone che rimane in testa. Però credo che per qualsiasi artista sia limitante ed un po’ avvilente essere ricordato per una sola canzone, quando in realtà ne hai fatte più di trecento. E’ un po’ un unicum nel mio repertorio, tant’è che poi mi sono divertito a reinterpretarla (coll’album precedente è arrivata una “Pt. 3”, che credo farà da chiusura del capitolo), ha un titolo bizzarro, ha tante citazioni. Ma andando avanti per fortuna anche altri pezzi miei sono andati molto bene, penso a “Nella mia mano”, o “Il suono del male”. Anche nel loro caso, video che hanno fatto milioni di click. La differenza è che io oggi sono proprio un veterano. Un vecchietto del rap. Sai perché? Perché oggi le cose si stanno evolvendo sempre più, inizi a fare rap sempre più da ragazzino, oggi si inizia a dodici, quattordici anni, mentre io che avevo iniziato a venti, beh, nessuno mi ha fatto sentire “troppo vecchio” perché avevo iniziato a quell’età lì. Che poi già seguivo, stavo nelle comitive di appassionati, avevo fatto gruppo. Col risultato che quando sono salito su un palco, avevo già una mia piccola claque. Gente che pure se dicevo una baggianata, faceva gran casino per me.
Ecco, appunto: il rap e la trap sono diventati (anche) una musica per ragazzini. Inimmaginabile prima, una cosa del genere. Che effetto ti fa?
In America non è così. In America c’è spazio e rispetto pure per i veterani e per un modo adulto di fare hip hop: mc che fanno concerti con una band dientro, magari pure vestiti bene. Non è per forza “musica da ragazzini”. Ma sai cosa, è che in Italia il rap è ancora adesso visto come un “fenomeno giovanile”. Eppure ce ne sono, di miei coetanei che spingono un sacco ancora adesso: Danno, Lugi, Noyz…
…Kaos.
Kaos, giusto! Lui è pure più grande di me. Danno anche. Noyz ha un anno meno di me, quindi siamo lì. Sono contento che tutta questa gente continui a spingere, e non mi lasci solo. Anche perché io non ho intenzione di mollare. Ho ancora tante cose da dire.