Stiamo qui, a baloccarci con crisi-non-crisi, Conte non Conte: ma al di là dell’assuefazione – e della giusta paura – da pandemia, il dato di fatto è che nel comparto della musica, degli spettacoli pubblici, degli eventi ormai è quasi un anno che si sta fermi. Non è un modo di dire: fermi, sbarrati, porte chiuse. Possibilità di guadagnare, zero. Spese fisse, invece, non c’è nulla e nessuno che le abbia sospese. Unico appiglio, la cassa integrazione in deroga, per chi ci rientra, ma sono pochi: in Italia per mille motivi questo tipo di mondo, soprattutto nel campo della musica pop, rock, indipendente, sperimentale, vive soprattutto su libere professioni e gente imprenditrice di se stessa, fuori da tutele e reti di sicurezza sociale.
Abbastanza bizzarra questa situazione, considerando il ruolo delicatissimo e fondamentale operato da queste realtà proprio per mantenere e rafforzare la salute del tessuto sociale: uscire, incontrarsi di persona, respirare cultura e creatività restano gli indicatori fondamentali per la salute di una nazione. Ottuso chi non lo capisce.
Se per dancefloor e discoteche il discorso è più accidentato (vuoi per le riaperture estive, che però hanno toccato solo una minoranza, vuoi per la cattiva fama storicamente accumulata dal mondo della notte ma qui il discorso è lunghissimo, ne abbiamo parlato mille volte e mille volte ne parleremo), non dovrebbero esserci troppi dubbi sui locali che ospitano la musica live (…e che spesso ospitano anche serate di clubbing, pure di qualità).
Proprio perché in Italia è una cosa da eroi dedicarsi alla cultura “giovane” (vabbé, in Italia è “giovane” tutto ciò che non profuma di INPS e di Glen Grant sorseggiato davanti al caminetto…), abbiamo a che fare con realtà che quasi sempre hanno anteposto la crociata culturale alla mera massimizzazione del guadagno. Organizzare un concerto di musica live, in Italia, è un atto eroico. Tolti gli ultimissimi anni, in cui c’è stata una grande crescita di attenzione grazie alla “poppizzazione” dell’indie (che ha catapultato i grandi nomi dai locali storici agli impersonali palasport, ma ha anche aiutato nomi minori vecchi o nuovi a raccogliere più attenzione), sostanzialmente si tratta di fare qualcosa che costa molta fatica ed ha margini di guadagno molto risicati. I nomi più “televisivi” e superficiali vivono – appunto – di televisione, o fanno le comparsate nelle discoteche, nelle feste di paese, nei compleanni degli assessori o degli stilisti più o meno di provincia; chi suona nei club invece arriva per lo più dalla scena “vera”.
Perché sì, esiste ancora una differenza tra chi si fa la gavetta e crede nello stare/costruire all’interno di una comunità, e chi invece cerca la scorciatoia immediata. Esiste. Il confine non è netto; ci si può ritrovare anche ad attraversarlo, in una direzione o l’altra, più volte nell’arco di una settimana, anzi, dello stesso giorno, e non c’è nulla di male in questo. L’importante però è ricordarsi della differenza che c’è. E non esiste posto migliore dove ricordarlo dei locali che storicamente si dedicano alla musica live che non sia fatta solo da cover band.
Oggi 28 gennaio, alle ore 11, quasi un centinaio di questi tenaci, meritori caposaldi hanno postato in contemporanea un’immagine di se stessi con sopra la scritta: “L’ultimo concerto?”. Accanto, la data di nascita e un “2021” con punto di domanda accluso.
Sì: perché il 2021 potrebbe essere la morte di tutti questi luoghi. Lasciati soli, abbandonati, non considerati, non inclusi nel dibattito pubblico (…perfino meno inclusi dei club e delle discoteche: perché loro, nell’accezione disgustosamente moralista che spesso assume il dibattito pubblico, almeno passano per “cattivi” e quindi ci si scaglia contro). Disinteresse generale. Un po’ disinteresse anche di chi li frequenta, perché inconsapevolmente il pensiero è che “Massì, in qualche modo sopravvivranno”, visto che sono sopravvissuti sempre, anche quando della musica live di qualità e/o di matrice indipendente in Italia sembrava non importare più niente a nessuno, perché in fondo c’era sempre uno zoccolo duro a portare avanti le cose pure nei momenti in cui il buon senso sconsigliava di farlo, tale era la forza di sentirsi “in missione”.
Ma ora questa cosa potrebbe non bastare più. Potrebbe non bastare più per i locali piccoli, di provincia; potrebbe non bastare più per i locali storici, in piedi da vent’anni e con una storia ricchissima; potrebbe non bastare più nemmeno per i grandi contenitori delle metropoli nazionali.