Il disco è interessante, come no: non puoi parlare male male di “For The First Time”. Puoi magari trovarlo un po’ paraculo, per i troppi riferimenti da rock intelligente (dai Fall ai Black Midi, striature di jazz, matematicismi vari, quelle cose lì insomma, quelle che in ambito rock piacciono alla gente che piace); ma tolta la corazza di cinismo, non puoi che essere contento che ci sia in giro della gente che oggi fa musica così, lontana dalle sirene del suono-del-momento radiofonico, del brano-breve-sennò-non-ti-conta-il-play-su-Spotify, e che comunque ha una scrittura ispirata, fluente, e anche consistente come testi.
Anzi, sarebbe pure curioso capire come sia (ri)sorta questa vena che, boh, dovendo usare una definizione assurda ci verrebbe quasi da dire “college-prog” (gente fresca agli strumenti, idee semplici, piglio indie, ma gusto barocco nell’evadere dalla semplicità pop-rock); forse semplicemente è l’ennesima dimostrazione che l’industria (soprattutto) e la critica (anche) può fare tutte le gabbie interpretative che vuole, ma arriverà – per fortuna! – sempre un gruppo di musicisti a fregarsene ed a spezzarle via e, immancabilmente, facendo la cosa giusta al momento giusto, ad un certo punto ci sarà sempre un pubblico pronto ad innamorarsi delle irregolarità. E’ successo lo stesso nel jazz con gli Snarky Puppy, e paradossalmente è proprio il collettivo newyorkese quello che pur nella diversità di suono, scrittura e tocco strumentale si potrebbe accostare ai Black Country New Road più di altri (…chi mette in campo i Radiohead, e l’abbiamo visto fare, secondo noi tira un po’ ad indovinare e mette in campo il primo nome che gli viene in mente alla voce “rock strano”… è come tirare in ballo Jovanotti quando si parla di hip hop. Paradossalmente, è quasi più sensato evocare gli Idles, virati in una declinazione educata, sofisticata, simpaticamente secchiona). Gli outsider che all’improvviso scompaginano la routine e conquistano cuori, ecco, in questo folder vanno messi i BCNR. Ad ogni modo se non l’aveste ancora sentito, “For The First Time”, eccovelo qua sotto, così vi fate un’idea voi stessi. Ma dopo vorremmo fare un discorso a margine. Che tanto margine in realtà non è.
La Ninja Tune – sì, perché questo album esce per la Ninja Tune – sta facendo lo stesso percorso fatto anni addietro dalla Warp ad un certo punto. Ovvero, quello dell’etichetta “elettronica” (virgolette d’obbligo, per la Ninja, ma ci siamo capiti) che ad un certo punto flirta col post-punk-rock (non solo Battles ma anche Maximo Park, nel catalogo Warp, ricordiamolo), oltre a mettere sotto contratto dei tizi solo perché fanno sperabilmente immagine (Peggy per la Ninja, Vincent Gallo per la Warp). Ma ne vale veramente la pena?
Boh. E’ sempre brutto restare legati ad un unico immaginario, è sempre bello scompaginare le carte, ma davvero ascolti “For The First Time” e ti chiedi che diavolo c’entri con la Ninja Tune. Volendo, ma volendo volendo, si può trovare qualcosa in comune a livello di scrittura a Fink (non però i testi, non gli arrangiamenti, non l’impatto sonoro), che ad oggi era la cosa più borderline fosse apparsa sulla label rispetto alla sua identità (…infatti non a caso Fink nasceva come producer trip hop, molto più in linea quindi col DNA della label). O The Invisible, loro sì, loro ancora più di matrice post rock: ma comunque “allevati” in origine da Herbert, e lo si capisce da tante piccole cose. Però in generale è davvero una “scelta che non c’entra”, rispetto allo storico, che è solidamente incanalato su un filone black “meticcio” (hip hop, soul, funk, house “intelligente”, post-jazz, suoni urbani in generale). Ora si tratta di vedere se è un exploit isolato o se lì dalle parti dell’etichetta fondata dai Coldcut hanno deciso che “vale tutto, purché funzioni”.
Scelta che ci starebbe anche, per carità. Tanto più che in tempi di singoli, di EP, di ascolti “liquidi”, il restare attaccati alla label potrebbe sembrare una nostalgia boomer, un retropensiero da rimastone del dancefloor perché sì, è stato coi dancefloor che l’etichetta contava spesso e volentieri tanto quanto l’artista, tanto quanto la musica. Tempi andati? Chissà. Magari. Ma è anche vero che forse proprio in tempi di musica “liquida” le etichette (…e i giornalisti, e molti addetti al settore) hanno o potrebbero avere ancora più responsabilità di prima come curatori: come persone/entità in grado cioè di creare un “recinto estetico” che faccia da guida, da riferimento.
Che un’etichetta dall’identità così forte come la Ninja Tune possa perdere la suddetta identità come fosse una major o wannabe major qualsiasi, un po’ ci dispiacerebbe. Quando l’ha fatto (a metà…) la Warp, in realtà si poteva essere intrigati dalla novità – anche per dispetto ai vecchi scoreggioni dell’IDM che non accettavano nulla che non rientrasse nel loro Verbo, maledetti puristi snob – però dopo un po’, quando l’esperimento è stato tagliato dalla direzione artistica, beh, un sospiro di sollievo lo si è tirato. E’ stato bello, è stato un gioco: è stato bello quindi perché è durato poco.
Restare fedeli al proprio DNA non significa abolire l’esplorazione e la pluralità di voci e stili, attenzione. Esiste però una differenza tra “variazioni sul tema” (quella per cui esiste un filo tra Yves Tumor ed LFO, tra Aphex Twin e Battles, tra !!! e Lorenzo Senni) ed il “fare qualcosa che proprio non c’entra, ma che funziona”. Sì che esiste. Poi per carità, puoi fare quello che vuoi, puoi combinare cose molto diverse fra loro, puoi cercare semplicemente di mettere sotto contratto quello che ti piace e/o quello che secondo te potrebbe funzionare in un mercato; ma questo è un segno chiaro della “majorizzazione” progressiva delle dinamiche del mercato discografico e delle relative scelte artistiche, “majorizzazione” che colpisce le major – beh, ovvio – ma anche molte realtà indipendenti nate nel nuovo millennio.
Fateci caso: discograficamente, come identità di label, siamo sempre più nel post-moderno, ogni giorno che passa. Vale un po’ tutto (…perfino che chi faceva hip hop si butti nell’indie e/o nel pop: fino a pochi anni fa, peggio di una bestemmia o di incubo farsesco). Bello. Stimolante, anche. Ma se dopo un po’ invece, una volta assaporata la libertà di fare “…quello che ti passa per la testa, senza menate”, tornasse la voglia di affermare una identità, uno stile?
Perché nelle scene che vogliono restare non omologate al mainstream, noi che siamo passati per gli anni ’90 lo sappiamo, o lo dovremmo sapere: la questione di stile è, semplicemente, fondamentale.