La notizia è arrivata ieri, e per chi ha vissuto la Berlino non-solo-techno (e pre-popolarità berghainiana e kalkbrenneriana), per chi l’ha vissuta davvero, è stato un colpo al cuore: Françoise Cactus ha perso la sua battaglia contro il cancro, e ci ha lasciati. Non vi dice granché questo nome? Ci sta. E ci sta pure che non vi dica molto il nome Stereo Total, il progetto che aveva creato col partner Brezel Göring: per quanto avessero continuato la loro attività discografica – l’ultimo album del 2019 – non erano più al centro dell’immaginario come lo erano a cavallo tra gli anni ’90 e il 2000. Berlino oggi è altro: è, appunto, il Berghain, il Watergate, la techno, la minimal, per i più colti è ancora la lunga eredità di Basic Channel, è la città che vive ventiquattro ore, che trasporta l’edonismo sul dancefloor (…e sul vestirsi di nero, ma con tagli d’abito balearici), che è magnete del jet set della club culture, che è affidabile (o sopravvalutato?) marchio di garanzia per la musica a quattro quarti più essenziale o, se si vuole seguire una declinazione più colta, per l’ambient industrial più rigorosa. E’ anche la città della modernità, delle start up, dell’inseguire le ultime tendenze e dell’anticipare quelle emergenti, possibilmente capendo come farci dei soldi (e assoldando un sacco di laureati in arrivo da ogni parte d’Europa e del mondo). E’ una versione calmierata, techno e stilosa, con delle belle eccentricità, della società-standard dell’Occidente. Ormai abbiamo digerito sia così. E va bene, resta una città affascinante, sfidante, bellissima. Con una scena musicale forte, potente.
Ma ripensare agli Stereo Total ci riporta ad un’era diversa. Quando praticamente nulla di quanto sopra esisteva. Esisteva già la techno, certo, così come esisteva Basic Channel, e volendo esistevano anche i prodromi del Berghain (…tanto più che il Tresor originale, quello vicino a Potsdamer Platz, era concettualmente sotto molti punti di vista un Berghain 1.0). La musica però era diversa. Anzi: soprattutto lo spirito era diverso. Nella città e società stilosa, clubbing-edonista e performante di oggi, era naturale che gli Stereo Total avessero perso centralità. Berlino rischia di fare la fine di Milano, e di molte città molto lanciate e molto hipster: perdere completamente il sense of humour, l’autoironia. Tutti sulle rive della Sprea sono talmente presi e motivati a fare al massimo quello che fanno (ed a renderlo scintillante agli occhi del proprio mercato di riferimento: che sia la Borsa, il retail, l’impresa 2.0 o anche solo gli amici o la propria bolla sui social) da non volersi concedere il gusto dell’autoironia, del gioco. Se ci pensate, tutta la sfera dell’ambiente musicale dance – valvola di sfogo per eccellenza rispetto alla quotidianità, no? – è diventato incredibilmente performante: negli artisti che si trasferiscono a Berlino esplicitamente per svoltare, nella gente che va nei club solo per dimostrare di essere stato qui e lì, di aver ascoltato questo e quello, e di avere fatto tot ore di fila sul dancefloor.
(Adorabile cazzeggio stereototale: ciao, Françoise. Continua sotto)
Si parla tanto della Berlino post-caduta del Muro, dei primissimi momenti in cui tutto pareva possibile, in cui regnavano anarchia e creatività, e di come la libertà precedente al 1989 (Berlino Ovest, col fatto che se ti ci andavi a stabilire potevi evitare il servizio militare all’epoca obbligatorio, era diventata la meta degli “strani” di tutta Germania e di molta Europa: la caduta del Muro fu il loro Kindergarten più spettacolare e libero) abbia riverberato poi sulla creazione del mito della Berlino attuale. Ed è giusto farlo. Ma schiacciato tra la Berlino “storica” (da Bowie agli U2 “wendersiani” ai Depeche in gita agli Hansa Studios, passando ovviamente per i feroci padroni di casa Einstürzende Neubauten) e quella contemporanea, che vi abbiamo descritto più sopra, si è andata a perdere nel racconto collettivo tutta una fase di mezzo. E’ un gran peccato: perché proprio questa “fase di mezzo” ha messo i germi creativi che hanno dato vita a ciò che conosciamo oggi, e ciò che apprezziamo oggi, innovando ma mantenendo la ricchezza ideale cialtrona e felice che ha reso ricco il DNA cittadino; e proprio questo germi creativi sono stati via via abbandonati, nel momento in cui si è deciso di rendere sempre meno rilevante questa “fase di mezzo”.
Vero: Berlino è la città della musica elettronica. Ma Berlino è anche la città dove – eredità ancora degli anni di Weimar, del cabaret “scuro”, di George Grosz – oscurità, humour e sarcasmo tagliente andavano a collidere, in una sorta di fatalismo disperato e vitale, forse molto poco potente dal punto di vista politico (infatti fu spazzato via dal totalitarismo) ma fortissimo e molto resistente dal punto di vista culturale. Molto. Tant’è che ha continuato a permeare la città: lo ha fatto anche negli anni ’70, negli anni ’80, ovviamente pure prima col 1968; e se nella parte Est poteva farlo un po’ meno, sotto la mano feroce del regime DDR, comunque l’ha fatto. Questa cosa era arrivata anche nella scena elettronica. Spiega anche l’amore per la techno, il motivo per cui questa città si è incapricciata così tanto di una musica nata fondamentalmente a Detroit (e influenzata da una band di Düsseldorf, città sì tedesca ma davvero l’opposto di Berlino). La techno, nello spirito berlinese più autentico, era originariamente amata per il suo essere estrema, e l’essere estremo era in primis uno sberleffo al mainstream, alla “normalità”; era una battuta acida e corrosiva contro il pop, era una cura sarcastica ed omeopatica contro l’avanzare della società tecnologica. La techno, a Berlino, nasce come controculturale e nemica del mercato. Anzi: non nemica, ci correggiamo; felicemente indifferente ad esso, ecco. Felicemente indifferente, sì. Con un ghigno composto ma sarcastico di fondo. E col gusto di estremizzare (orari di ballo, pratiche relazionali, suoni e bpm): ma proprio per far capire che era tutto un “gioco fatalista”.
Oggi a Berlino tutta la sfera dell’ambiente musicale dance – valvola di sfogo per eccellenza rispetto alla quotidianità, no? – è diventato incredibilmente performante: negli artisti che si trasferiscono a Berlino esplicitamente per svoltare, nella gente che va nei club solo per dimostrare di essere stato qui e lì, di aver ascoltato questo e quello, e di avere fatto tot ore di fila sul dancefloor
C’era infatti un filo comune che legava il rigore Basic Channel (o il glitch di Pole e sodali) col cazzeggio degli Stereo Total, anche se all’apparenza erano progetti e visioni così opposti: si trattava di estremizzare dei componenti (la ripetitività e le frequenze basse nel caso di Basic Channel, la destrutturazione a frammenti nel caso di Pole e soci, la caciarosità nel caso di Stereo Total), godendo l’intimo sense of humour del farlo – e condividendolo con chi era in grado di capirlo, di apprezzarlo. Berlino non era una città “di successo”, come ora. Era ancora la città degli atipici, dei “perdenti” felici&soddisfatti di esserlo, degli strani, dell’ossimoro come forma di resistenza intellettuale (i punk che scoprono l’elettronica, i colti&raffinati che scoprono il nichilismo industrial pauperista…).
Tutta questa complessità – che è anche ricchezza – la stiamo perdendo completamente in favore della visione da cartolina di “Berlin Calling”: un film che resta un pessimo film, perché è davvero un filmetto, ma che è anche un efficacissimo spot per la Berlino 2.0, quella che seppellisce definitivamente la vecchia scena artistica e si butta a capofitto nelle strategie lineari della club culture mondiale, avocando a sé una leadership. Chi ama “Berlin Calling” – e ci sta amarlo, assolutamente – dovrebbe però sapere che rappresenta il momento simbolico in cui la Berlino dei decenni precedenti con i suoi vezzi, le sue assurdità, le sue complessità, il suo sense of humour, la sua voglia di combinare elementi opposti è stata definitivamente eliminata dalle scene, dalla rappresentazione del contemporaneo. Se vi siete innamorati di Berlino grazie a “Berlin Calling”, vi siete insomma innamorati della Berlino che aveva deciso di togliere dalla “foto di famiglia” gran parte di quello che c’era stato prima, gran parte dello spirito dei padri e dei fratelli maggiori, per essere sicura di affrontare più e meglio la grande novità: ovvero la fine dell’era socialista, la fine della “bolla” bislacca di Berlino Ovest, in favore dell’avvento del nuovo capitalismo, costruito sulle autostrade del web e delle low cost.
(La “rivolta” oggi è per il successo, è per arrivare a farsi pagare 250.000 euro per un live; continua sotto)
A legare il tutto, l’edonismo, sì: ma il nuovo edonismo era ed è costruito più sulle droghe (che sono uguali in tutto il mondo) che sulla specificità culturale. Non che ci sia nulla di male. Lungi da noi condannare l’edonismo, strategia sempre fondamentale nel resistere alla pressione esercitata dalla società produttiva sulle nostre vite, ma ecco, basta saperlo. Basta capire che la Berlino raffigurata da “Berlin Calling” era ed è sì autentica, ma è anche la Berlino fotografata nel momento in cui decide di pensionare i propri padri culturali, le proprie radici creative che l’hanno percorsa nel ventesimo secolo, e l’ha fatto per diventare finalmente meno cazzona e più orientata al profitto, ma diventando così anche meno libera e meno creativa. Meno irresponsabile. Lucrando però ancora sull’aura di irresponsabilità, che attira sempre tutti: da cui la Berlino “povera ma sexy”, un’affermazione con un misto di onestà ed autocompiacimento, coniata dal suo sindaco-simbolo, Klaus Wowereit, nel 2003 (“Berlin ist arm, aber sexy”, detto per giustificare in modo un po’ gaglioffo la voragine nei conti pubblici cittadini agli occhi del resto della nazione).
Oggi Berlino non vuole più essere povera, “arm”, e il suo essere “sexy” è rimasto ma in una forma di sessualizzazione performante (o performance sessualizzata) in cui a fare da guida è il desiderio, più o meno chimicamente indotto: il desiderio di farcela, di sfondare, di farsi una vita, di diventare ricchi ma divertendosi o almeno di diventare autosufficienti ma cazzeggiando. Questo è rimasto, questo regna oggi. Rimpiangiamo un po’ la Berlino “arm” nella musica, e gli Stereo Total ne erano un esempio perfetto, col loro cialtronismo sorridente; ma lo erano anche degli artisti-simbolo della “fase di mezzo” per quanto riguarda l’elettronica, pensiamo cioè a Otto Von Schirach, Kid 606, Jason Forrest ed Ed Flis (aka Dj Donna Summer, aka Duran Duran Duran), T.Raumschmiere e la sua Shitkatapult (che peraltro scoprì i talenti di Apparat), i Mouse On Mars, praticamente tutti berlinesi non di nascita ma di spirito decisamente sì, per l’atmosfera che c’era in quegli anni. C’è stato un momento, felicissimo ma mai di successo commercialmente, in cui l’elettronica a Berlino era portata avanti da queste gente qua, a livello di immaginario: ed era una elettronica psichedelica, assurda, contaminata, piena di humour, grottesca in certi passaggi. In fondo era grottesco anche l’unire techno e dub come hanno fatto Maurizio e soci, solo che poi questa vulgata è stata rilevata dalla minimal-techno più industriale e “di mercato” (nata in Germania, ma non a Berlino, e che a Berlino è diventata egemone anche grazie a due non-berlinesi come Hawtin e Villalobos) ed ha perso il carattere irriverente, di sberleffo, di sfida, per diventare invece “sistema” e “stile”.
(Ascoltatevi un po’ di musica e rendetevi conto di quant’è figa e mattacchiona; poi, sotto, continua)
Oggi il gruppo-simbolo di Berlino sono i Moderat. Ma allora vale la pena ricordare che i Modeselektor hanno una venerazione per i Mouse On Mars ma anche per Otto Von Schirach (e la loro techno, in generale, è piena di sense of humour berlinese, cosa che si coglie sempre meno e che pure loro nell’ultimo album hanno perso, e non a caso è di gran lunga la loro release meno convincente e che meno tracce ha lasciato); e Apparat, come citato prima, era stato scoperto da T-Raumschmiere e dalla Shitkatapult. Ecco, nel 2016 per il defunto mensile Mucchio Selvaggio scrivevo questa recensione del disco “Europa” a nome Shrubbn!!:
Toh, chi si rivede: era un po’ disperso nei radar del mondo, T.Raumschmiere. Uno che, oggi si farebbe fatica a crederlo, un tempo era uno dei producer di elettronica berlinesi più conosciuti. Per dire, mille volte più conosciuto di Apparat – di cui anzi era stato una specie di mentore (poi i due hanno iniziato a lavorare assieme alle sorti della Shitkatapult, la label fondata da Rumschmiere). Soprattutto, era uno che incarnava lo spirito berlinese vecchia maniera: caciarone ma con la faccia serissima, punk, sfrontato, con un sense of humour sardonico e nichilista nascosto da una faccia impassibile (o da una rumorosa tendenza all’autodistruzione). Altro che i candidi bar minimal-bio-vegani di oggi. Shrubbn!!, il progetto creato assieme al sodale Ulli Bomans, ha in realtà vita vecchissima: nasce infatti nel 1995. Con pigrizia e cazzonaggine appunto da Berlino vecchio stile, arrivano solo ora al traguardo dell’album. Ma è un traguardo convincente. Mentre oggi impera l’ambient di piglio cupo, pesante, industriale, con magari al massimo ricami pop destrutturati da imbellettamento controculturale (vedi le cose della Tri Angle), Europa ha una rilassatezza notevole, senza perdere nulla in suggestione, inquietudine e in cura del dettaglio (anche quando sporco o ostile). E’ quello per cui era famosa, riconoscibile ed affascinante la elettronica berlinese nel passaggio tra ’90 e 2000. Ed è ancora valido. Eccome.
Il disco lo potete sentire qui.
C’è un pezzo di Berlino che stiamo perdendo, che stiamo abbandonando all’oblio. Che esce dalle mode, dagli hype, dall’attenzione mediatica, dalla considerazione della critica e degli addetti ai lavori. Probabilmente era ed è inevitabile sia così. Ma questo non impedisce di fare un po’ di testimonianza culturale, di provare a ricordare che non tutto era così come lo vediamo (e spettacolarizziamo, e sfruttiamo, e monetizziamo) adesso. Anche perché forse l'”Evil Twin” è quello che c’è oggi: più ricco, più educato, più di successo, più famoso, più on line, più accettato, più considerato.