Recentemente è uscito un libro davvero clamoroso, che vi consigliamo davvero di fare vostro: è irrinunciabile, se siete appassionati di clubbing. Pubblicato dalla Spector Books e promosso dal Goethe Institut, “Ten Cities” è un fantastico viaggio nella storia ed ancora di più nelle radici del clubbing di dieci città (da qui il titolo): Nairobi, Cairo, Kiev, Johannesburg, Berlino, Luanda, Lagos, Bristol, Lisbona. E’ bellissimo come da un lato ci sia la “solita” Berlino, ma per il resto si tratta di città che spessissimo sono sfuggite alla cartografia del clubbing contemporaneo – ma non per questo hanno di meno da dire e da raccontare. Anzi, proprio uscire dalle solite rotte dà un quadro ancora più interessante, completo, pulsante, “vivo”, lontano da luoghi comuni e storie già sentite e strasentite. Se siete attenti – in maniera pure quasi un po’ autistica – vi sarete però accorti che di città ne abbiamo citate solo nove. Questo perché la decima ci riguarda da vicino: l’italianissima Napoli. Una città che ha dato e dà un contributo eccezionale al clubbing, sotto forma della passione della sua gente – che spesso si dà per scontata – ma anche sotto forma di idee originali, di professionalità, di inventiva, di capacità di agire reinventando regole e convenzioni stilistiche. E’ una presenza perfetta, Napoli, all’interno di “Ten Cities”; e allora abbiamo estorto una lunga chiacchierata a Danilo Capasso (o Dj Danylo, nel suo alias “artistico”), curatore del capitolo dedicato alla città partenopea. Il quadro che ne emerge è davvero sfaccettato e ricchissimo di spunti. Il libro costa 40 euro ma, anche per la bellissima veste grafica che lo contraddistingue, vi assicuriamo che li vale tutti.
In quale maniera sei stato coinvolto nel progetto?
A maggio del 2012 mi scrive Vincenzo Cavallo (culturalvideo.org), un caro amico sociologo e videomaker, che da qualche anno si era trasferito a vivere in Kenya e mi propone di partecipare al progetto TEN CITIES. Di casa a Nairobi, era in contatto con il locale Goethe Institut che in quel periodo stava lanciando il progetto e scegliendo le città da coinvolgere – infatti è importante ricordare che il tutto è stato pensato e organizzato a Nairobi. Vincenzo propone di inserire Napoli tra le 10 città, il direttore del Goethe nonché curatore del progetto Johannes Hossfeld trova interessante la proposta e accetta. Ok, fantastico. C’è da costruire un team di autori e anche di musicisti per raccontare Napoli, Vincenzo mi coinvolge proponendo anche Iain Chambers, e durante l’estate ci incontriamo tutti a Napoli con Johannes. Per la parte musicale coinvolgiamo Marco Messina (99posse) e Lucio Aquilina, che andranno successivamente in Angola per produrre una traccia con un musicista della scena Kuduru. In questa intervista stiamo infatti parlando di un libro, ma è stato prodotto anche un disco che vi consiglio vivamente di ascoltare https://soundwayrecords.bandcamp.com/album/ten-cities. Tornando al libro, i curatori hanno individuato due autori per ogni città, tra giornalisti e teorici, che dovevano avere con la scena musicale e culturale da raccontare un legame consolidato, o comunque una conoscenza del contesto riconosciuta. Noi abbiamo partecipato in tre, mettendo insieme i nostri background culturali e interessi di ricerca. l’intuito e l’energia creativa di Vincenzo Cavallo, la grande esperienza nel raccontare la realtà urbana attraverso i suoni di un ricercatore come Iain Chambers, e poi io, che ho attraversato, vissuto e osservato la scena musicale partenopea a partire dai tardi anni 80, come Dj, come organizzatore e ovviamente come clubber. Tra l’altro, in quello stesso periodo ero molto preso dal dottorato in urbanistica, e le tematiche di TEN CITIES avevano anche una forte risonanza con le mie ricerche sulle pratiche urbane e gli spazi liminali.
(Prima e quarta di copertina; continua sotto)
Che indicazioni ti sono state date, prima di iniziare a scrivere?
Credo che sia importante premettere che il concetto di clubbing in questo progetto è molto ampio. Ci sono due parole chiave: “Club Music” e “Public Sphere”, che nelle intenzioni dei curatori dovrebbero creare un corto circuito e far riflettere sul ruolo politico e sociale della musica, nella ridefinizione degli spazi di cultura e controcultura che caratterizzano il paesaggio urbano. I curatori del progetto ci hanno inviato un briefing a dicembre 2012, con la richiesta di due articoli: uno più centrato sulla questione teorica (space/politics) e uno più documentale (music/spaces). Uno più accademico insomma, e uno più giornalistico. Così verso gennaio 2013 ci siamo messi a lavorare per definire una strategia di narrazione per Napoli. Concettualmente, alle indicazioni dei curatori abbiamo risposto con una domanda: in quali eterotopie di tempo e spazio si condensano le pratiche di Clubbing a Napoli dagli anni ’60 ad oggi? Abbiamo immaginato questa storia come una costellazione di momenti chiave spalmati su una timeline, un esercizio di scrittura della storia punteggiato da rotture e discontinuità. In particolare nel mio articolo cerco di focalizzare una serie di eterotopie e punti di rottura rilevanti nel corso del tempo, con un approccio non per forza lineare rispetto alla sequenza storica degli eventi. Sono partito dalla costruzione di una mappa, da una timeline dove sono posizionati nel tempo attori, spazi e suoni che compongono la storia. L’insieme di queste traiettorie ha fatto emergere dei punti di condensazione, i più densi e rilevanti sono diventati parte della storia. In termini pratici l’articolo è impostato come un documentario in cui la voce del narratore è alternata da frammenti di memoria, racconti in soggettiva di alcuni protagonisti tipo musicisti, clubbers e promoters. I due articoli sono fortemente correlati, abbiamo lavorato molto nel creare questa risonanza e coerenza con Iain e Vincenzo, collaborando attivamente durante l’ideazione e la scrittura. Un momento fondamentale nella creazione di questo lavoro collettivo è stato il viaggio in Kenya su invito del Goethe a tutti i 25 gli autori coinvolti. Siamo andati a Nairobi alla fine di aprile 2013, passando tre intensi giorni di esperienze urbane tra ristoranti, visite alla città, eventi alla sede del Goethe e tanto clubbing. Ho anche avuto il piacere di fare un piccolo dj set alla serata TEN CITIES organizzata dal Goethe con i gruppi della compilation: una serata strepitosa traboccante di gente, organizzata in un grande garage al centro della città, completamente svuotato per l’occasione. La sensazione che mi è rimasta di quella breve esperienza su una consolle in Africa è che il dancefloor è sempre pronto, il warm-up è una cosa non contemplata. Poi per concludere ci siamo chiusi in un lodge sulle sponde del lago Naivasha, un altro posto incredibile, per continuare a discutere del progetto, delle strategie di scrittura, delle diverse città con la loro musica.
(La compilation; continua sotto)
Quanto tempo c’hai messo a scrivere la tua parte? Ma soprattutto: quanto hai avuto (ed hai!) paura di dimenticare nomi, eventi e situazioni importanti?
La parte sostanziale del mio articolo è stata scritta tra aprile e agosto 2013, chiuso e corretto in versione italiana a gennaio, poi per varie ragioni il progetto ha rallentato molto, ad ogni modo a gennaio 2015 avevo anche una definitiva in Inglese soddisfacente. Per chi legge è importante sapere questo: oggi siamo nel 2021 infatti, e i racconti dell’articolo sono fermi al 2013. Ho dovuto fare anche un grande lavoro sulle immagini (…anche se poi ne hanno scelte davvero poche, ma molto molto belle). Sulla questione delle dimenticanze vorrei fare una premessa, che poi ho anche riportato nei ringraziamenti: la storia che ho scritto non accampa pretese di completezza, sono ben cosciente che si tratta di una visione comunque parziale se ci riferiamo prettamente al chi c’è e chi non c’è, o quale particolare luogo non è ricordato o approfondito, e ne sono molti. Mi è stato chiesto di raccontare sessant’anni di storia Napoletana del Clubbing in 7500 parole: ne ho scritte il doppio, e mentre scrivevo e ricercavo la faccenda diventava sempre più densa e interessante. Tra ciò che manca e ciò che sono riuscito a raccontare ci sarebbe davvero da fare un altro libro, e questo articolo era intanto un buon inizio. In maniera pragmatica credo che per ogni prodotto di questo tipo il risultato è sempre un compromesso tra vincoli di tempo di spazio e consistenza complessiva del racconto, e orientamenti editoriali. Senza dimenticare poi chi scrive, cioè io, con le mie idee, bagaglio culturale ed esperienze nel contesto narrato. Per la ricostruzione di alcune storie soprattutto nel periodo dagli anni 80 agli anni 2000 ho coinvolto alcuni amici, sia come narratori esterni con loro brevi memorie che come aiuto a ricostruire e focalizzare, per l’appunto, le più rilevanti eterotropie e punti di rottura nella storia del clubbing partenopeo durante gli anni. Ho intervistato protagonisti della scena nel tempo come Salvatore Magnoni (Diamond Dogs, Velvet), Ivan Maria Vele (United Tribes), Giancarlo Lanza (Totally Cool), Lino Monaco (retina.it), Bostik (Tienamment), Augusto Penna (WOO) e altri, e devo dire che ci ho anche preso gusto, perché la varietà e la singolarità delle testimonianze allarga sempre gli orizzonti del racconto e fa emergere mille connessioni e contraddizioni, dimostrando che a diverse persone corrispondono sempre molteplici narrazioni delle stesse situazioni. Mi sarebbe davvero piaciuto continuare a scavare e includere tutto lo scibile. Poi però arrivano le dead line, fortunatamente, e bisogna fare delle scelte che rendano anche possibile al lettore la comprensione del contesto, del milieu culturale della città senza divenire una noiosa tassonomia di locali e attori. Per dirla più semplicemente: leggere questa storia e trarne una qualche logica significa individuare le situazioni che più hanno contribuito a definirne la sostanza, quindi al netto delle mie personali preferenze, assieme ad un lavoro di scavo archeologico nei meandri culturali e subculturali della città, era importante raggiungere un equilibrio e una forma comprensibile ad un audience globale. Spero di esserci riuscito, anche se questo può aver scontentato qualcuno e non incluso tutti i luoghi e le situazioni. Tra l’altro, c’è da dire che mentre fino alla fine degli anni 2000 era ancora possibile isolare un numero contenibile di cose rilevanti da raccontare, la crescita esponenziale della scena e dei suoi attori ha creato un panorama ricco ma frammentato, e comunque ormai in una condizione non più pionieristica ne di particolare unicità. Con ciò non significa che dopo il 2010 c’è il deserto, tutt’altro; ma forse il compito di questo lavoro era di fornire delle basi, di andare alla radice delle cose che poi si sono evolute nel bene e nel male nella scena attuale. Partendo da qui, dovrebbe essere più facile farsi una idea di cosa è oggi la scena napoletana e magari fornire una chiave d’ingresso per chi vuole approfondire e indagare il presente di una città che senza musica non saprei immaginare.
(Danilo Capasso; continua sotto)
Immagino avrai letto il resto del libro. Riesci a trovare un filo unico che leghi le città protagoniste? O dei pattern comunque che si ripetono, che sono comuni?
Il filo unico che lega queste città è proprio l’elemento urbano, la continuità narrativa tra spazi e suoni, perché non c’è clubbing ne musica senza una città che faccia da catalizzatore, da zona di contatto per le diverse culture che la vivono quotidianamente. Quasi tutte le città scelte hanno poi una caratteristica comune: quella di essere al limite di qualcosa, “edgy cities” direbbe qualcuno, città culturalmente porose, irrequiete, di confine. Prendiamo Lagos, west Africa, città coloniale nata su una piccola isola in una grande laguna nel Golfo di Guinea, prima portoghese e porto di partenza di schiavi, poi britannica; è tra le città più popolose del pianeta con quasi 20 milioni di Abitanti, come Cairo del resto. E’ la città dove negli anni 60 è nato l’Afrobeat, il sound panafricano che si riflette nel suono e nelle idee politiche di Fela Kuti. Poi c’è Napoli, un altro porto in mezzo al mediterraneo: la città di Caruso, prima pop star globale, delle musiche popolari e delle influenze della lunga occupazione americana nel dna musicale urbano. Una città sempre in tensione tra identità arcaica e proiezione verso il futuro, dove la modernità scorre ma non sedimenta del tutto. La città della nuova Compagnia di Canto Popolare, di James Senese, degli Almamegretta, dei Nu Guinea, della techno di Gaetano Parisio e dell’elettronica dei Retina. E ancora Bristol, un altro porto, aperto sull’Atlantico, da cui è sbarcata una generazione di operai giamaicani insieme alla loro musica popolare, il reggae. La città dei Massive Attack, che poi sono anche un po’ napoletani per via di Robert Del Naja. Le storie urbane e musicali delle diverse città sono comunque tutte molto diverse. Credo che la cosa davvero interessante sia proprio la diversità delle dinamiche politiche, sociali, antropologiche e urbane in cui il Clubbing si manifesta. La musica e suoi spazi diventano la cartina di tornasole per entrare nell’intimità dei processi sociourbani e politici di ogni città.
Forse parlare di continuità punk nel clubbing è in qualche modo riduttivo, perché la rivoluzione house del 1988 è uno storico momento di rottura con il passato, con tutti i passati. Era il momento per fare pulizia delle scorie degli anni 80, conquistare un temporaneo grado zero dell’estetica e ricominciare a sperimentare su una nuova piattaforma culturale, sociale, spaziale, artistica e politica
In più di un caso emerge una relazione se non addirittura una specifica continuità fra le esperienze del punk e quelle del clubbing (nel caso di Napoli è molto evidente, ma per dire anche di Berlino): è una relazione che oggi si è completamente spezzata? Se sì, perché?
Nell’ottica di TEN CITIES direi che il punk, come tutte le altre correnti culturali e musicali è dentro la storia del clubbing a prescindere. Se invece parliamo di punk come musica ed estetica, e di clubbing come scena house/elettronica/techno etc. allora la questione è più articolata. Forse parlare di continuità punk nel clubbing è in qualche modo riduttivo, perché la rivoluzione house del 1988 è uno storico momento di rottura con il passato, con tutti i passati. Era il momento per fare pulizia delle scorie degli anni 80, conquistare un temporaneo grado zero dell’estetica e ricominciare a sperimentare su una nuova piattaforma culturale, sociale, spaziale, artistica e politica. Nel dancefloor, con la musica 4/4 semplice e tribale, si sono temporaneamente vaporizzati diversi steccati estetici, ma anche sociali e politici, attraverso l’energia aggregativa del suono e la spinta empatica dell’MDMA. La nuova scena ha accolto un pò tutti, indipendentemente dai background di provenienza. Certamente in luoghi come Bristol e l’Inghilterra in generale, il punk è scritto nel dna dei ragazzi bianchi della working class cresciuti insieme ai loro coetanei, figli di operai trasferiti dalla Giamaica o dalle altre ex colonie. Un mix di culture determinante alla base di tante delle cose belle prodotte nel Regno Unito dagli anni 70 in poi. In città come Napoli, invece, il punk è arrivato con un pò di ritardo, ma ha comunque lasciato i suoi segni, anche se a mio avviso meno visibili di quelli della black music in generale. Negli anni 80 ci sono i club più o meno commerciali che suonano la disco-music, il pop e il funk, e ci sono i club dove si ascoltano i vari generi della galassia punk, post punk, new wave, indie e così via. Quando l’house è arrivata in città con la Funk Machine, il punto di ingresso è stato il mondo delle discoteche, e la Riviera Adriatica uno dei riferimenti esterni. Quando in città si sono formate le prime tribes come gli Angels of Love o Ivan & Susy tra il ‘91 e il ‘93, eravamo tutti focalizzati sulla scena dei dj americani e italiani come Ralf, Leo Mas, Flavio Vecchi, Claudio Coccoluto, Luca Colombo che promuovevano un certo genere di house dove pianoforti, voci soul, tinte di funk, jazz e qualche reminiscenza balearica erano preponderanti. Poi però, dal ‘93 in poi, una parte della scena sente di dover riconsiderare il proprio posizionamento musicale ed estetico verso qualcosa di più corrispondente al background di provenienza. Ed ecco che iniziano a spuntare situazioni Progressive House con musica più tosta e nettamente orientata al suono anglosassone, club o collettivi come lo Space e United Tribes. In particolare, rispetto a United Tribes, questo legame con il punk è cercato ed esplicitato nella narrazione, nell’estetica, nei riferimenti del collettivo, ma non perché fossimo tornati al punk rock, tutt’altro, il motto era “Let’s Progress!” e la colonna sonora era la progressive made in UK che portava nel suo dna i geni del punk e anche del dub. Infatti all’apice di questa esperienza, che poi ne è anche l’epilogo nel 1994: Ecchereccà 3, un grande evento con Paul Daley dei Leftfield, che da poco aveva pubblicato il suo punk boomerang: “Open Up” cantata da John Lydon, la voce dei Sex Pistols; gli Zion Train, davvero per la prima volta in Italia, e gli Almamegretta con un live tutto dub basato sul disco “Animamigrante”, non si era mai visto nulla di simile a Napoli, e forse anche altrove. La scena techno che emerge a Napoli dopo il ’98 a mio parere ha molto poco della cultura punk o comunque del background underground anni ‘80, inizia invece una fase in cui la Germania diventa musicalmente più influente e il suono della musica elettronica in generale si internazionalizza. Oggi non mi sembra abbia molto senso legare in maniera cosi netta le esperienze del punk e quelle del clubbing, diciamo che ci possono essere situazioni in cui questa radice si percepisce, nelle attitudini estetiche di chi organizza e chi suona. Ecco per esempio quando suonava Andrew Wetherall questa legacy si percepiva chiaramente.
Mi piace molto la scelta delle dieci cittadine, denota davvero un bell’occhio su un certo tipo di musiche ma, soprattutto, di attitudini. Quale potrebbe essere “l’undicesima città”, ovvero un’altra città da aggiungere alle dieci del libro? Puoi nominarne una, ma puoi anche nominarne molte di più, a tua scelta…
La prima città che mi viene in mente è New York, la seconda è Liverpool, poi Hong Kong, ma ormai è persa. Insomma, mi allargherei fuori dall’Europa e oltre l’Africa, anche verso oriente, perchè leggere la sfera urbana con i suoi spazi e le sue pratiche attraverso la lente del clubbing, è un mezzo molto efficace per osservare e studiare come le grandi città si evolvono e per riflettere su cosa è realmente il clubbing.
Il clubbing può ancora essere una forza rivoluzionaria (dal punto di vista almeno artistico, se non addirittura sociale), o ormai è talmente tanto established da essere (quasi) establishment?
Gli esseri umani hanno bisogno di rituali collettivi per costruire e saldare i legami di comunità, evolversi e costruire consapevolezza. Nella società urbana contemporanea questi rituali si esprimono in diverse maniere, il clubbing è una di queste. Poi ci sono momenti storici come l’inizio dell’house in cui c’è un salto di qualità e questi rituali accompagnati da una nuova musica diventano rivoluzionari, sia in termini artistici che sociali. Poi però passa il tempo e le cose si espandono e contemporaneamente si stabilizzano, perdendo l’intensità iniziale. Sono corsi e ricorsi naturali. Questo però non significa che un clubbing consapevole e maturo non possa essere rivoluzionario, o forse sarebbe meglio dire, ancora in grado di costruire comunità, di stimolare la creazione artistica e l’inclusività. La questione è che buona parte del clubbing di cui normalmente discutiamo ormai è puro mainstream, omologazione estetica, mancanza di sostanza e di consapevolezza. E’ un mondo saturo e ipertrofico che genera un flusso ormai indistinto di cose tutte simili in cui si fa fatica a isolare quel poco che vale la pena di ascoltare e partecipare. Ne più ne meno che il resto della nostra vita attuale, siamo tempestati sopraffatti di stimoli, i nostri sensi sono anestetizzati facciamo fatica a selezionare e individuare le cose che hanno valore, perchè nonostante tutto di cose belle ne continuano a succedere e di musica stupenda ancora se ne produce tanta. Credo che al momento già sarebbe rivoluzionario poter tornare a ballare e sudare insieme prima di dimenticare cosa significa.