Ma allora ditelo. Ditelo che è una scelta politica, non sanitaria; ditelo che è più un problema di ordine pubblico e “clima” sociale, piuttosto che una necessità stringente. Ditelo onestamente: c’è un detto slavo che recita “reci istinu, pola ti se prašta” ovvero “di’ la verità, almeno per metà sarai perdonato”. Ditelo. Anche perché lo sappiamo: potreste anche avere più di un appiglio nel dirlo.
Ditelo che le discoteche e i posti dove si balla non vi stanno simpatici. Ditelo che non vi fidate di loro perché hanno primo di tutta una lunga fama da evasori e anche da imprenditori che non sono, ehm, precisissimi nel rispettare le leggi (fiscali e non solo fiscali). Ditelo che lo sapete bene che per anni hanno spessissimo dato per scontato che le capienze legali fossero impossibili da rispettare e, quindi, non rispettiamole. Ditelo che pensate che il mondo della notte sia di suo il mondo del grigio, dell’illegalità, delle cose losche, della “perdita di senno”, visto che in fondo la notte è fatta per dormire e il giorno per lavorare. Ditelo che trattare con buona disposizione il mondo della ballo e del concerto “libero” vi preoccupa perché pensate che sarebbe interpretato dal cittadino medio come il via libera totale ed assoluto, “non ce n’è coviddi”: perché se fanno lavorare pure quegli sfaticati del mondo del ballo allora vuol dire che veramente non c’è più nulla da temere (…e invece da temere ce n’è ancora, l’incubo Coronavirus non è passato, ci si infetta ogni giorni a migliaia e si muore a centinaia) e comunque, oltre al mondo della notte, è giusto essere sospettosi allo stesso modo verso la musica che sia fruita non da seduti. Un concerto da seduti è un contesto rispettabile, diamine, perché ricorda il jazz e la classica; un concerto stando in piedi ricorda invece i capelloni, gli invasati, gli arroganti e i drogati. Meglio quindi essere doppiamente, triplamente prudenti e sospettosi. E draconiani.
Dovreste dirlo, tutto questo, se così stanno le cose. Se così le vedete.
E dovreste farlo non solo per amore di sincerità. Ma per iniziare finalmente un confronto serio e costruttivo che inchiodi tutti alle proprie responsabilità.
Il mondo delle discoteche è sicuro di non meritare parte dei pregiudizi che gli piovono addosso? Ed è sicuro che non ha proprio “usato”, negli anni, questi pregiudizi per apparire come luogo di maggior fascino e più desiderabile? Vogliamo veramente dire che gli incassi in contanti al bar non aiutano il nero, e che le prestazioni artistiche sono sempre fatturate? Vogliamo veramente sostenere che alcune figure professionali “volanti” (l’amico che una tantum ti va a prendere il guest dj in aeroporto o in stazione, a cui allungare 50/100 euri cash) non chiamino al lavoro sommerso ed irregolare? Vogliamo veramente giurare che le capienze legali siano sempre rispettate? Vogliamo fare finta che non esista in generale un sistema per cui diverse istituzioni chiudano più di un occhio e fanno finta di non parlarsi fra di loro, visto che basterebbe ad esempio incrociare biglietti fiscalmente rendicontati e permessi di pubblico spettacolo per scoprire chi rispetta le capienze legali e chi no? Vogliamo veramente dire che nelle discoteche non giri stupefacente, e che nei concerti di un certo tipo non ci siano le canne?
Massì. Continuiamo così. Continuiamo nella saga dell’ipocrisia. Le istituzioni spesso sono mute, sorde ed inadeguate a comprendere i nuovi fenomeni di arte e socialità: lo sappiamo. Questo succede per limiti loro, va bene, ma succede però anche perché pure dall’altra sponda ogni tanto fa comodo così. Lo fa, sì. Lo fa o per pigrizia civica ed imprenditoriale; o per interessi (di chi ad esempio ha trovato un accordo “silenzioso” coi controllori istituzionali locali); o per incapacità di capire che la trasparenza sarebbe un valore aggiunto, un “boost” economico, e non un segno di debolezza o – peggio ancora – scarsa furbizia e scarsa abilità nel fare impresa. Perché sapete qual è la verità? L’Italia è (ancora) quel “paese dei furbi”, dove rispettare le leggi alla lettera è proprio degli stupidi e degli ottusi (…quanto sfottiamo i popoli centro-nord europei per questo?). Le istituzioni questo lo sanno; e allora per non lasciare praterie troppo libere ai “furbi” più cinici e senza freni, rendono più complicate, bizantine e vischiose le leggi, col risultato che alla fine viene sempre meno voglia di rispettarle, queste leggi. Perché esse pensano a se stesse e nascono per se stesse, vivono di vita propria ormai, sono diventate un arte a sé nello sforzo di provare ad intralciare le cavalcate dei “furbi-furbi”. E, effetto collaterale ma inevitabile di tutto questo, sono sempre meno sincronizzate col mondo reale. Sempre più astratte, sempre più astruse, sempre più arcigne, sempre più arzigogolate, sempre meno attuabili, sempre meno amiche del buon senso e del pragmatismo.
Questa è una dinamica perversa che si potrebbe e dovrebbe spezzare. Se pensate però che lo facciano di loro spontanea volontà le istituzioni, mmmh, siete troppo ottimisti: tolto qualche politico ed amministratore illuminato (per talento personale, per frequentazioni passate o per stato anagrafico), al grosso del nostro corpo amministrativo fa comodo, comodissimo avere un capro espiatorio posizionato nel “mondo della notte”, nel “rock”, nel “divertimento”, nei “giovani”. E’ infatti il recipiente più comodo e facile su cui rovesciare colpe, ipocrisie, storture ed inefficienze che arrivano invece da lontano (e che tanto hanno fatto per rendere l’Italia da decenni un paese in declino, quello a più bassa crescita di PIL, di innovazione e di benessere sociale fra i grandi del mondo. Bisogna insomma cambiare strategia).
La strategia – e molti operatori nel campo del clubbing e dei live se ne sono accorti, lo sanno e lo fanno, sperando che quando le cose cambieranno loro avranno il vantaggio del “prime mover”, i primi ad aver capito come cambiano le cose – è quella di far partire la rivoluzione dal basso. Da chi fa, da chi sta sul campo. Una rivoluzione fatta di una presa di coscienza: non ci accontentiamo cioè più di fare i magheggi di nascosto, di arricchirci (o anche solo sopravvivere…) grazie al fatto che le istituzioni chiudono un occhio sui nostri mezzucci per arrotondare i margini e noi la sfanghiamo. No: vogliamo fare tutto alla luce del sole. Perché ci rendiamo conto che c’è tutto uno stigma da sfatare e una cattiva fama lunga decenni da riscattare – non facciamo finta che questa cosa non esista. Ce ne prendiamo la responsabilità.
Servirebbe che Speranza, o chi per lui, dicesse serenamente “Non mi importa nulla dei vostri lamenti, tanto lo so che siete una categoria di evasori”. O anche (e una cosa non esclude l’altra): “Non mi sento troppo toccato dalle vostre richieste, quello che fate non è cultura, non ha valore di crescita sociale, è solo un modo per tenere buone le persone nel tempo libero dopo che si sono ammazzate tutto il giorno al lavoro”
Dovrebbero unirsi tutti a questa linea di condotta legata ad onestà e trasparenza, per quanto dolorosa e faticosa possa essere. Ma nel momento in cui ti unisci ad essa e nel momento in cui ci si uniscono (quasi) tutti quelli del settore, si può richiedere unitariamente ed a gran voce di intervenire subito su una serie di distorsioni tutte italiane: la tassazione assurda (vedi una tassa insensata come l’ISI, o l’iva che dal 22% si potrebbe portare al 10%), i regolamenti di pubblica sicurezza troppo stretti (la già nominata capienza legale: lo ripetiamo sempre, moltissimi locali a rispettare la capienza legale sarebbero sold out da mezzi vuoti, e i primi a lamentarsene sarebbero i clienti per la “atmosfera spenta”), agevolazioni fiscali e burocratiche (soprattutto per chi si avvicina al mercato per la prima volta), semplificazione degli adempimenti su assunzioni, collaborazioni, retribuzioni, contributi.
Hai voglia a chiedere, pretendere, strillare “Fateci riaprire, è un anno e mezzo che stiamo fermi”: ci si scontrerà sempre contro un muro o al massimo un’alzata di spalle ed un’elemosina, perché questa voce che chiede, pretende e strilla, beh, continua ad essere vista come poco credibile, irrilevante, falsa, pelosa. E quindi si ha buon gioco, ai vertici della politica, a continuare ad escludere il mondo delle discoteche e dei live non-seduti da protocolli di ripartenza, sapendo che non si incorre più di tanto nella impopolarità – visto che gli stessi clienti di discoteche e concerti prendono troppo spesso quel mondo lì come “poco professionale e molto aumm’ aumm’”, “un po’ così”, “bello, divertente, ma i lavori veri e seri sono altri”. Col fatto che si è sempre “venduto divertimento” alla fine andava bene a tutti, questa visione. “Massì, dai. L’importante è guadagnare”. Non diresti mai che un concessionario d’automobili o il proprietario di un negozio di abbigliamento faccia un lavoro “poco serio, più un gioco che un lavoro”: eppure spesso e volentieri sono persone che maneggiano fatturati molto minori rispetto al proprietario di un club o ad un’organizzatore di concerti.
Qua bisogna iniziare a farsi prendere sul serio: e se non lo fanno gli operatori del settore per primi, di sicuro dall’alto (la politica) e dal basso (l’opinione pubblica, potenziali clienti compresi) non lo si farà mai; per pigrizia o per convenienza, non lo si farà mai. Non almeno come prima mossa.
Ecco perché forse servirebbe uno choc.
Ecco perché forse servirebbe che Speranza, o chi per lui, dicesse serenamente “Non mi importa nulla dei vostri lamenti, tanto lo so che siete una categoria di evasori”. O anche (e una cosa non esclude l’altra): “Non mi sento troppo toccato dalle vostre richieste, quello che fate non è cultura, non ha valore di crescita sociale, è solo un modo per tenere buone le persone nel tempo libero dopo che si sono ammazzate tutto il giorno al lavoro”.
Sarebbe salutare, tutto questo. Giù le maschere. Giù l’ipocrisia. Su invece la necessità di dimostrare quanto questa sia una visione (potenzialmente) miope e sbagliata, quanto il settore di un certo tipo di intrattenimento abbia smesso coi mezzucci e abbia preso invece abbastanza coscienza del suo valore e delle sue potenzialità (e delle sue responsabilità). Chi in Europa e nel mondo ha investito nella notte, nei festival, nei concerti ha innestato un circuito virtuoso che si è tradotto in benessere economico e sociale. Questo anche perché certo mondo della notte, dei festival e dei concerti ha riformato se stesso ed ha iniziato ad operare in modo molto più professionale, volendo, anzi, pretendendo di essere preso come un settore ad alto tasso di complessità, rilevanza sociale ed innovazione.
Se questo accadesse, Speranza o chi per lui farebbe veramente fatica a non includere – se non per ultimissime – certe realtà nei protocolli di ripartenza. C’è voluta una personalità non politica (…uno insomma che per definizione opera sul campo senza troppe menate) come Figliuolo per fare da pungolo sul fatto che bisogna pensare anche a far riprendere a lavorare le discoteche: tutto questo è abbastanza assurdo. Figliuolo. Un militare, prestato alla logistica vaccinale.
Con lo sforzo di tutti, tutto questo può cambiare: lo sforzo dei politici più svegli, degli amministratori più laici e meno moralisti, della clientela più consapevole, degli operatori del settore più vogliosi di uscire da uno stigma che, infantile nasconderlo, loro stessi non hanno disdegnato di creare o anche solo di accarezzare nei decenni.
Forse sì, forse sarebbe veramente il caso di iniziare a dircele, le cose…
E forse sarebbe il caso, dal lato “nostro”, di iniziare a valorizzare tutte le situazioni in cui si manifesta una collaborazione virtuosa tra il mondo del clubbing e le istituzioni: Joseph Capriati che va a suonare alla Reggia di Caserta (accadrà domani sabato 29 maggio) è una vittoria per tutti, un benchmark significativo e un successo diplomatico di cui tutti potremmo far uso, invece di stare lì a questionare sul “Eh ma chissà come ci è riuscito”, “Eh ma chissà quanto avrà pagato”, “Eh ma chissà che pubblico subumano si porta dietro”, “Eh ora cerca di rifarsi un’immagine”: sempre bravissimi a fare le pulci al nostro interno, noi… e parliamo anche del pubblico e dei semplici appassionati, non solo gli addetti al settore, sempre pronti a criticarsi a vicenda e a dispensare patenti di chi è più o meno puro, mai capaci di mettere da parte gelosie, ego e rivalità per combattere per una causa comune: la dignità di un settore, la dignità di una cultura e di un’estetica che muove le passioni di milioni di persone in giro per il mondo, la dignità di un sistema che crea lavoro ed occupazione.
E visto che alle parole vogliamo far seguire i fatti, applichiamo il “Ma allora ditelo” anche alle domande ed ai dubbi sullo streaming di Capriati dalla Reggia di Caserta. Facciamolo, sì. Quanto avrà pagato: di sicuro non poco, non è come fare un stream dal salotto di casa propria ripresi dell’iPhone, e non è nemmeno escluso che per l’utilizzo di un luogo dal prestigio così globale sia stato pagato qualcosa. Che pubblico subumano si porta dietro: nessuno, è uno streaming, ma riguardo al “pubblico subumano” è ormai tanto tempo che Capriati in ogni uscita pubblica fa una grande opera di sensibilizzazione culturale e sociale attorno al clubbing ed alla sua fruizione, disconoscerlo è disonesto (ed è altrettanto disonesto assegnare la vera – ?! – musica elettronica solo a determinate fasce sociali). Cerca di rifarsi un’immagine: poniamo anche che sia così – è una colpa o un merito?
Quello che è certo, è che il fatto che uno degli esponenti più in vista del mondo del clubbing va ad esibirsi in streaming dalla Reggia di Caserta, un luogo che tutto il mondo ci conosce e tutto il mondo ci invidia.
Abbastanza da far venire qualche dubbio anche a Speranza.