“È ancora possibile costruire un evento in un’epoca di distanziamento e diffidenza?“: con questo puntuale interrogativo, oggetto di una round table a cura dello IAAD di Bologna, si apre la 12ma edizione di RoBOt festival. Sicuramente l’edizione più impegnativa dal punto organizzativo e logistico; tuttavia, forse proprio a causa di tutte le restrizioni legate alla contingenza dell’emergenza sanitaria, si è rivelata di grande stimolo per Associazione Shape – la crew che dà vita al festival – nell’ideazione un ricco cartellone composto certo di soli artisti italiani, ma non per questo privo di respiro e appeal internazionale (a cominciare dalla preview del 12 giugno con Not Waving). Anzi. Primi protagonisti ma soprattutto complici ed artefici di questa line up di tutto rispetto i tre main act in programma, ovvero Caterina Barbieri, Lorenzo Senni e Donato Dozzy, invitati a suggerire nomi di valore o richiamo cui affiancare certezze o novità della scena musicale elettronica locale e non, nonché talk, panel, performance, workshop, installazioni e proiezioni selezionati dalla direzione del festival. E così i tre fiori all’occhiello di RoBOt12, insieme a quelle che nel manifesto di questa edizione, stilato dal critico e curatore d’arte Marco Mancuso vengono definite “eccitanti e ignote prossimità“, hanno attirato complessivamente nei tre giorni di programmazione ben 4000 persone.
RoBOt riparte da dove si era fermato un paio di anni fa, ossia da DumBO, l’ex scalo ferroviario dismesso del Ravone, trasformatosi oggi in un vero e proprio parco della musica e delle arti con i suoi ampi spazi e le sue tre venue: il Binario Centrale (largo e lungo capannone dedicato ai main act e pensato prevalentemente per calarsi in una dimensione di ascolto), la Baia (accogliente spazio ristorativo coperto con palco annesso, definito dallo stesso direttore artistico Marco Ligurgo “Il cuore del festival“), e infine lo Spazio Bianco (struttura deputata ad ospitare la nuova sezione “Arts and Learns”, curata dalla nuova direttrice di Shape Elisa Trento, dedicata a talk, workshop, screenings, performance ma anche a installazioni ed esperienze VR). “Spazio Bianco“: nome quest’ultimo che, a coloro che hanno superato i quarant’anni, non può non riportare alla memoria la storica sala concerti del Link di via Fioravanti (la famigerata Sala Bianca, bella ma dall’acustica avventurosa), esperienza quest’ultima che – insieme a quella del Sonar di Barcellona – fra un panel e una performance affiora peraltro sulla bocca di diversi addetti ai lavori. Si allude al contesto post industriale e alle molte proposte in linea con quello che, dalla metà degli anni Novanta alla metà degli anni 2000, è stato fra i principali punti di riferimento per la musica elettronica e le arti digitali in Italia (e non solo); ma anche alla densità di eventi e all’organizzazione che hanno davvero poco da invidiare al noto festival barcelloneta (forse la puntualità svizzera e certamente le presenze – ma ha senso parlare di presenze in tempi di pandemia?). RoBOt festival quest’anno mostra subito il suo spessore anche a partire da un elemento apparentemente irrilevante: la musica utilizzata per tutti i cambi palco – la musica dell’assenza dal palcoscenico insomma – è “Propiedad Prohibida”, strumentale del 1974 di Franco Battiato sconosciuta ai più, velato e amorevole omaggio al compianto Maestro e al suo contributo alla musica elettronica e sperimentale.
(Una visione d’insieme; continua sotto)
Altro accordo maggiore della ripartenza condizionata dalle restrizioni legate al Covid, è l’impressione che in questa edizione, rispetto alla precedente del 2019, il pubblico, almeno quello del Binario (che quest’anno ha pagato per una sedia numerata e sa che non potrà rientrare in questo spazio più di tre volte), sia un pubblico attento e consapevole del livello della proposta artistica alla quale si trova ad assistere. La prima serata al Binario Centrale (capienza circa 500 sedute) è sold out. Sul palco Katatonic Silentio, al secolo Mariachiara Troianiello, producer e sound designer milanese, ideatrice e conduttrice di Expanded Radio Research Unit su Radio Raheem e appena approdata sulla tedesca Ilian Tape con il suo EP “Tabula Rasa”. Il suo set parte in sordina, fra atmosfere inquietanti. Suoni cupi, intervallati da momenti di tensione, tonfi e rumori sordi che evidenziano involontariamente l’assenza di elementi visivi da questo set così finemente scolpito; set che tuttavia all’improvviso vira verso una sorta di future dub, scandito da colpi di rimshot avvolti e dilatati da riverberi e delay, accendendo infine il pubblico che inizia letteralmente a ballonzolare sulle sedie. Poco prima della sua performance Mariachiara aveva dialogato nello Spazio Bianco della sua attività di produttrice e ricercatrice con Carolaina Losa, qui in rappresentanza di SheSaidSo, la rete globale di donne che lavorano a vari livelli nell’industria musicale. Perché è questa un’altra gradita novità di RoBOt12: un’edizione dove si riequilibra la presenza di genere, allineandosi alle (ahinoi) sempre più necessarie pratiche di inclusione di genere promosse dai festival internazionali, seguendo l’esempio del Primavera Sound. Ci sono infatti in line up, oltre a Caterina Barbieri e ed Eva Geist, tante altre artiste: a partire dalla giovanissima Carolina Martines del collettivo Undicesimacasa, alla quale spetta il compito di aprire il festival facendo acclimatare gradualmente il pubblico della Baia, passando per NicoNote, Simona Faraone, Adiel e ancora Paula Tapes, Serena DiBiase, Laura Pol dei Project-TO, Guiot e Tadleeh.
Quest’ultima è la nuova incarnazione musicale di Hazina Francia, produttrice di origini indiane residente a Milano, già conosciuta come Petit Singe. Fresca di debutto sulla berlinese Yegorka, Tadleeh è la seconda artista in scaletta al Binario Centrale venerdì sera, purtroppo penalizzata dalla concomitanza del suo show col pirotecnico spettacolo di fuoco dei Mutoids all’esterno, nella Piazza del Ravone (una vera chicca che si replica il sabato sera davanti agli occhi sgranati e alle bocche spalancate di decine e decine di persone). La sua performance punta sulla fisicità: la console viene spesso abbandonata mentre Hazina, in armonia con il suo nuovo moniker che in indiano significa “caos”, si muove da un lato all’altro del palco, grida, emette suoni gutturali, danza scompostamente su ritmi tribali e cavernosi suoni ambient conquistando sul finale pubblico e applausi. Nel mentre alla Baia Carolaina Losa propone uno scoppiettante set electro e dance che apre un varco per la solare ed energica disco con basso e tastiere suonate dal vivo del produttore e polistrumentista italocanadese Bruno Belissimo, ormai di casa a roBOt, seguita dal sound afrofuturistico di Khalab, al secolo Raffaele Costantino, il noto produttore nonché conduttore di MusicalBox, in esibizione in trio e fresco dell’uscita del suo ultimo lavoro “M’Berra”, registrato in un campo profughi della Mauritania insieme a musicisti del Mali e tuareg e uscito lo scorso aprile per la Real World di Peter Gabriel.
L’atmosfera alla Baia è decisamente molto lontana da quella che si respira nell’ampio spazio del Binario, illuminato solo da alcuni coni di luce in movimento sul palco, dove si stagliano due sagome longilinee: Caterina Barbieri e Carlo Maria Amadio presentano il progetto Punctum, nato dalla loro collaborazione durante una residenza artistica all’Elektronmusikstudion di Stoccolma nel 2016. Come su “Remote Sensing”, l’album che racchiude l’esito di questa esperienza, tocca alla galvanizzante “Glory Bitch” dare il via a un cullante avvicendarsi di rimbalzi e incastri ritmici generati da un oscillatore armonico Verbos in dialogo con la storica accoppiata di drum e bass machines Roland TR606 e TB303, i cui i suoni distintivi attraverso risonanze e riverberi vengono dilatati e scarnificati. Il pubblico si lascia trasportare dal crescendo di volume e tensione di questi loop di suoni inediti, che incedono lenti ma avvolgenti e che una volta raggiunto il climax lentamente scemano sino a fondersi con un caldo e lungo applauso. Altrettanto atteso sale poi sul palco Lorenzo Senni che porta a RoBOt “Scacco Matto” (2020), sua seconda prova su Warp incensata dalla critica di tutto il globo (vedi ad esempio Pitchfork), in cui l’artista cesenate, ora residente a Milano, prosegue nella sua opera di destrutturazione della trance: un voyeuristico approccio alla rave music degli anni ’90, privata di batterie e sospesa nella tensione dell’immediato momento precedente al drop, percorso artistico e metodologico inaugurato ormai quasi dieci anni fa con “Quantum Jelly” e oggi evolutosi sino a comprendere tracce come quel delicato mantra in progress che è “Canone Infinito”, alle prime note del quale nella sala si solleva un boato. Lorenzo poi prosegue con le frenetiche sequenze di arpeggi di synth che vanno a comporre le melodie e le intricate ritmiche del suo nuovo lavoro; nel mentre si agita, saltella, rotea su se stesso e ha su di sé la piena attenzione della sala. Il pubblico esulta sulle sedie e grida ad alta voce il suo nome, ben evidenziato anche da un gigantesco striscione alle sue spalle, per ritrovarsi infine a fischiettare “THINK BIG” che avvia il set a un’applauditissima chiusura.
Ma se sui main act si va (più o meno) a colpo sicuro, è sulle nuove proposte che si gioca la partita del festival. Una partita che vede certamente sul podio i Salò. Rivelazione dell’edizione 12 di RoBOt, il collettivo di oscuri stregoni della scena musicale sotterranea romana porta in scena un onirico baccanale noise in quattro atti spalmato fra le serate di venerdì e sabato, baccanale di cui anche il pubblico, che a poco a poco finisce per circondarli sedendosi o sdraiandosi sull’ampio e lungo telo bianco che si dipana dalla batteria sino a metà della Spazio Bianco, diventa parte. Magnetico è anche l’act che introduce la seconda giornata di RoBOt alla Baia. Qui NicoNote e Wang Inc presentano in anteprima “Limbo Session Vol 1”, un visionario viaggio che si snoda fra performance, improvvisazione e spoken word poetry condotto dalla istrionica e carismatica artista italo-austriaca, già frontwoman dei Violet Eves e cofondatrice del Morphine (il leggendario privé “arty” del Cocoricò), la cui inconfondibile voce si muove sinuosa o sfacciata su versi di Lawrence Ferlinghetti, Amelia Rosselli ed Edward Kamau Brathwaite, sostenuta o contrappuntata dagli eleganti tappeti elettronici del produttore Bartolomeo Sailer. Nel frattempo, al Binario, un’altra istituzione del clubbing, Simona Faraone, presenta un dj set ricercato che non manca di ironia, con samples degli annunci della metropolitana di Roma, seguito da un live set di Matteo Scaioli col suo imponente Harmograph, pseudo gong da lui stesso costruito che si interfaccia con altri prototipi usciti dal suo laboratorio regalando una singolare parentesi sperimentale elettroacustica.
Sul palco della Baia, con maschere e lunghi mantelli metalizzati (e col caldo che fa non c’è da invidiarli…), appaiono invece in trio i Gianpace, per presentare il nuovo progetto anticipato dal singolo “Golden Teacher” (per chi lo ignorasse si tratta del nome di una potente varietà di psilocibe), ispirato durante il lockdown a Giulio Fonseca/Go Dugong da esperienze lisergiche e letture intorno al nuovo rinascimento psichedelico. Un set caratterizzato di conseguenza da un sound rarefatto e, appunto, psichedelico (con involontarie eco hawaiiane, ma in fondo è un “rischio” che si corre spesso quando spuntano delle steel guitars). Seguono I Tamburi Neri di Andrea Barbieri e Claudio Brioschi, annunciati come una delle rivelazioni di questa edizione, che unendo i bassi e i beat della techno a uno spoken word à la Emidio Clementi (sagace osservazione di una compagna di festival) fanno incetta di consensi. Ma l’attesa sabato sera è ovviamente tutta per il progetto studiato ad hoc per il festival da Donato Dozzy. Il “professore”, affiancato dai suoi sodali Giuseppe Tilieci/Neel (l’altra metà dei Voices From The Lake) e Filippo Scorcucchi (metà degli LF58 insieme a Neel), presenta uno show che forse può aver lasciato interdetto chi ingenuamente si aspettava sessanta minuti di cassa dritta ma che certamente non ha deluso. La formula ideata dai tre per ovviare al fatto che non si possa ballare? Costruire un set lisergico di oltre un’ora diretto dritto alle sinapsi, coadiuvato da psichedelici visuals astratti sul grande wall alle loro spalle dove, con lenti movimenti fluidi, si alternano evanescenti ghigni sardonici, caleidoscopiche macchie di rorschach e lisergici cumuli di nembi.
(Dozzy e soci in azione; continua sotto)
A seguire, Eva Geist, al secolo Andrea Noce, chiude la serata al binario con layer poliritmici e accordi a tratti dissonanti, impreziositi di tanto in tanto da timide incursioni vocali (Eva è anche cantante, come sanno bene i fan de Il Quadro Di Troisi) che lasciano poi il posto a dub e ragga e ritmi sincopati. Nella Spazio Bianco è invece Guiot di Umanesimo Artificiale a catalizzare l’attenzione, con un serratissimo set di musica algoritmica generata grazie al live coding – tecnica performativa che si avvale della proiezione su schermo di ciò che avviene sul monitor del laptop dell’artista, dove stringhe di algoritmi creati sul momento improvvisando, grazie a un software autocostruito, vanno a formare una partitura musicale viva e in movimento. Sempre qui, dopo un travolgente live dei romani Mai Mai Mai, che se non fossero ormai di casa si potrebbero certamente aggiudicare il titolo di seconda rivelazione del festival, la giovane poetessa, performer e compositrice Serena DiBiase fa sfoggio dei progressi avvenuti in questo ultimo anno di lockdown con un set fatto di visuals, loop e sampler dove la sua voce, sussurrata, recitata o cantata, viene filtrata, velocizzata, elaborata e moltiplicata sino a diventare sul finale un maestoso coro polifonico, mentre in Baia tocca infine alla deep techno di Adiel, resident dj del Goa e titolare della label Danza Tribale, chiudere un’altra serata di proposte decisamente variegate.
La domenica si parte presto. La prima parte della giornata, dedicata ai laboratori con i bimbi curati da Il Giardino Segreto, Coderdojo e Bubble (il dj che si nasconde dentro un coniglio gonfiabile alto tre metri), scivola poi lentamente nel tardo pomeriggio con la new e no wave di Steve Pepe, altro esponente insieme ai Salò di quella Roma underground che ha dato i natali a esperienze come Tropicantesimo e Pescheria, già peraltro collaboratore di Eva Geist. A seguire, Godblesscomputers, assente dal palchi dal palco da oltre un anno: alle sue spalle scorrono visuals che includono anche il clip del suo esordio “Nothing to Me”, il tutto fra ritmi neo soul e ragga che rivendicano a colpi di sample (hey, c’è anche Missy Elliot con “Gossip Folks”!) le sue radici hip hop. Salgono in scena poi Capofortuna, l’act creato da Rame dei Pastaboys assieme ai fratelli Cardelli (vedi alla voce Funk Rimini), che scaldano decisamente l’atmosfera con un set che termine con una jam session corale ed esaltante a cui prendono parte anche Bruno Belissimo al basso e Diego Grassedonio al sax. Tutt’altra è invece l’atmosfera in Spazio Bianco, in una giornata dedicata alla musica per immagini, sia con una masterclass a cura di Project-TO che con una sonorizzazione targata Zimmerfrei su spezzoni di “Almost Nothing”, pluripremiata pellicola che racconta la vita della comunità scientifica del CERN di Ginevra, cui segue la proiezione di “Sisters with Transistors” di Lisa Rovner: un prezioso documentario (nei cui credit appare la sound designer Marta Salogni, altra nostra eccellenza, ormai di casa a Londra) che mette in evidenza il contributo fondamentale nello sviluppo della musica elettronica di compositrici quali Clara Rockmore, Daphne Oram, Bebe Barron, Pauline Oliveros, Delia Derbyshire, Maryanne Amacher, Eliane Radigue, Suzanne Ciani, Laurie Spiegel, strappando lacrime di commozione fra i presenti.
Dunque così giunge al termine RoBOt12, il primo grande festival dopo l’anullamento di lockdown e coprifuoco. L’annullamento cioè di quei confini che ci hanno tenuti separati, come suggerisce quel “Borders” che è il tema dell’edizione di quest’anno; e non è certo facile restituire con parole la sensazione che lasciano queste tre lunghe giornate di buona musica e – mai come quest’anno – di esplorazione, scoperta, incontro, condivisione e scambio. Mutuiamo dunque volentieri il conciso ma calzante commento in chiusura a un post di Instagram di uno spettatore d’eccezione, Alessandro Cortini, presente fra il pubblico del Binario durante la prima serata del festival: “Great way to start again“.
Foto di Richard Giori