Nella afosa estate perugina, ci troviamo catapultati direttamente nella pancia di uno tra i festival jazz più longevi e prestigiosi al mondo, insieme a colossi come Newport, Montreux, North Sea, Monterey. Mentre veleggia placido verso il 50esimo anniversario del 2023, Umbria Jazz fronteggia il secondo anno di stop forzato – si era fermato solo nel 1977, per non accendere ulteriormente le piazze già “calde”, e per una pausa di riflessione tra il 1978 e il 1982 – tra le criticità di un presente inevitabilmente avverso allo spettacolo dal vivo e i fantasmi di un ingombrante passato che il festival è costretto a gestire.
Quello che manca è il magnetismo elettrizzante generato dalla collisione tra pubblico e artisti, in questo Umbria Jazz distanziato, controllato, sanificato e scarnificato. La scelta di ritornare nel “main stage” dell’Arena Santa Giuliana è forse uno scatto in avanti verso la tanto agognata normalità? 1.700 posti consentiti in uno spazio che abitualmente, in piedi, ne contiene quasi dieci volte tanti: e il colpo d’occhio non lascia scampo. Forse una mossa audace, ma tra le sedute disseminate come superstiti di guerra nell’area sterminata dello stadio si aggira anche lo spettro della contingenza: la necessità di soddisfare la promessa di visibilità per gli sponsor, i patti istituzionali a cui tenere fede, l’urgenza di riportare il “brand” lì, dove deve stare.
(Wynton Marsalis & Jazz at Lincoln Center Orchestra – foto di Marco Giugliarelli; continua sotto)
Poco importano le dietrologie e i processi alle intenzioni: è la musica che ci sta a cuore, anche in questa straniante versione del festival come l’abbiamo sempre conosciuto. Ricorderò questo primo weekend di Umbria Jazz come una grande prova di coraggio, per il pubblico ma soprattutto per gli artisti. Partendo da Wynton Marsalis, che ha difeso come una roccaforte la sua interpretazione filologica dell’hard bop, insieme alla Jazz at Lincoln Center Orchestra. Perché se il fratello Branford ormai è classico, Wynton risale a un’era del jazz cristallizzata nell’ambra: richiama strutture compositive che hanno il potere di risvegliare nella memoria dell’ascoltatore qualcosa di estremamente familiare, anche se incastonato in epoche lontane. Questa imponente formazione, dove la componente WASP non la fa certo da padrona, è però profondamente americana: quell’America che noi abbiamo conosciuto attraverso i chewing-gum e le pellicole, nei nuovi passi di danza da apprendere, nell’idea di un orizzonte che ci avrebbe reso più liberi. Ma anche un’America nelle cui vene scorrono l’Africa, l’Europa, il mondo latino: perché se il sound dell’orchestra è incredibilmente smooth e addomesticato, non può d’altra parte evitare che a tratti riaffiorino tentazioni latin irrinunciabili ed elementari, che rievocano tempi lontani in cui ancora Tito Puente e compagnia non avevano insegnato ai bianchi come muovere il culo.
La serata del sabato oscilla tra due poli. Stefano Bollani, nel suo omaggio a Chick Corea, cerca di ricongiungersi idealmente con l’eclettico e inafferrabile maestro, mostrandone al pubblico il volto più ludico: Chick giocava con il “modo frigio” muovendosi con agilità tra la Spagna e il Sudamerica. E non può resiste alle tentazioni atlantiche Bollani, quando la moglie Valentina Cenni lo raggiunge sul palco per due brani del compositore brasiliano Nanan, regalando al pubblico un finale di lieve intrattenimento dal sapore televisivo. Verrà forse ricordata come l’edizione del distanziamento, quella del 2021, ma quanti si sono accorti della “tribuna VIP”? Tra i pochi, sicuramente lo stesso Bollani. Poco dopo l’inizio del concerto, l’artista guarda in alto, verso una delle quinte del palco: “Cosa sta succedendo lassù? State facendo un trasloco?”. Il privée è la vera la novità di quest’anno: si capisce quindi che istituzioni e jet set cittadino non siano abituati a sentire così da vicino le vibrazioni della musica. Diamo loro tempo, impareranno.
Quando Billy Hart sale sul palco, dopo Bollani, ha il temperamento inconfondibile di chi ha vissuto la storia del jazz senza salire alla ribalta, ma attraversando sempre dei crocevia incredibili. È lui l’uomo che ha messo le mani sulle pelli di quel capolavoro della black consciousness musicale che è “Alkebu-Lan: Land Of The Blacks” del Mtume Umoja Ensemble, oltre che su altri piccoli gioielli di casa Strata-East e su “On the Corner” di Miles Davis. In questo quartetto con Ethan Iverson al piano, il batterista non concede quasi nulla alle intemperanze free e alle odissee spiritual delle decadi passate; ma quando è lui a conquistare lo spazio, la libertà con cui abbraccia lo strumento e con cui ne dischiude le possibilità melodiche – forse uno degli ultimi rappresentanti del sublime approccio di Max Roach – sospende le strutture prevedibili del quartetto e apre a brevi scenari di cosciente spontaneità.
(Stefano Bollani e Valentina Cenni – foto di Marco Giugliarelli)
Domenica, terza giornata: il sole infuoca il parterre ancora alle 19, orario a cui Enrico Rava e Fred Hersch si ritrovano a esibirsi per lasciare spazio alla finale degli Europei di calcio. “Siete degli eroi voi, a stare lì seduti con questo caldo“, ci apostrofa Rava. “Ma lo siamo anche noi, che suoniamo con il sole in faccia“. La fatica sul volto del maestro, quasi ottantaduenne, è evidente. Anche Hersch non sembra particolarmente in forma, eppure riesce a intrecciare le trame di questo sodalizio con la consueta sensibilità, offrendo a Rava un tappeto discreto ma puntuale e vibrante su cui disseminare le sue note rarefatte.
Tra la classicissima “Old Devil Moon”, “Doxy” di Sonny Rollins e “Portrait in Black and White” – «Un omaggio a tre artisti che amo molto. Jobim che l’ha scritta, João Gilberto che l’ha cantata e Chet Baker che l’ha suonata» – riesco a socchiudere gli occhi e dimenticare il linoleum rovente del parterre, il cielo di un azzurro irreale e straniante, lo skyline modesto che ci circonda. Enrico Rava attacca “‘Round Midnight” e ti guida in una notte dell’anima dove i minuti scorrono freschi e cristallini, cesellati dalla sua tromba romantica. Un set circoscritto ma intenso, che lascia spazio alla seconda formazione con cui l’indomito Rava sfida la calura del palco: l’inossidabile Dino Piana al trombone, Franco Piana al flicorno, Gabriele Evangelista al contrabbasso, Roberto Gatto alla batteria e Dado Moroni al pianoforte. Una performance compatta e vivace, dove colpisce il trombone di Dino Piana: uno strumento di per sé complesso e ricco di sfumature, da cui il maestro ultranovantenne sa trarre un suono lucente e mobile. Fino alla chiusura con Ornette Coleman, una volata di stile che fa rimpiangere l’oscurità familiare dei club e l’abbraccio accogliente della notte.
Immagine di copertina: Marco Giugliarelli